Fantasticare sulla natura /1

L’argomento ornitologico

“Chiudo gli occhi e vedo uno stormo d’uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visti. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, il numero è definito, perché Dio sa quanti furono gli uccelli. Se Dio non esiste, il numero è indefinito, perché nessuno poté contarli. In tal caso, ho visto meno di dieci uccelli (per esempio) e più di uno, ma non ne ho visti nove né otto né sette né sei né cinque né quattro né tre né due. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il dieci e l’uno, e che non è né nove né otto né sette né sei né cinque, eccetera. Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste”.1

Affermare che la tradizione metafisica potrebbe stare racchiusa tutta intera nell’argumentum ornithologicum di Borges è una forte tentazione. Se il numero inconcepibile esiste, inconcepibile per noi, ma perfettamente concepibile per un occhio che osserva ogni fatto senza limitazioni contingenti, dunque Dio (la metafisica) esiste, si danno significati al di fuori dell’incessante gioco dei segni, si dà un luogo nel quale tutti i potenziali oggetti del pensiero sono protetti e serbati, indipendentemente dalla capacità dell’intelletto umano di afferrarli e ritenerli. Il mondo esiste in sé e ha senso in sé. Il mondo è garantito.

Forse non tutta la metafisica è contenuta nell’Argumentum ornithologicum, ma quella di Leibniz di sicuro, ed è molto probabile che Borges l’avesse bene in mente. Nello stormo di uccelli senza numero è in gioco la nozione di infinitesimale, nel quale ogni grandezza è una variabile, nulla è totalmente separato e nulla è totalmente coincidente, tutto è centro e confine, e trapassa dall’una all’altra dimensione. È nel 1684 che, contemporaneamente alle ricerche di Newton, i Nova methodus pro maximis et minimis di Leibniz pongono le basi del calcolo differenziale, nel quale un numero può essere diverso tanto da zero come da altri numeri reali. Come osserva lo stesso Leibniz in un’altra sua opera, “ogni percezione distinta dell’anima contiene un’infinità di percezioni confuse che implicano tutto l’universo”. Ciascuna anima conosce l’infinito, ma solo confusamente, come quando si passeggia sulla riva sentendo i rumori particolari di ogni onda, senza distinguerli dal rumore generale del mare. “Solo Dio” conclude Leibniz, “ha conoscenza distinta di ogni cosa, perché Egli ne è la fonte”.2 Il nostro immaginario stormo di uccelli è come il rumore del mare. Lo percepiamo indistinto, al modo di un continuum, ma questo è solo un nostro limite. Dio, che di tali limiti non soffre, esiste per assicurarci che un numero c’è, anche se non è un numero che va da uno a dieci e che alla nostra percezione limitata resterà per sempre inafferrabile.

Ma la citazione che qui facciamo seguire a quella borgesiana, e che per analogia con Borges chiameremo argumentum silvanum, ci pone di fronte a un problema del continuum c osì squisitamente umano che forse nemmeno un dio leibniziano, o berkeleyano, potrebbe risolverlo per noi. Per l’occasione, la ricaviamo da uno studio di ecologia del suono del compositore e musicologo canadese R. Murray Schafer:
“Qual è il suono di un albero che cade in un bosco quando non c’è nessuno ad ascoltarlo?” mi chiese un giorno uno studente di filosofia. Sarebbe stata una mancanza d’immaginazione rispondergli dicendo che produce il suono di un albero che cade in un bosco, o anche che non produce alcun suono. In realtà, quando un albero che si schianta in una foresta sa di essere solo, produce il suono di tutto quel che gli pare: di un uragano, di un cuculo, di un lupo, della voce di Immanuel Kant o di Charles Kingsley, l’ouverture del Don Giovanni o un delicato motivo suonato da un flauto a naso maori. Qualunque suono desideri, del passato o del lontano futuro. E può anche emettere quei suoni segreti che l’uomo non riuscirà mai ad ascoltare, perché appartengono ad altri mondi…” 3

La domanda sul rumore dell’albero che cade è una di quelle quaestiones deliziosamente insolubili che si usano per accordare il salterio cerebrale degli studenti americani nei corsi di introduzione alla filosofia. A metà strada com’è tra i paradossi di Zenone e i paradossi zen, si presta anche a una formulazione più radicale: un albero che cade in una foresta senza che nessuno venga mai a saperlo (perché si decomporrà e verrà riassorbito dal suolo prima che ogni creatura intelligente abbia avuto notizia della sua rovina), è veramente caduto? E se nessun testimone ha mi certificato la sua esistenza, se nessun turista o cacciatore di passaggio gli si è mai appoggiato contro, se nessun boscaiolo ha mai tagliato a colpi di scure un ramo dal suo tronco, è veramente esistito? Meglio detto: è veramente esistito come singolarità, come distinto dal continuum della foresta, come quest’albero e non quest’altro, come ente che ha un luogo e una forma individuale distinta da altri enti?

Si dirà: per gli uccelli che vi si sono posati sopra, o per i castori che ne hanno asportato la corteccia, quell’albero c’è stato senz’altro. Ma gli uccelli ragionano (probabilmente) in termini di supporti su cui posarsi e i castori ragionano (altrettanto probabilmente) in termini di materiale da costruzione per le loro dighe e le loro case di rami, e non certo secondo le coordinate ideal-platoniche di un “albero” che vale per tutti gli alberi e che occasionalmente si concretizza in “questo” albero. Né varrebbe affermare che, qualunque rumore abbia fatto l’albero cadendo, lo stesso Dio che conosce il numero degli uccelli di tutti gli stormi immaginari l’ha certamente sentito, districandolo dal continuum dei suoni della foresta e salvandolo nella sua conoscenza eterna e perfetta. Nemmeno il dio dei filosofi, infatti, può farci sentire il rumore di un albero che cade quando noi non ci siamo, perché senza di noi come soggetti senzienti, quel rumore per noinon c’è. Questo, a ben vedere, è il lato più insidioso della domanda, non sempre preso in dovuta considerazione. Postulare la presenza di Dio ci permette di ipotizzare sul rumore che quell’albero, cadendo, ha fatto per Dio, o che avrebbe potuto fare per tutti gli uomini in generale nella mente di Dio. Ma non sul rumore che avrebbe fatto per noi se fossimo stati presenti, visto che nemmeno Dio può fare in modo che noi si sia dove non siamo.

