À rebours

di in: Timbuctù

Non è facile ricominciare, tracciare un percorso mentale per riempire gli inevitabili, e incolmabili, buchi di ogni ricerca: ritornare, rivedere, ripensare… Un nuovo periodo di lavoro tra i Lobi del Burkina Faso. Sfidare un baratro di quattro anni di assenza. Forse, avrei dovuto iniziare un quaderno nuovo, senza tracce di terra rossa né striature appiccicose dovute alle mani di bambini che oggi saranno diventati ragazzi, se ce l’avranno fatta a crescere. Decisione di non rileggere le pagine precedenti, anche se, vero nonsenso, l’ultima riporta la ricetta del poulet au coco dettata da madame C. e, sgradevole come la sua voce acuta, torna il ricordo di quei tre giorni in cui il mio corpo sembrava fluttuare senza mai trovare una superficie solida su cui posarsi, il feroce mal di testa: probabili conseguenze di imprecisate sostanze ingerite durante una sorta di rituale d’iniziazione che aveva segnato la nostra partenza dal villaggio.

Sul monitor dell’aereo scorre la simulazione del viaggio: Francia, Spagna, Majorca, Algeri, poi la freccia si muove nello spazio vuoto, smisurato, del deserto del Sahara. Dall’oblò si scorgono solo matasse di nuvole; brusco il buio senza mezzi toni: grigio chiaro – nero assoluto. Usciremo dalla apolidia di questa scatola volante argento e verde per sbarcare all’aeroporto di Ouagadougou. Nessun rito di passaggio, nessuna visione mediatrice per riconoscere un paesaggio suscettibile di ripetere se stesso all’infinito. E io? Sarò capace di replicare quella che ero? Ritrovare tolleranza, curiosità, pazienza, tenacia, lucidità…? E loro? Si riaccenderanno complicità, memorie, affetti? Qui più che altrove, l’amicizia ha bisogno di fisicità; lo scarso vocabolario in una lingua estranea richiede conferma attraverso gestualità, sguardi, vicinanza dei corpi.

In città incontro uno dei figli di Tiofere, il saggio indovino guaritore che ha pazientemente guidato i miei passi lungo gli anni. Affiorano ricordi: la sua morte avvenuta due anni fa seguita da quella del figlio minore, Membete, colpito dalla lebbra, era il prediletto destinato a succedergli; la maledizione che pesa sulla famiglia, il furto sacrilego delle splendide statue dell’altare familiare, la grande casa una volta piena di gente e ora semi spopolata e in rovina, gli altari distrutti perché nessuno più ha la forza sufficiente per gestirne il culto. Dice che l’albero dei rimedi è diventato gigantesco ma i rami non possono essere tagliati perché hanno scordato il rituale necessario.

Ascolto, ma mi sembrano parole di sabbia, basterebbe una folata di vento per spazzarle via. Non so perché, o forse sì, mi viene in mente la storia raccontata mille volte della mia prozia Amélie morta bambina di una malattia contagiosa mentre si trovava in un luogo di villeggiatura e trasportata segretamente all’interno di una botte per poter essere seppellita nella tomba di famiglia. Quando dopo trent’anni è stata riaperta la bara, Amélie è apparsa bella come prima, con i boccoli biondi e l’abito di seta azzurra. Poi entrò un soffio di vento e lei scomparve. È rimasto solo un mucchietto di polvere bianca più fine della cenere.

Prima di lasciare la città, al mercato per comprare le tradizionali offerte d’arrivo: fiammiferi, sale grosso, tabacco da fiuto che di fatto i Lobi masticano invece di annusarlo. Non andremo subito al nostro villaggio, intoppi burocratici e la presentazione del libro collettivo al museo locale obbligano a una sosta a Gaoua. La famiglia libanese che dal lontano 1977 ci ha sempre garantito il rifornimento dell’introvabile benzina ha aperto un piccolo albergo: rassicurante familiarità, così come familiare è il cronico mal di schiena della maman, l’ottusa impermeabilità del marito, l’isterica dolcezza della figlia. Una giornata intravvista tra le ciglia abbassate, non sopporto, oggi, questa luce spietata che non si concede la tregua di una minima ombra: bianco ghiaccio, grigio acciaio, giallo arancio, rosso, viola e poi nero. Sdraiata, osservo la maman preparare le frittelle; la padella dell’olio sfrigola tra le sue grasse cosce, le dita arrotolano la pasta in sfoglie sottili attorno a grumi di carne; gesti sapienti che lo sguardo non ha bisogno di guidare. Arrotola, sospira, arrotola e guarda nel vuoto. Attorno a lei c’è odore e colore di Mediterraneo.

