Dittico del male. Ricardo Piglia e J. M. Coetzee

Nel suo ultimo e imprescindibile saggio sulla storia del romanzo europeo, Milan Kundera afferma che Hitler ideò un regime politico la cui nefasta conseguenza è stata rendere impossibile la tragedia, vale a dire cortocircuitare la morale individuale al momento di farsi carico della responsabilità e della complessità delle decisioni. Hitler e i suoi epigoni si proposero di eliminare la possibilità di scegliere, di optare, e mobilitarono una macchina di stato incaricata di ricordare quotidianamente ai sudditi l’indegnità e la bassezza delle loro esistenze. L’obiettivo era quello di protrarre lo stato di guerra in Europa.

Alcuni dei più importanti romanzi della fine del XX secolo e degli inizi del XXI cercano di immaginare l’inferno. Non la discesa dantesca, amena ed esemplare, quanto l’inferno possibile, l’inconscio percorso verso la distruzione, la fantasia del male che si nutre dei progetti totalitari dell’Europa del XX secolo.

Hitler e i suoi concepirono, attorno al 1944, una perversa possibilità civilizzatrice che passava per l’inferno attraverso la «guerra totale» (der Totale Krieg). Il fatto che un europeo portasse a spasso un continente sul filo dell’Apocalisse è divenuta una poderosa possibilità romanzesca.

Il fascismo nordamericano, come realtà o come possibilità, è il tema di alcuni dei migliori romanzi di Philip Roth o Don DeLillo. In Sudamerica, dove alcune dittature militari imitarono la gestione nazista del dolore, i romanzi in cui compare Hitler e il suo stato di guerra trattano di un passato europeo che può spiegare il futuro dell’America. Ricardo Piglia, in Respiración artificial (1980), immagina un incontro tra Hitler e Kafka nella Praga degli anni venti. J. M. Coetzee, in uno dei romanzi più illuminanti del nostro tempo, Elizabeth Costello (2003), segue i passi di una vecchia professoressa che assiste alla fine dell’umanesimo in un mondo in cui il male è divenuto banale. Queste pagine sono il prodotto di riflessioni concentriche a partire dalla lettura di questi due romanzi. Mi interessa sottolineare il carattere totalmente immaginativo di queste finzioni dell’orrore storico, inclusa la dimensione umoristica della resistenza al male. Con Piglia affronterò la dimensione linguistica del problema morale che presuppone l’immaginazione dell’inferno, vale a dire i dubbi riguardo alla possibilità di esprimere l’inferno e la conseguente capacità di razionalizzarlo. È un tema che ha le proprie origini contemporanee nel futurismo e nel «realismo eroico» di Jünger, che nel 1934, in Sul dolore, invitava a sviluppare uno sguardo obiettivo e freddo per comprendere il dolore, «lo sguardo del medico o dello spettatore che dalle gradinate del circo vede scorrere il sangue dei gladiatori». Davanti a questo umanesimo crudele si solleva l’obiezione di J. M. Coetzee, che si interroga sui limiti dell’immaginazione; limiti che, in definitiva, sono anche i limiti del visibile, di ciò che si costruisce in immagini a partire dalla parola. Per Coetzee esiste una frontiera nello spazio teoricamente illimitato dell’immaginazione.

Una conversazione tra Hitler e Kafka

Quello che Hitler rappresenta, lo sviluppo e la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, l’Olocausto e Hiroshima, sono sfide per l’espressività artistica del XX secolo, una sfida per l’immaginazione più che per la verità storica.