Il lettore si sarà ormai accorto che l’argomentazione di questo libro sta costeggiando le rive del paradosso della conoscenza (come possiamo conoscere oggettivamente ciò di cui siamo parte), senza decidersi se attraccare o prendere il largo. Detto in altre parole, senza decidersi se affermare fideisticamente una congruenza di fondo tra natura e processi cognitivi (cercando eventualmente di dimostrarla) oppure se negarla, per poi elaborare una gnoseologia apertamente scettica o quantomeno problematica. Ne consegue che il nostro discorso prende spesso un andamento a spirale. Dubbi formalistici si affacciano ancora prima che sia maturata la loro necessità logica. Risposte interlocutorie o liquidatorie si presentano con altrettanta petulanza, chiedendo che il discorso non si fermi là dove rimarrebbe prigioniero di un’aporia irrisolvibile. Tale volontà di affabulazione, di grafomania, di andare avanti a ogni costo è, peraltro, ciò che da sempre spinge il pensiero a ignorare le proprie trappole, altrimenti nessun pensatore avrebbe potuto muovere un passo dopo che Platone scrisse i suoi dialoghi aporetici. Nonostante gliargumenta che ci si parano sul cammino, dobbiamo quindi continuare a chiederci che accade di ciò che non sappiamo, di ciò che dimentichiamo, di ciò che non abbiamo mai saputo, di ciò che supponiamo esista o sia esistito, anche se non ci ha mai dato e non ci darà mai segno di sé, altrimenti non potremo nemmeno formulare un’ipotesi soddisfacente a proposito di ciò che in teoria dovremmo sapere con certezza.

Verifichiamo dunque se alla quaestio dell’albero caduto si possa dare una risposta di natura almeno ipotetica, o meglio inferenziale-semiotica, tale da prescindere, almeno per il momento, dalla garanzia di un dio leibniziano o cartesiano. Affermare solipsisticamente che un albero caduto senza testimoni non è mai caduto, o che non è mai esistito, o che non è mai stato un albero, è possibile solo a patto di ignorare che nel mondo di noi interpretanti (nel nostro orizzonte di raffigurabilità dell’esperienza) esistono oggetti (significati) ben testimoniati, che rispondono al nome di alberi e foreste, e dei quali conosciamo induttivamente il ciclo di vita e di morte. Spingere la sospensione del giudizio fino a negare che ad altri soggetti accade o è accaduto di riscontrare una congruenza tra alcune descrizioni di avvenimenti e l’esperienza degli stessi finirebbe per condurci nei paradossi dello scetticismo radicale. In base a quale criterio di verità si potrebbe affermare che mai nessuno fa esperienza della verità? A meno che, ovviamente, non si voglia negare la possibilità stessa dell’intersoggettività. (Non c’è bisogno di dire che anche questo è stato fatto, ignorando che la premessa della negazione dell’intersoggettività afferma appunto che non c’è una soggettività ”altra” alla quale dimostrare di non essere mai esistita…).

I tre universi dell’esperienza

Sia come sia, lo stormo di uccelli X o l’albero Y, anche se non ce ne possiamo fare un numero o un’immagine, non sono degli impensabili. L’impensabile non è ciò che non sappiamo ma che date certe condizioni potremmo sapere. L’impensabile è ciò che davvero non pensiamo e del quale, quindi, nemmeno parliamo o scriviamo (anticipiamo qui un luogo di C. S. Peirce che avremo modo di discutere più avanti: se parliamo di un inconoscibile, è perché si tratta di un inconoscibile conoscibile).4 E siccome noi interpretanti (sempre per usare il lessico di Peirce: noi che interpretiamo i segni provenienti dal mondo) sappiamo (per conoscenza condivisa dalla comunità di interpretanti di cui siamo parte) che si danno foreste e alberi che cadono anche al di fuori del nostro immediato orizzonte di esperienza, ecco che ci sentiamo autorizzati a formulare opinioni sulla caduta di alberi che non abbiamo constatato e non avremo mai modo di constatare. O, come direbbe con più precisione Peirce, ci sentiamo autorizzati a compiere un’abduzione, un’ipotesi, a tirare a indovinare, visto che i fattori da tenere in considerazione per elaborare un’induzione strettamente probabilistica sarebbero troppo numerosi. Data questa fede nella regolarità dell’orizzonte delle esperienze, che già Hume considerava come la condizione necessaria alla conoscenza, non c’è affatto bisogno di sapere l’ora, il giorno e il luogo della caduta dell’acero Y in una particolare foresta del Canada. Ci è sufficiente sapere che, se fossimo stati presenti, lo avremmo sentito schiantarsi con un rumore paragonabile a quello che avremmo potuto ascoltare, appunto, se fossimo stati presenti.