È il momento di affrontare il ritorno al villaggio dove abbiamo vissuto, sia pure a periodi alterni, per sette anni; molti dei nostri amici sono morti nel frattempo, la strada sterrata e  il sentiero tra i campi di miglio sono gli stessi ma l’inquietudine è per ciò che ci sarà alla fine del percorso. Un giorno bianco, senza parole, segno dolente di un cammino a ritroso in cerca non di qualcosa ma della sua traccia. Un cammino già compiuto, incontri senza tensione né stupore. Forse, lieve malinconia: persone e cose sono come le avevo lasciate ma sento che oggi non hanno spessore, sono vuote di meraviglia. La consistenza era l’intimità quotidiana, la scoperta era l’appartenere, anche se provvisoriamente, a quella realtà, condividere. Forte sensazione di assenza, mia, dell’attorno. Poi, la sera col buio, tornano le parole della lingua che credevo d’aver scordato; le vecchie donne della famiglia mi chiamano storpiando come sempre il mio nome, con le loro voci scricchiolanti rievocano, non hanno dimenticato, minuti particolari dei nostri incontri passati e persino il colore della medicina che ho dato loro e che le ha così guarite…

Il tramonto è viola e rosso, poi la notte; le donne accendono il fuoco per preparare la birra di miglio e all’improvviso ritrovo il giusto senso del tempo. Inutile aver fretta, inutile cercare la misura delle cose; gesti pacati, parole mormorate, pensieri lenti. Dimentico che sono dieci ore che sto seduta su di un sasso, che una capra sta bevendo nel mio bicchiere; sono già coperta di bolle per le punture d’insetti e l’amica Yeri che mi strofina con un limone ripete un buffo complimento che avevo scordato: “Mauvais, Jo, ta peau est douce comme celle du porc” (“Accidenti, Jo, la tua pelle è morbida come quella del maiale”).

La tomba di Tiofere: un tumulo di terra calpestato da capre, bambini, cani e polli; accanto hanno costruito una casetta in mattoni e cemento perché il suo spirito possa venire a riposarsi ma sopra al corpo c’è solo terra perché il cemento non gli impedisca di udire le voci dei  familiari e a loro sia possibile ascoltare la sua. L’ombra sotto al grande mango è vuota, silenzio; resta il tronco levigato dall’uso su cui il vecchio poggiava la testa durante le lunghe ore passate insieme, io a domandare e lui, pazientemente, a cercare di mediare tra la forza del segreto e il desiderio di accompagnare la mia ricerca di conoscenza. Nell’ultimo incontro aveva serenamente parlato della morte che sentiva vicina assicurandomi che il nostro dialogo non si sarebbe interrotto ma ora i miei pensieri non trovano eco come invece avveniva quando, in mancanza di parole, la risposta giungeva attraverso un battito di ciglia o un cenno del capo.

Poi, la tomba di Dibiri e di San San, che hanno seppellito  nella stessa fossa, fratelli gemelli inseparati anche nell’al di là. Sono tombe su cui ci si siede a parlare del raccolto, del nuovo pozzo, di bambini nati, di altre morti; di un pericolo incombente: la riapertura dei cunicoli scavati al tempo della colonizzazione francese per l’estrazione dell’oro. Questo comporterà inevitabilmente l’abbandono massiccio della coltura dei campi e l’incubo del recupero di antichi atroci rituali volti a propiziare il ritrovamento del prezioso, e maledetto, materiale.

Inatteso passa Adama, un danzatore peul sordomuto conosciuto anni fa: la conversazione è surreale, attraverso i suoi gesti ci porta con lui nel viaggio che ha affrontato per venire sin qui, è di Tera, nel Niger; nei suoi occhi e negli arabeschi tracciati dalle  lunghe dita vediamo la carestia che quest’anno ha colpito il suo paese, la morìa di cammelli, il figlio maschio che gli è nato e non è sordo perché reagisce alla musica…

