Apice, un posto morto che fa ben sperare

di in: Paesologia

Apice, la chiesa.

Apice è a pochi chilometri da Benevento, a pochi chilometri dall’autostrada e dal luogo natale di padre Pio. Paese vecchio (con maglia urbanistica a conchiglia) e paese nuovo (con maglia urbanistica indefinibile), distinti e separati, uno di fronte all’altro, a tre chilometri di distanza. Fra l’uno e l’altro c’è il cimitero. Intorno le case di chi abita in campagna, quasi 2500 persone.

La prima volta che vidi Apice e i suoi colori mi venne una bella luce nella mente e un po’ di pace al cuore. Ci sono tornato con l’inquietudine in piena efficienza e la distrazione per i miei crucci mi ha portato al paese nuovo.

Nell’ufficio anagrafe, arredato col poster del papa tedesco, chiedo di sapere il numero degli abitanti e le impiegate mi dicono di fare domanda scritta: la stessa risposta che mi avevano dato durante la mia precedente visita. Arriva il  sindaco. Un po’ di parole solite sui soliti sfaceli della politica. Sto in piedi e ho lieve senso di vertigine. Il mio interlocutore si chiama Raffaele Giardiello, è uomo Udeur e alle scorse elezioni si è battuto contro uno del suo stesso partito. Una terza lista era capeggiata da un seguace di Berlusconi.

Vado a incontrare il vicesindaco che è stato primo cittadino senza alcuna interruzione dal 1956 al 2005. Lo trovo seduto dietro una scrivania sgombra di carte. Muove le mani intorno alle ciglia, sembra che stia provando ad adattare il suo sguardo alla mia presenza. Ha fama di essere uomo di poche parole e ascoltandolo parlare con buona lena penso che sto facendo le domande giuste. Provo a portare il discorso sul personale, ma lui è di formazione idealista, uno studioso di paese prestato alla politica: ha fatto l’insegnante, il direttore e poi l’ispettore scolastico. Mi parla in continuazione dell’idea di riportare in auge l’educazione permanente, praticamente la scuola per gli adulti. Gli rispondo un po’ facilmente che una scuola , pessima, c’è già ed è la televisione. Ma quest’uomo non si scompone mai, anche quando si parla di cose che non gli piacciono. Lui dice che nella sua vita ha cercato sempre di trarre il meglio da ognuno. Un altro concetto che gli sta molto a cuore è quello delle culture locali e della necessità di studiarne i suoi simboli prima che svaniscano completamente. In fondo anche lui è un paesologo e non lo sa. Cerco di estorcergli qualche giudizio sui tanti uomini politici che ha conosciuto. Continua a non sbilanciarsi. Il suo partito di riferimento è stato la Dc e adesso è la Margherita, ma non è persona a cui puoi mettere una tessera in tasca. Avesse avuto più velleità e narcisismo, sicuramente lo avremmo visto tra i banchi del Parlamento. Nonostante abbia vissuto moltissimo da seduto, è arrivato a ottantacinque anni senza molti affanni. Gli chiedo se soffre di qualcosa: prostata, diabete, pressione alta. Niente. Neppure un banale mal di testa. Provo inutilmente a fargli qualche domanda sulla sua vita privata. Più tardi un salumiere mi dirà che ha vissuto sempre da scapolo e non ha mai convissuto con una donna, la sua sposa è il paese. Bocchino mi dice che il segreto della sua longevità è una vita sobria e il fatto di credere fermamente nelle mansioni che andava svolgendo: è riuscito a fare per otto anni anche il presidente della Comunità Montana. Mi pare che il potere non lo ha reso arrogante. Di lui si dice che non si è arricchito e non ha fatto arricchire i suoi parenti.

Lo saluto perché non voglio approfittare della sua gentilezza e perché mi è venuta voglia di stare un poco all’aria aperta. Oggi c’è il sole, un sole che si è visto pochissimo negli ultimi mesi.

Dopo aver provveduto a rifornirmi della mia solita colazione da scalino, mi avvio al paese vecchio. So che ultimamente viene usato ogni tanto dai corpi speciali dell’esercito che trovano qui uno scenario ideale per le loro esercitazioni.