Con il che, come si vede, abbiamo raggiunto una conclusione importante, e insieme non abbiamo raggiunto un bel nulla. Il diavolo dell’argomento sta in quel “se fossimo stati presenti”, che trasforma l’intero ragionamento in una tautologia. Se fossimo stati presenti, infatti (e posto, come avvertirebbe Descartes, che i sensi non ci ingannino), non avremmo avuto bisogno della fede nella regolarità dell’esperienza. Ora, tale orizzonte di regolarità è ciò che altrimenti chiamiamo “mondo” o “natura”. Seguendo l’indicazione del semiologo ed etologo Thomas Sebeok, lo chiameremo anche “semiosfera”, indicando con questo termine l’universo dei segni nei quali siamo coinvolti in quanto soggetti interpretanti e oggetti interpretati. Anche la natura rientra nella semiosfera, come insieme dei segni che ci invia e in base ai quali la decifriamo come natura. Sulla base di questa nozione, e chiedendo ancora aiuto a Peirce, che non si ferma certo a una tautologia così semplice come quella che abbiamo appena enunciato, possiamo giungere a una formulazione, se non risolutiva, almeno più precisa dell’intera questione.

Gli uccelli di Borges, così come gli alberi della nostra foresta semiotica, partecipano di ciò che Peirce ha definito i “Tre Universi dell’Esperienza”. Il primo include “le pure idee, quegli aerei nulla [airy nothings] ai quali la mente del poeta, del matematico puro o di un altro potrebbefornire una dimora e un nome all’interno di quella mente” (CP 6.455). 5 Ne sono un esempio tutti gli oggetti il cui essere consiste nella pura capacità di essere pensati. Il secondo universo è quello dell’Occorrenza Bruta (Brute Actuality), nel quale incontriamo cose e fatti, oggetti-significati che chiamiamo foreste o alberi che si schiantano, e che è il mondo del senso comune. Il terzo è l’universo dei segni, che, sempre secondo Peirce, “comprende ogni cosa il cui essere consiste in una capacità attiva di stabilire rapporti fra differenti oggetti, specialmente fra oggetti posti in Universi differenti”. Tutto ciò che risponde al terzo universo corrisponde a un segno. Non al puro e semplice corpo del segno, bensì alla sua anima (the Sign’s Soul), la quale realizza la propria essenza nel servire da facoltà intermediaria tra il suo Oggetto (il suo Significato) e una Mente. Una coscienza vivente, la crescita di una pianta, ma anche istituzioni umane come un quotidiano, un’improvvisa fortuna economica o un movimento sociale (gli esempi sono di Peirce) appartengono di diritto al terzo universo, che è quello della relazione segnica.
Aggiungiamo che a certe condizioni anche il primo universo partecipa degli altri due. È sufficiente che un poeta o un matematico dia un nome qualunque a quegli “airy nothings” che abitano la sua pura mente, che li faccia uscire dalla fantasticheria scrivendoli o inscrivendoli, ed ecco che la loro partecipazione al mondo delle occorrenze e dei segni non può essere negata. Ma gli aerei nulla non pervengono all’occorrenza e al segno rimanendo quegli aerei nulla che erano, bensì come icone verbali di se stessi, inseriti in una ben precisa pratica di significazione o di scrittura. Gli uccelli di Borges e l’albero di Schafer, considerati nel loro stadio iniziale di fantasticheria, non accedono alle condizioni di Qualità, Fatto e Legge, o di Firstness,Secondness e Thirdness, secondo la nomenclatura che Peirce avrebbe proposto a partire dai suoi scritti del 1867 (Qualità: che c’è un “qualcosa”; Fatto: che la bruta occorrenza di questo “qualcosa” comporta un ente-albero che subisce l’evento-caduta; Legge: che per un interpretante esistono segni, o codici, in grado di decifrare l’evento “albero che cade” per quello che significa nei vari codici che lo contengono). Gli uccelli di Borges e l’albero di Schafer non sono degli inconoscibili, ma non sono nemmeno pubblici. Per accedere al segno devono prima diventare l’análogon di se stessi, trovando strada nel linguaggio.

In assenza di questa trasposizione, qualunque soluzione volessimo dare all’argumentum silvanum non sarebbe meno metafisica, cartesiana e leibniziana di quella che si potrebbe dare dell’argumentum ornithologicum. Se non potessimo ipotizzare una certa regolarità della natura non ci sarebbe di nessuna consolazione affermare, in base a chissà quale fondamernto, che al di sopra del caos in cui siamo immersi sta un dio non caotico. Tuttavia, per sostenere che il rumore prodotto da un albero che cade in solitudine non potrebbe essere diverso da quello che verrebbe ascoltato in presenza di un testimone, non solo abbiamo dovuto postulare una forte regolarità della natura, o della semiosfera, ma anche assumere la condizione di partenza che l’esempio ci negava. E la questione era quale rumore farebbe l’albero se non ci fosse nessunoad ascoltarlo, non se ci fosse qualcuno.

È qui che la distinzione dei tre universi dell’esperienza ci viene in aiuto. Il rumore di un albero che cade senza nessuno ad ascoltarlo non è affatto un rumore. È appunto un airy nothing, il cui essere consiste unicamente nella pura capacità di essere pensato. Appartiene al primo universo, non al terzo. Come tale, non perviene al segno e non entra in una relazione di significato con alcunché. Non fa veramente parte della semiosfera e non se ne può ricavare nessun indizio sulla possibilità di giungere a una formulazione soddisfacente sulla conoscibilità o inconoscibilità della natura. Ci raggiunge come segno, conversazione o scrittura, solo in quanto segno del suo essere stato pensato, e non di qualche albero che davvero sia caduto in nostra assenza. Prendere per buona l’appartenenza di un airy nothing al terzo universo dell’esperienza sarebbe come concludere che Dio non è onnipotente (secondo l’esempio di Husserl) perché non può suonare al violino un’equazione di secondo grado, o che il linguaggio non ha senso (secondo l’esempio di Jakobson) perché può dire che idee verdi dormono furiosamente senza colore.