Alla fine di Respiración artificial di Ricardo Piglia (trad. it. Respirazione artificiale, Milano, Serra e Riva Editori, 1990) il protagonista, Emilio Renzi, alter ego dello stesso Piglia, e Tardewski, alter ego del romanziere polacco Witold Gombrowicz, hanno una conversazione in cui cercano di delineare la personalità di Marcelo Maggi, zio del protagonista e apparente chiave per comprendere alcuni episodi della storia argentina. Maggi e Tardewski sono personaggi opposti e complementari. «Io – dice Tardewski –, lo scettico, l’uomo che vive fuori dalla storia; lui, un uomo di principi, che può pensare solo a partire dalla storia. L’unità dei contrari». Per Maggi non esiste altra forma di lucidità che pensare “dalla storia”. «Come potremmo sopportare il presente – si chiedeva Maggi, come ricorda Tardewski –, l’orrore del presente, […] se non sapessimo che si tratta di un presente storico?» (p. 177). Tardewski, da parte sua, preferisce il mondo delle ipotesi romanzesche e i casi della lettura, le combinazioni fortuite della lettura e le sue formulazioni immaginarie. In questo modo, casualità dopo casualità, legge il Discorso sul metodo Mein Kampf come se stesse leggendo due monologhi romanzeschi. Se, stando a Valéry, l’opera di Cartesio è il primo romanzo moderno, Mein Kampf, secondo Tardewski, ne sarebbe la parodia. Nell’edizione di Mein Kampf che sta leggendo c’è una nota a piè di pagina che racconta come Hitler si nascose a Praga per eludere il servizio militare che doveva compiere tra il 1909 e il 1910. Proprio il giorno prima di leggere questa nota gli era capitata in mano una recensione, pubblicata sul Times Literary Supplement, relativa al VI volume della prima edizione delle Opere complete di Kafka (Diari e lettere) e alla celebre biografia di Max Brod, entrambi pubblicati nel 1937. Brod racconta che, per strappare Kafka alla solitudine, lo incoraggiò a prendere contatti con i frequentatori del Caffé Arcos di Praga. Kafka lo ascoltò, e nei suoi diari Tardewski trova delle annotazioni in cui parla di un ometto che dice di essere un pittore, di essere fuggito da Vienna e che risponde al nome di ‘Adolf’. Tardewski, entusiasmato di fronte alla possibilità romanzesca, enumera prove che possono dimostrare l’incontro tra Hitler e Kafka nel gennaio del 1910, a Praga, attorno a un tavolo del Caffé Arcos della Meiselgasse.

Dal diario di Kafka immaginato da Piglia sappiamo che l’ometto che risponde al nome di Adolf parlava all’autore de La colonia penale di un’atroce utopia, quella del mondo trasformato in un’immensa colonia penale. Adolf si presenta come il profeta del dolore, colui che sa esprimere a parole l’orrore. «Il genio di Kafka – scrive Piglia – sta nell’aver capito che se quelle parole potevano essere dette, allora potevano essere realizzate». Si tratta della responsabilità della parola, responsabilità che riguarda sia chi la dice che chi l’ascolta. La responsabilità, nel caso di Kafka, significava saper ascoltare e trasformare quanto udito in romanzo. Questa è la tesi immaginata da Piglia: «Kafka fa nella sua narrativa, prima di Hitler, ciò che Hitler gli disse che avrebbe fatto. I suoi testi sono l’anticipazione di ciò che vedeva come possibile nelle parole perverse di quell’Adolf, pagliaccio, profeta che annunciava, in una specie di sopore letargico, un futuro di una malvagità geometrica». «Neppure lo stesso Hitler, ne sono certo – in questo caso è Tardewski a parlare – credeva nel 1909 che questo fosse possibile. Ma Kafka sì. Kafka, Renzi, disse Tardewski, sapeva ascoltare. Era attento al mormorio malaticcio della storia». Un mormorio che si struttura in romanzo e finisce per intitolarsi Il castello. Ora: ci sono esperienze storiche indicibili. Auschwitz, ad esempio, per Piglia – come per Adorno – è indicibile. Si tratta di un mondo che è al di là del linguaggio. Proprio quel mondo previsto dall’ometto Adolf del Caffé Arcos, quel mondo indicibile, è quello del quale scrive Kafka. Ma questa possibilità di immaginare la distopia, e non solo di immaginarla, ma soprattutto, la possibilità di esprimerla a parole, contrasta con il silenzio che attornia la realtà storica del male assoluto. Primo Levi (Se questo è un uomo, 1956), Jean Améry (Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, 1966) o Jorge Semprún (L’écriture ou la vie, 1994), da punti di vista diversi, hanno varcato la frontiera del silenzio nel racconto delle loro vite dopo essere sopravvissuti a un campo di concentramento. Il problema ci riporta nuovamente alle frontiere tra realtà e finzione o, con maggiore precisione, al limite tra storia e romanzo.