Un manifesto annuncia che la regione Campania ha stanziato molti soldi per il recupero dell’abitato. In un altro manifestino si parla di un protocollo di intesa tra la Provincia, il Comune e l’Università di Venezia. L’oggetto è la creazione di un museo a cielo aperto. In pratica si tratta di consolidare le case e di lasciare tutto come si trova, anzi di arredare il paese con testimonianze che risalgono al 1962, anno del terremoto che segnò l’inizio del trasferimento. L’operazione andò avanti lentamente per molti anni e subì una decisiva accelerazione dopo il sisma dell’ottanta. Il grande protagonista di questo trasloco è sempre lui, il sindaco Bocchino. Difficile rintracciare in altre zone d’Italia un personaggio che abbia condizionato così fortemente la vita di una comunità. Praticamente si può dire che ad Apice nell’ultimo mezzo secolo non è avvenuto nulla senza il suo intervento.

Venire qui è sicuramente un’esperienza particolare. Ora ho davanti a me le case vuote; hanno portato via i tavoli, le sedie; non ci sono gli abiti né gli armadi, non ci sono le televisioni e tutte le cianfrusaglie elettroniche delle nostre dimore, eppure è un errore pensare che queste case siano vuote. C’è la polvere, ci sono le piante che spuntano sul limitare di finestre e balconi, c’è la natura che lentamente si riprende i suoi spazi. Sarà un lavoro lungo e al punto in cui è adesso offre uno scenario che ai miei occhi ha una sua grazia luccicante. Un luccichio che viene  dall’opaco, dal silenzio, dalle vernici che si scrostano, dai tetti che si aprono alla luce, dalle vecchie insegne delle beccherie scritte a mano sul legno.

Un paese abbandonato è un paese senza plastica, senza insegne al neon, senza negozi. I muri, i piccioni sui tetti, le stradine stanno davanti ai miei occhi e mi emozionano e mi distolgono dall’acida sensazione di dover rincorrere chissà chi e chissà cosa.
Cammino, entro nelle case liberamente: non ci sono cancelli, allarmi, muretti. Ho la sensazione che sto trascorrendo minuti preziosi. Ogni tanto si arriva nel luogo giusto al momento giusto.

Oltre all’ ex-sindaco ad Apice vecchia c’è un anziano barbiere che apre alle quattro del pomeriggio e aspetta i clienti che vengono dalla campagna. All’inizio dell’abitato c’è un bar gestito da una ragazza. Scambio quattro chiacchiere col suo fidanzato tunisino, un ragazzo che somiglia molto ai ragazzi che erano quelli che adesso hanno una sessantina d’anni. Quando lo saluto mi consiglia di andare a trovare il professore. Lo chiamano così. Si tratta di Raffaele Izzo, un artista di Benevento che alla periferia del borgo antico ha impiantato una libera accademia d’arte. Veramente un posto che merita una visita. Il professore vi spiegherà che i materiali con cui sono costruite le sculture disseminate un po’ dappertutto sono materiali di sua invenzione. I pezzi a cui tiene di più sono un padre Pio da ventisette metri (che presto sarà collocato in Sicilia) e una riproduzione del cenacolo di proporzioni gigantesche e dalle presenze curiose: tra gli apostoli si è messo anche lui e Wojtila. Il professore non è d’accordo con il progetto dell ’università veneziana. Lui vorrebbe trasformare Apice vecchia in una città degli artisti. Mi fa vedere la foto di Al Bano e di altre celebrità con cui vanta amicizia. Mi dice che sarebbero ben disposti a farsi dare una casa e a sistemarla a loro spese. Saluto anche quest’uomo di inesauribile energia che si definisce l’ultimo bohémien e torno al paese nuovo.

La parte più brutta è la piazza, è come un campo di calcio asfaltato e con una fontana in mezzo. Tra tanti anonimi negozi noto una bellissima gioielleria. I bracciali, i monili, gli anelli che amo erano nel paese che ha perso i suoi abitanti: l’oreficeria del vuoto. Il paese senza asini, senza maiali, senza galline, senza liti tra i vicini, il paese senza artigiani, senza le chiacchiere sulle panchine ha perso la sua traccia sonora e se mi chiedo qual è adesso il suo rumore mi viene da pensare al rumore del coma, ma è un coma che a me dà più vita delle pompe di benzina, dei capannoni, delle case coi nanetti di gesso e i cancelli elettrici. Museo antropologico o città degli artisti che sia, Apice è un posto morto, ma è una morte che fa tanto ben sperare.