L’ipotesi Dio

Ma se l’intelletto umano non riesce nemmeno a sapere quanti uccelli è in grado di immaginare in un sogno a occhi aperti, come potrà ipotizzare che la natura è caratterizzata da un’alta dose di regolarità, o che al di sopra di tutte le sterminate contingenze si stende l’intelligenza infinita di un Dio nel quale ogni frammento di conoscenza può essere salvato? In base a quale ipotesi l’intelletto si sentirà legittimato a proporre una conclusione così potente? Eppure l’ipotesi Dio, sostiene Peirce, non solo non deve essere scartata come estranea al discorso filosofico, ma anzi è l’unica che possa superare d’un balzo una catena di induzioni troppo lunga e complessa per essere padroneggiata. Non si può certificare l’esistenza di un’entità divina sulla base di un accumulo pressoché infinito di dati e di una successiva estrapolazione induttiva. Tra le “occorrenze brute” da un lato e la prova di Dio dall’altro rimane uno spazio logico non colmabile. Occorre far rischiare il pensiero, non per saltare nel mondo della fede, bensì in quello dell’abduzione, dell’ipotesi, del guessing, del tirare a indovinare. Anche Dio è un’abduzione, la più arrischiata di tutte, se si vuole, e però la più seducente, perché permette di collegare i tre universi della Qualità, del Fatto e della Legge con un’eleganza e un senso di completezza che nessun altro ragionamento possiede. Nel sistema peirciano, Dio non garantisce né la natura né il mondo. È piuttosto la libera attività dello spirito che è in grado di sollevarsi al di sopra della natura fino a garantire per Dio.
Ammiratore di Leibniz e suo vero continuatore, Peirce non intende soltanto sottoscrivere la tesi della mente panoramica che tutto vede e tutto sente (il numero degli uccelli visti nella mente, il rumore dell’albero che cade o i suoni distinti di ogni singola onda del mare), quanto fondare la logica in base alla quale la tesi della mente panoramica può essere elaborata. Peirce non intende dimostrare, in senso tradizionale, l’esistenza di Dio. “Le dimostrazioni dei metafisici sono tutte contraffatte” annota in uno scritto del 1887 intitolato A Guess at the Riddle. Anzi, dice proprio are all moonshine, suggerendo che i metafisici non sono altro che moonshiners, distillatori di liquori di contrabbando.

L’ipotesi Dio non può ergersi ad argomento di fede. È piuttosto una produzione spontanea, originata da una specifica attività mentale che Peirce chiama “istinto al gioco”, ricavando il termine dallo Spieltrieb di cui parla Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’umanità(1795), oppure “gioco del fantasticare” (play of musement):

 

“…nel Puro Gioco del Fantasticare l’idea della realtà di Dio apparirà presto o tardi come una fantasia attraente, che il Fantasticante svilupperà in vari modi. Quanto più vi medita sopra, tanto più vi troverà rispondenza in ogni parte della sua mente, per la sua bellezza, per l’ideale di vita che fornisce, e per la spiegazione, assolutamente soddisfacente, del triplice ambiente che lo circonda (CP 6.465)”. 6

 

Sulla pratica del musement non si può né si deve fondare una religione. Peirce, però, è convinto che essa conduca a una vera e propria dimostrazione abduttiva dell’esistenza di Dio, che come tale non dovrebbe godere meno credito delle classiche dimostrazioni scolastiche condotte per via induttiva. Poiché è stato costantemente trascurato dai teologi, Peirce definisce il musement un “argomento negletto” (neglected argument) e, nell’appendice al saggio specifico nel quale ne tratta, anche un “argomento umile” (humble argument). Ma non c’era nulla di umile nell’animo del filosofo che l’ha proposto. L’ipotesi Dio può essere il risultato di una fantasticheria, ma per Peirce costituiva il coronamento di un sistema, o meglio di un tentativo di sistema durato una vita, con il quale il suo autore intendeva:

 

“…dar vita a una filosofia come quella di Aristotele, vale a dire una teoria così comprensiva che, per un lungo tempo a venire, l’intera opera della ragione umana, nelle filosofie di ogni scuola e tipo, in matematica, in psicologia, nelle scienze della fisica, nella storia, nella sociologia, e in qualunque altra ripartizione possa esistere, apparirà unicamente come ciò che ne costituisce i dettagli”.7

 

Non verremo a capo tanto presto di Peirce e delle sue smisurate ambizioni, così come forse non siamo mai veramente venuti a capo di Leibniz, altro poligrafo universale. Entrambi sembrano muoversi con inquietante libertà tra la carne dell’umano e l’astrazione della cosmicità, valicando i confini di ciò che è mondanamente verificabile e tornando poi dalle loro lontane sortite con un imponente bottino di idee, teorie, definizioni e teoremi che forse nessuno, la cui mente non sia conformata come la loro, potrà mai utilizzare appieno. Da Leibinz abbiamo appreso, tra molte altre cose, il calcolo infinitesimale e da Peirce i fondamenti della semiotica, ma di entrambi ci sfugge e ci sconcerta l’ambizione di conoscere, teorizzare, sistemare l’universo in ogni suo aspetto, la preoccupante facilità con la quale riducono il pulsare del mondo a calcolo e algebra, equazione e formula. Questo è il loro vero dio, non colui che deve ascoltare tutte le onde del mare per ordine dei suoi filosofi, o che, perduta ogni biblica terribilità, viene ridotto a una piacevole fantasia che il gran maestro dei segni sarà lieto di intrattenere ogni volta che vorrà speculare sull’ordine del suo universo.