Oscenità e censura

Piglia concepisce il romanzo come un thriller della storia. Questa concezione si amplia con un’altra, ugualmente imprescindibile per comprendere un’epoca – la nostra – che appare con tutta evidenza incomprensibile. Per J. M. Coetzee il romanzo deve riuscire a metterci al posto dell’altro, il posto dei contemporanei e quello dei predecessori. «Non è questa – si chiede il figlio di Elizabeth Costello cercando di spiegare ciò che fa sua madre come scrittrice – la cosa più importante della letteratura: che ci tira fuori da noi stessi, che ci porta dentro altre vite?». Una vera odissea morale è, in effetti, il romanzo Elizabeth Costello, che prospetta tra l’altro il futuro degli studia humanitatis e, inoltre, indaga nel potenziale di pericolosità della scrittura come forma di avventura della morale.

Coetzee, attraverso Elizabeth Costello, sostiene che il romanzo tradizionale sia stato costruito come avventura della storia che cerca di dare una forma al futuro possibile. «Come la storia – afferma Costello –, il romanzo è dunque un esercizio attraverso il quale rendere coerente il passato. Come la storia, esplora il contributo, rispettivamente, del carattere e delle circostanze, nella formazione del presente. Così facendo, il romanzo ci indica come esplorare il potere del presente di produrre il futuro».

Ciò nonostante, è possibile che non tutto sia permesso nell’immaginazione storica del romanzo. Elizabeth Costello si scontrerà con i limiti, con il bisogno di limiti nella scrittura. Nel capitolo intitolato «Il problema del male» l’anziana professoressa e scrittrice è invitata a parlare sul tema «Testimonianza, silenzio e censura» nell’ambito di un incontro letterario su «L’eterno problema del male».

All’inizio la sua intenzione è di continuare a sostenere la tesi che «la civiltà occidentale è fondata sulla fede nelle possibilità illimitate e illimitabili dello sforzo umano», e che, pertanto, «è troppo tardi per cambiare le cose, bisogna semplicemente reggersi ben saldi in sella e andare là dove ci porta il destriero». Qui introduce la sua difesa del diritto degli animali a una morte dignitosa, Leitmotiv morale dell’opera di Coetzee e bandiera ideologica del personaggio di Elizabeth Costello, una difesa che la porterà a modificare le sue idee sulla censura. «I campi di sterminio non sarebbero stati inventati senza l’esempio dell’industria di lavorazione della carne», afferma Costello. E aggiunge: «è stato dai mattatoi di Chicago che i nazisti hanno imparato a lavorare industrialmente i corpi». Secondo questa nuova impostazione, se c’è qualcosa che il male può prendere a modello per estendere il proprio campo di battaglia, bisogna anzitutto evitare l’esistenza del modello. Se qualcosa che viene detto o scritto può servire d’ispirazione al male, è preferibile non dirlo o non scriverlo. «Che ci siano cose che non è bene leggere né scrivere» è la conclusione a cui giunge Elizabeth Costello. Il suo cambiamento di opinione sulla censura è causato da un libro intitolato The Very Rich Hours of Count Von Stauffenberg, in cui l’autore, un certo Paul West, si occupa della cosiddetta «Operazione Walkiria», il gruppo di militari tedeschi che cercarono di assassinare Hitler nel 1944. Elizabeth Costello lo legge con interesse fino ad arrivare al capitolo dedicato alla dettagliata descrizione delle torture. I membri dell’«Operazione Walkiria» furono seviziati fino alla morte in un sudicio scantinato berlinese. Sebbene questo capitolo la disgusti e la ripugni, Elizabeth Costello continua a leggere, dominata da un oscuro istinto, l’istinto che ci spinge a sapere tutto, vedere tutto e conoscere tutto; quell’istinto che ci rende migliori ma che ci può anche distruggere.