Mi sveglio in piena notte, una giovane sposa che da poco fa parte della famiglia sta per partorire ma il bambino non esce, chiedono il mio aiuto. Nella stanza oscura ci sono solo le lunghe ombre di una debole lampada a petrolio; la madre,  una ragazzina di forse 15 o 16 anni, sta seduta su uno sgabello circondata dalle altre donne, non un grido; poi, la bambina esce dal suo ventre e viene subito posata a contatto con la terra perché questa la riconosca come essere umano scongiurando una sua possibile appartenenza al mondo degli spiriti malefici. La tradizione vorrebbe che madre e figlia restassero isolate per quattro giorni ma sappiamo che il tetano quest’anno ha già fatto molte vittime tra i neonati e le puerpere; ogni interdetto ha tuttavia un suo lato negoziabile: l’automobile è un luogo chiuso e al locale dispensario è possibile avere il siero per madre e figlia. La piccola è stata chiamata Dinnerofatè, che significa “quella che va in giro di notte” (sottinteso, con i Bianchi). Dunque sono diventata responsabile di questa minuscola bambina che, sistemata in un catino di ferro smaltato dorme tranquilla, certo ancora inconsapevole delle enormi difficoltà che dovrà affrontare per diventare grande.

La sera sul tetto terrazza è il momento delle notizie portate da chi rientra da un viaggio o anche solo dal vicino mercato; chi arriva mi saluta dicendo “sei tornata”,  un’affermazione e insieme una domanda che già contiene la risposta: per quanto, sino a quando, poi te ne vai? E io stessa mi chiedo se davvero sono tornata.

La sera è il tempo dei racconti; le storie che gli anziani narrano hanno spesso come temi eventi del passato, episodi della vita sociale o avvenimenti comuni  resi fantastici perché gli attori sono in prevalenza animali o elementi della natura umanizzati; i bambini, zitti, in attesa, stanno raggruppati e di loro si vede soltanto il bianco degli occhi. Stasera in scena – perché di una vera rappresentazione si tratta – sono i tempi antichi quando i Lobi ancora non conoscevano la stoffa e le donne vestivano gonnellini di foglie. La vecchia O’O rievoca la sua gioventù: il marito cacciatore che fiero rincasava  annunciato dall’odore del sangue dell’animale ucciso, i figli che non emigravano ma restavano a coltivare, i granai sempre colmi… La sua voce flebile si fa via via più forte, il  corpo ricurvo mima l’uragano che anni fa ha sradicato il secolare baobab; vibra e si flette sotto la violenza che ha distrutto il granaio del vicino e fatto volare nel cielo capre e polli.

Cosa mi fa amare tanto questo luogo? Un sentimento la cui intensità aumenta per sottrazione:non la natura, piatta, monotona, avara di bellezza; non il clima, caldo afoso che fa sudare ma non penetra nelle ossa e vento che screpola la pelle. Forse la gente, gli incontri, gli scambi in una lingua che non domino e di cui devo pesare ogni parola che necessariamente esce ripulita da sovrastrutture, l’importanza di uno sguardo, di un sorriso, anche se i Lobi in genere non sono persone facili: fieri, suscettibili, basta un gesto o una parola sbagliata per scatenare il loro furioso malumore, la comunicazione che negli anni ho stabilita con loro ha toccato profondità mai raggiunte altrove.

Oggi è il mio turno di macinare il miglio sulla ruvida pietra cava, non ho dimenticato i miei primi goffi tentativi e ormai non ne spreco più nemmeno un chicco; le donne hanno invece rinunciato a chiedermi di cantare (inesorabile, l’unico motivo che mi veniva in mente era “quel mazzolin di fiori”!). Negli anni ho registrato molti loro canti di macina:  amori tristi,  viaggi sognati,  paure e speranze ma anche  invettive ironiche contro gli uomini con espliciti riferimenti sessuali che il canto liberava dagli  interdetti di parola imposti dalla tradizione.

Ieri c’è stato gran consiglio e sebbene nessuno me ne abbia fatto cenno intuisco che la decisione mi riguarda: quanto è legittimo svelarmi ancora, quanto abbia dimostrato di essere degna di fiducia tacendo su rituali cui avevo occasionalmente assistito ma che dovevano restare segreti. Sono convocata all’incrocio di due cammini: l’uno che si diparte dalla casa, l’altro che vi si dirige. Un luogo speciale dove vengono sepolti i bambini morti poco dopo la nascita  chiamato kher’a bur’a, “ritorna alla donna” (alla madre) per garantire a quell’essere incompiuto la possibilità di rinascere e restare sulla terra sino all’età matura. Il messaggio è chiaro: anche quando sarò lontana il mio posto non verrà cancellato, ossia, ogni mio arrivo non sarà un ritorno ma la materializzazione di una presenza e il cammino che percepivo a ritroso è solo un passo in più di un percorso che non ha avuto un inizio e non avrà una  fine.

 

Febbraio 1990