La forza sovraindividuale che muove simili pensatori prescinde da ogni limitazione troppo umana incontrata sul cammino, da ogni tragedia storica come da ogni fallibilità personale. Sono ottimisti incorruttibili, la cui fiducia nella fondamentale razionalità dell’Intero non può essere scossa da nessuno, nemmeno quando la loro stessa vita è sconvolta da una sorte infausta. Nel saggio sull’argomento negletto, Peirce propone una tipologia di caratteri pessimisti accuratamente tripartita (tutto è tripartito nell’ordine peirciano delle cose): vi è il pessimista per forza di cose come Leopardi, che avrebbe senz’altro sviluppato una filosofia meno negativa se la natura l’avesse fornito di un corpo più sano; il pessimista intellettuale come Schopenhauer, che contempla freddamente i gravi limiti dell’esistenza e delle aspirazioni terrene; e il pessimista letterato come Voltaire, che non possedendo un gran pensiero si preoccupa di tutto ciò che nel mondo non va e si batte per tutte le cause dal momento che non ne possiede una che possa dire sua. Nessuno di costoro, avverte Peirce, raggiunge nemmeno remotamente la statura di un Leibniz.

Avrebbe potuto aggiungere: “e nemmeno la mia”. Anche se, va detto, il parallelo con la vita di Leibniz si ferma qui. L’infelice propensione ad alterare le date dei suoi scritti, la controversia mai sopita sul supposto plagio del calcolo infinitesimale ai danni di Newton, per non parlare del ridicolo al quale Voltaire, nel Candide, sottopose la teoria leibniziana del “migliore dei mondi possibili”, esposta in quel testo invero straordinario che è la Teodicea, resero difficili gli ultimi anni di Leibniz e pessima la sua fama almeno fino alla pubblicazione postuma, nel 1756, deiNouveaux Essais, dei quali Kant fu un attento lettore. Ma Leibniz era un uomo a suo agio nel mondo, a servizio come diplomatico presso l’Elettore di Norimberga o alla corte di Hannover, a colloquio con lo zar Pietro il Grande o in Olanda a far visita a Spinoza, in viaggio verso Londra per una riunione della Royal Society o diretto a Vienna per un lungo e piacevole soggiorno. La vita di Peirce, al contrario, fu quella di un ex ragazzo prodigio megalomane e antisociale fino all’autodistruzione, più dandy baudelairiano che superuomo nietzschiano, capace di suscitare un’ammirazione fanatica tra i suoi pochissimi studenti (inadatto com’era a perder tempo a insegnare a chi ne capiva meno di lui, cioè a chiunque), quanto un’istantanea e totale repulsione presso gli accademici che ebbero la sventura di averlo come collega nei brevi periodi in cui gli fu concesso di tenere una cattedra.

Egotista, dedito al bere, violento nei modi, donnaiolo, probabilmente pederasta e con la tendenza (così si alludeva, con orrore e prudenza) a insidiare i suoi studenti, Peirce fu un uomo depresso e malato, allevato da un padre (Benjamin Peirce, anch’egli un noto matematico) che lo educò a una ferrea disciplina mentale e insieme alla convinzione di essere al di sopra dell’intelletto e della morale corrente. Per tutta la sua vita adulta Peirce fu affetto da una devastante nevralgia del trigemino che lo rese dipendente da qualunque droga si trovasse in commercio (etere, oppio, morfina o cocaina, tutte liberamente in vendita fino al 1914, anno della sua morte) per poterne tollerare i dolori spaventosi, mentre il fatto di essere mancino (una supposta anomalia anch’essa corretta a forza, fino a farlo diventare ambidestro, anzi in grado di scrivere contemporaneamente due cose del tutto diverse con le due mani) lo convinse di essere incapace di esprimersi a parole e incline a seguire processi di pensiero incomprensibili a una mente normale. Se a questo aggiungiamo una totale mancanza di senso pratico, l’ossessione di diventare ricco con assurdi schemi finanziari e la miseria economica che piagò i suoi ultimi anni, constatiamo che Peirce non visse nel migliore dei mondi possibili. Ma una cosa aveva in comune con gli uomini “della statura di un Leibniz”: non avrebbe mai permesso che i trascurabili eventi della sua esistenza mondana turbassero la sua visione religiosa dell’universo. Benjamin Peirce, che esercitò una forte influenza sul figlio anche in materia di religione, era un unitariano. Il figlio si unì alla chiesa trinitariana episcopale, pur considerando con disprezzo ogni dottrina teologica e ogni forma di culto. Ma lo scopo smisurato del suo pensiero consisteva nel trovare l’ipotesi che potesse spiegare la costituzione dell’universo, e a tale proposito Dio non poteva non essere chiamato in causa. A partire dai cinquant’anni, poi, Peirce si aprì anche a esperienze di compartecipazione mistica tra immanente e trascendente che misero definitivamente in crisi la sua fiducia, se ma l’aveva avuta, in una ragione puramente deduttiva.

Genealogia del lume naturale

Il Neglected Argument, un testo del 1908, e dunque appartenente all’ultimo decennio di vita del filosofo, è la conclusione alla quale tende l’intera gnoseologia peirciana. La sua genealogia parte da lontano, ma solo per giungere infine all’abduzione sovrana, quella che, secondo il suo sostenitore, ci fa balenare l’esistenza di Dio con una sicurezza istintiva che nessuna dimostrazione potrà mai dare. Partiamo da lontano anche noi, prendendo le mosse da quella singolare “divagazione sull’azalea” che si può leggere nel Manoscritto 692 e alla quale, per continuità con gli argomenti ornitologici, forestali e negletti già affrontati, daremo qui il nome diargumentum floreale:

 

“Vedo un’azalea in piena fioritura. No, no! Non è quello che vedo, anche se è l’unico modo che ho di descrivere quello che vedo. Questo è un enunciato, una frase, un fatto. Ma quello che percepisco non è né un enunciato né una frase né un fatto, bensì solo un’immagine, che in parte rendo intellegibile per mezzo di un’asserzione di fatto. L’asserzione è astratta, ma quello che vedo è concreto. Non posso non mettere in opera un’abduzione ogniqualvolta esprimo in una frase quello che vedo”. 8

 

Non si tratta di credere a Dio ma di guardare la natura, scriveva Goethe a Herder. Non si tratta di credere, direbbe Peirce, bensì di osservare un’azalea, di fare ipotesi, e di stupirci che il nostro osservare e il nostro elaborare abduzioni funzionino così spesso. La proposizione descrittiva “vedo un’azalea” non è lo specchio di un fatto, come vorrà poi il neopositivismo, bensì un’ipotesi in attesa di verifica e che prescinde, almeno per il momento, dal chiedersi quale sia l’essenza dell’azalea. Da un fatto si può inferire solo una possibilità, un “può essere” o un “può non essere”. Ma per Peirce “la più sorprendente di tutte le meraviglie dell’universo” (CP 8.238) è precisamente la frequenza con la quale constatiamo che le nostre ipotesi si accordano con la realtà. Detto altrimenti, “la mente umana deve essere stata in armonia con la verità delle cose per poter scoprire ciò che ha scoperto” (CP 6.476).

Lo stupore dinanzi all’esistente, che da Aristotele a Vico è indicato come origine di ogni processo genealogico, si muta in Peirce nella meraviglia di fronte alla sinergia tra il soggetto interpretante e l’esistente interpretato. La domanda sull’essenza dell’ente si sposta così dal luogo dell’evidenza a quello del giudizio. Il classico criterio di verità aristotelico (“Tu sei bianco non per il fatto che noi, in conformità col vero, crediamo che tu sia bianco, ma, al contrario, proprio per il fatto che tu sei bianco, noi siamo nel vero quando lo confermiamo”9) lascia il posto a una riconsiderazione del conoscere dalla quale Hegel, sempre presente alla mente di Peirce, non è molto lontano (diciamo: “Il tuo essere bianco e il mio credere che tu sia bianco sono entrambi due aspetti dell’essere in conformità col vero”). Non è però dell’aspetto formale di tale giudizio che Peirce fa questione, bensì del senso della nostra pratica (il guardare) e dell’efficacia con la quale essa ci conduce a un giudizio corretto.

E però la sinergia così istituita non riesce a eliminare il solito fastidioso problema: qual è iltrítos ánthropos, il “terzo uomo” definitivo ai piedi del quale la correlazione si dovrebbe fermare? Chi, oltre a me, mi dice e mi garantisce che c’è coincidenza tra il tuo essere bianco e il mio ipotizzare che tu sia bianco? Qual è il ricettacolo della somiglianza (Peirce direbbe dell’iconismo) tra intelligenza e materia, quella stessa garanzia che Leibniz, Descartes, Geulincx e Malebranche riponevano in un Dio trascendente, induttivo o deduttivo, ma non certo frutto di fantasticherie?

Peirce sa che l’obiezione non può essere superata formalmente (i moonshiners del sillogismo sanno distillare bene i loro “spiriti”), per cui la aggira moltiplicando gli argomenti a suo favore. Sviluppare idee, così argomenta Peirce, è tanto naturale per l’uomo quanto il costruire nidi lo è per gli uccelli. Negare all’uomo la capacità di comprendere le ragioni dei fenomeni sarebbe come pretendere che un uccello legga un testo di fisica, concluda che ci sono ragioni dinamiche in forza delle quali il volo è impossibile, e dunque si rifiuti di spalancare le ali e lasciare il suo nido. Se noi sapessimo per certo che i nostri impulsi nel preferire un’ipotesi a un’altra sono analoghi agli istinti degli uccelli e delle vespe, sarebbe stolto non dar loro credito. Ma è un fatto accertato che l’essere umano possegga tale facoltà? Non sempre e non al primo colpo, risponde Peirce, ma storicamente sì. Sarebbe ridicolo ritenere che l’intera conoscenza umana sia stata ottenuta grazie a casi fortuiti o a pure modificazioni casuali, come vorrebbero alcuni darwiniani. In ogni caso, neanche una teoria ultradarwiniana potrebbe negare una possibile correlazione tra la ragione dell’uomo e le sue azioni. Il fondamento della verità logica, insiste Peirce, è uno: la mente umana deve essere in qualche modo sintonizzata sulla verità delle cose per essere in grado di scoprire ciò che scopre. In uno scritto precedente (CP 1.630), Peirce aveva affermato: “L’abduzione mette alla prova quello che il lume naturale [in italiano nel testo] è in grado di fare. A tutti gli effetti, è un richiamo all’istinto” (Abduction tries what il lume naturale can do. It is really an appeal to instinct). E nel saggio sull’“argomento negletto” così continua:

 

“La scienza moderna è stata edificata sul modello di Galileo, che l’ha fondata su il lume naturale. Quel vero, ispirato profeta aveva affermato che, tra due ipotesi, quella da preferire era la più semplice. Ma in un primo tempo io ero stato uno di quelli che (…) aveva distorto il significato della massima galileiana in vista di una semplicità di tipo logico, cioè quella che aggiunge di meno a ciò che è stato osservato (…) Solo dopo una lunga esperienza, grazie alla quale mi sono accorto che ogni scoperta scientifica non faceva che confermarmi il mio errore (…) le bende mi sono infine cadute dagli occhi e la mente mi si è risvegliata alla fiammante luce del giorno: l’ipotesi più semplice, quella che va preferita, è la più facile e la più naturale, quella che è l’istinto a suggerire, per la semplice ragione che se l’uomo non possedesse una tendenza naturale a trovarsi in accordo con la natura, non avrebbe nessuna possibilità di comprenderla”.10

 

Siamo giunti al cuore della nostra argomentazione. Che il ragionamento qui difeso sia circolare e autopredicativo, in quanto presuppone ciò che invece sarebbe da dimostrare (cioè se si dia un accordo tra ragione e natura), l’abbiamo capito, e su questo punto non possiamo che lasciare Peirce alle sue convinzioni (peraltro felici, e contagiose). A noi, qui, interessa il riferimento al lume naturale, perché è lì che si nasconde il vero terzo uomo che ci tormenta fin da Platone, l’annunciata possibilità di affrontare infine, mediato dalla luce, il problema del rapporto tra natura e conoscenza.

Anche senza far risalire il termine “lume naturale” al De anima aristotelico (430a, 14, nel quale l’intelletto creativo è paragonato alla luce), come lumen naturae lo troviamo tanto in San Tommaso (Summa Theologiae Pt. I, qu. 12, art. 13) quanto in vari passi di Galileo, nelSaggiatore (1623), nel Dialogo dei massimi sistemi (1632) e, per bocca di Sagredo, nella terza giornata dei Discorsi e dimostrazioni matematiche (1638). Nella prima delle Meditationes (1641), Descartes ne fa un termine chiave per la dimostrazione dell’esistenza di un Dio non ingannatore. Il sintagma riaffiora in Pascal come lumière naturelle, Rousseau lo menziona nella Professione di fede del vicario savoiardo inclusa nell’Émile (1762), mentre lo scozzese Thomas Reid lo fa coincidere con il common sense. Joseph Brent, al quale si deve una splendida biografia di Peirce, ipotizza che la nozione di lume naturale fosse operante anche nelle speculazioni di Benjamin Peirce, e che Charles l’avesse in parte adottata dal padre. Nel 1880, infatti, Benjamin Peirce presentò a Baltimore una serie di conferenze che dopo la sua morte (avvenuta nello stesso anno) vennero raccolte con il titolo Ideality in the Physical Sciences. Lo scopo di Benjamin consisteva nel dimostrare che le idee sono tanto reali quanto gli eventi fisici. Charles si immedesimò a tal punto nelle tesi del padre che iniziò perfino a esplorare il mondo dell’occultismo, ricercandovi la realtà fisica dei fenomeni soprannaturali. Circa dieci anni dopo, nel 1889, in una voce stesa per il Century Dictionary, definì il cosiddetto “ideal-realismo” che accomunava lui e il padre come “l’opinione che la natura e la mente abbiano così tanto in comune da imprimere alle nostre ipotesi una tendenza verso la verità, mentre allo stesso tempo richiedono la conferma dell’evidenza empirica”.11

“Può farmi molto piacere avere un’idea senza che lo sappia e perfino vederla con gli occhi”, aveva detto Goethe a Schiller. Il lume naturale, che venga da Tommaso o da Descartes, da Rousseau o da Peirce, è questa idea-guida che possediamo senza saperlo e senza pensarci, e che constatiamo intorno a noi come se fosse un fenomeno naturale, perché è un fenomeno naturale. Non risolve nessun problema logico e non mette a tacere nessuna obiezione formalistica, ma è la luce quotidiana che ci accompagna e ci avvolge, permettendoci di vedere, pensare e scrivere. 12 Avevamo già anticipato che, come Licht o come Lichtung, ma anche come lume naturale, non l’ha disdegnata nemmeno Heidegger, ed è precisamente da Heidegger che faremo ripartire la nostra analisi.

(I – continua)

  1.  J. L. Borges, Argumentum ornithologicum, in L’artefice, trad. di F. Tentori Montalto, Milano, Rizzoli, 1963, p. 32-33 (El hacedor, Buenos Aires, Emecé, 1960). Ora anche in Tutte le opere, vol. I, cit., pp. 1118-1119.  
  2.  G. W. Leibniz, Principi razionali della natura e della grazia, par. 13, in Monadologia, a cura di S. Cariati, Milano, Rusconi, 1997 (Principes de la nature et de la grâce fondés en raison, 1714).  
  3.  R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, trad. di N. Ala, Milano, Unicopli, 1985, pp. 41-42 (The Tuning of the World, Toronto, McClelland & Stewart, 1977). L’origine della domanda è stata fatta risalire a George Berkeley e alla sua confutazione di un dio astratto e newtoniano che presiederebbe, dalla sua distanza cosmica, alla crescita di un albero. Al contrario, la percezione dell’albero è un’idea prodotta da Dio, per cui l’abero continua a esistere anche quando “io” non ci sono, perché Dio continua a percepirlo e ne è quindi il garante. La formulazione corrente della domanda risale però a un testo di fisica degli inizi del ventesimo secolo: “Quando un albero cade in una foresta spopolata, e nessun animale è così vicino da sentirlo, l’albero fa rumore?Perché?” (“When a tree falls in a lonely forest, and no animal is near by to hear it, does it make a sound? Why?”). Cfr. C. R. Mann, G. R. Twiss, Physics, Chicago, Scott, Forersman, & Co., 1910, p. 235.  
  4.  C. S. Peirce, CP 492. Per le indicazioni bibliografiche relative alle opera di Charles Sanders Peirce seguiamo la numerazione in in paragrafi dei Collected Papers curati da C. Hartshorne, P. Weiss e A. W. Burks, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1930-1935, poi ristampata dalla Belknap Press of Harvard University Press, 1960-1966. Forniremo, quando possibile, anche le indicazioni relative ai Writings of C. S. Peirce: A Chronological Edition a cura di M. H. Fisch, editi a cura del Peirce Edition Project della Indiana University Press di Bloomington, Indiana (iniziato nel 1982).  
  5.  “…all mere Ideas, those airy nothings to which the mind of poet, pure mathematician or another might give local habitation and a name within that mind”. C. S. Peirce, A Neglected Argument for the Reality of God, in The Essential Peirce: Selected Philosophical Writings, Vol. 2 (1893-1913), a cura della Peirce Edition Project, Bloomington , Indiana University Press, 1998, p. 435. Originariamente pubblicato su “The Hibbert Journal”, 7, October 1908, pp. 90-112, e incluso anche in C. S. Peirce, Selected Writings, a cura e con introduzione di Ph. P. Weiner, New York, Dover Publications, 1958. Corrisponde a CP 6.452-91 secondo la numerazione in paragrafi dei Collected Papers (si veda la nota 54 in merito). Cfr. anche la traduzione italiana, Un argomento trascurato per la realtà di Dio, in C. S. Peirce, Pragmatismo e oltre, a cura di G. Maddalena, Milano, Bompiani, 2000. Le espressioni “airy nothing” e “a local habitation and a name” sono tratte da W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, atto V, scena 1.  
  6.  “…in the Pure Play of Musement the idea of God’s Reality will be sure sooner or later to be found an attractive fancy, which the Muser will develop in various ways. The more he ponders it, the more it will find response in every part of his mind, for its beauty, for its supplying an ideal of life, and for its thoroughly satisfactory explanation of his whole threefold environment”. C. S. Peirce, A Neglected Argument, cit., p. 439. Per un ampliamento di questi temi peirceani si veda T. Sebeok, Il gioco del fantasticare, trad. di M. Pesaresi, Milano, Spirali, 1984 (The Play of Musement, Bloomington, Indiana University Press, 1981). Al di là della connotazione teologica di questo particolare Musement, si potrebbero indagarne le affinità con la revêrie di Bachelard.  
  7.  “[I intend] to make a philosophy, like that of Aristotle, that is to say, to outline a theory so comprehensive that, for a long time to come, the entire work of human reason, in philosophy of every school and kind, in mathematics, in psychology, in physical science, in history, in sociology, and in whatever other department there may be, shall appear as the filling up of its details”. C. S. Peirce, A Guess at the Riddle (1887, trad. nostra), cit. in Joseph Brent, Charles Sanders Peirce: A Life, Bloomington and Indianapolis , Indiana University Press, 1993; revised and enlarged edition, 1998, p. 1.  
  8.  “I see an azalea in full bloom. No, no! I do not see that; though that is the only way I can describe what I see. That is a proposition, a sentence, a fact; but what I perceive is not proposition, sentence, fact, but only an image, which I make intelligible in part by means of a statement of fact. The statement is abstract; but what I see is concrete. I perform an abduction when I so much as express in a sentence anything I see” (MS 692, trad. nostra). Cit. anche in T. Sebeok, Il gioco del fantasticare, cit., p. 41, e in Il segno dei Tre. Holmes, Dupin, Peirce, a cura di U. Eco e T. Sebeok, trad. di G. Proni, Milano, Bompiani, 1983, p. 33 (The Sign of Three: Dupin, Holmes, Peirce, Bloomington, Indiana University Press, 1983). La sigla MS si riferisce ai manoscritti catalogati in R. S. Robin, Annotated Catalogue of the Papers of Charles S. Peirce, Amherst, Mass., University of Massachusetts Press, 1967.  
  9.  Aristotele, Opere, Vol. 6. Metafisica, Libro IX, 10, 1051b, trad. di A. Russo, Bari, Laterza, 1973, p. 273.  
  10.  “Modern science has been builded after the model of Galileo, who founded it on il lume naturale. That truly inspired prophet had said that, of two hypotheses, the simpler is to be preferred; but I was formerly one of those who (…) twisted the maxim to mean the logicallysimpler, the one that adds the least to what has been observed (…) It was not until long experience forced me to realize that subsequent discoveries were every time showing I had been wrong (…) that the scales fell from my eyes and my mind awoke to the broad and flaming daylight that it is the simpler hypothesis in the sense of the more facile and natural, the one that instincts suggests, that must be preferred; for the reason that unless man have a natural bent in accordance with nature’s, he has no chance of understanding nature, at all.” C. S. Peirce, A Neglected Argument for the Reality of God, cit., p. 444. Peirce si riferisce qui al Dialogo sopra i massimi sistemi di Galileo nella traduzione di T. Salisbury, London, 1661, 1:301.  
  11. “…the opinion that nature and the mind have such a community as to impart to our guesses a tendency toward the truth, while at the same time they require the confirmation of empirical evidence”. In  J. Brent, Charles Sanders Peirce: A Life, cit., p. 205. Come origine biografica della svolta perciana verso la pratica del guessing, o tirare a indovinare, Brent fa riferimento anche al celebre episodio del 1879, quando Peirce riuscì a identificare, senza disporre di nessun indizio, un ladro che gli aveva rubato un costoso orologio Tiffany. L’episodio è ampiamente analizzato inThe Sign of Three: Dupin, Holmes, Peirce, cit. Sulla vita di Peirce si veda anche K. L. Ketner,His Glassy Essence: An Autobiography of Charles Sanders Peirce, Nashville and London, Vanderbilt University Press, 1998, libro composito di documenti autografi e ricostruzioni narrative.  
  12.  Il che è sufficiente, a due ricercatori dei nostri giorni, per recuperare e sottoscrivere l’intera ipotesi goethiana dalla natura che appronta le strutture della conoscenza allao scopo di conoscersi: “L’uomo ‘vede’ grazie alla luminosità offerta dallo stesso universo; le sue visioni sono orientate da una luce della natura. Non è più l’Io penso, con le sue strutture trascendentali, a rendere pensabile l’universo, ma è l’universo stesso a rendersi pensabile costruendo le proprie verità simmetricamente agli abiti di risposta umani.” R. Fabbrichesi Leo e F. Leoni, Continuità e variazione, cit., p. 141. Sul lumen naturale in Peirce si veda anche C. Sini, Idoli della conoscenza, cit., pp. 67-76.