Elizabeth Costello, una volta finito di leggere il capitolo, avrebbe preferito non averlo fatto. Questo desiderio di non avere letto comporta implicitamente un imperativo morale che consisterebbe nell’escludere quello che non deve essere visto, né letto, né scritto; lasciare nell’invisibilità ciò che possiamo definire «osceno»: «Per salvare la nostra umanità – pensa ora la scrittrice –, alcune cose che potremmo voler vedere (che potremmo voler vedere perché siamo umani!) devono rimanere fuori dalla scena». L’inferno, per Coetzee, è un mondo in cui il male è divenuto banale come risultato dell’assenza di limiti; la distopia è dunque il regno dell’oscenità, di quello che si vede e non si dovrebbe vedere.

Oggi siamo abituati alle conseguenze epistemologiche derivanti dall’imposizione di limiti alla conoscenza. Proprio l’episodio dell’«Operazione Walkiria» è il pretesto utilizzato dal romanziere messicano Jorge Volpi in En busca de Klingsor (1999, trad. it. In cerca di Klingsor, Milano, Mondadori, 2000) per costruire una storia sulle difficoltà conseguenti al saper distinguere tra la speculazione scientifica pura, il carattere ludico che nelle scienze ha ogni ricerca teorica, e i pericoli, le mostruosità e crudeltà alle quali possiamo essere esposti se quelle stesse speculazioni passano alla scienza applicata.

Osare sapere oppure osare non sapere, è la questione analizzata da Roger Shattuck nel celebre saggio Forbidden Knowledge: From Prometheus to Pornography (1996), nelle cui pagine cerca di legittimare i limiti che le società liberali possono imporre sia alla conoscenza estetica che a quella scientifica. Il dibattito sulla necessità di imporre limiti o meno alla conoscenza è stato vincolato per secoli al divenire del pensiero umanistico. Elizabeth Costello attraversa il mondo dall’Oceania all’America, facendo scalo in Africa e nelle grandi città europee, in cerca di qualcosa che sostituisca il vecchio sistema di valori umanistici. Coetzee constata nell’odissea del suo personaggio il declino dell’umanesimo, utilizzando al tempo stesso il romanzo per immaginare l’etica e l’estetica del prossimo futuro; il romanzo come mezzo artistico per concepire in modo concreto il mondo su cui abbiamo messo un piede, solo un piede, mentre appoggiamo ancora l’altro, in equilibrio precario, sul terreno conosciuto, ma bruciato, dell’umanesimo.

La responsabilità del romanzo nella sua missione scopritrice viene definita da Christian Salmon (Tombeau de la fiction, 1994) a proposito del romanziere montenegrino Danilo Kiš, parafrasando argomentazioni che lo stesso Kiš utilizzò in Lezione di anatomia per rispondere a quelli che, con serbo fervore nazionalistico, lo accusarono di plagio e tradimento dopo la pubblicazione di Una tomba per Boris Davidovič. Che la storia del XX secolo abbia oltrepassato certi limiti è fuori da ogni dubbio. Anche che uno dei limiti oltrepassati sia quello dell’immaginazione, ossia che la realtà abbia superato l’immaginabile, sembra essere fuori discussione. La domanda che si pone dunque Kiš è: quale deve essere la missione dell’immaginazione romanzesca dopo il XX secolo? «Dopo Auschwitz – scrive Salmon –, Hiroshima e il Gulag sovietico, alla finzione spettava una nuova missione: rendere conto in modo dettagliato di quel mondo fantastico che aveva come centro Hiroshima, di quella realtà paranoica– e qui inizia una citazione letterale dalla Lezione di anatomia di Kiš – i cui contorni cominciano a intravedersi verso la Prima Guerra Mondiale, quando l’orrore delle società segrete inizia a materializzarsi sotto forma di immolazione di massa della vittima sull’altare dell’ideologia, del vitello d’oro della religione». Così come Kafka nell’immaginaria conversazione con Hitler, Kiš concepisce l’arte del romanzo come forma utilizzata per poter vedere e sentire lo sconosciuto, l’invisibile, quello che ancora non è accaduto. Il Kafka che Piglia immagina a conversare con Hitler è una delle migliori metafore del XX secolo europeo. In Respiración artificial, questa metafora da una parte si argentinizza con l’aiuto dell’immaginazione romanzesca di un polacco, dall’altra viene utilizzata come chiave segreta, la chiave che l’orco custodisce sotto il cuscino, la chiave che apre i corridoi che collegano politica e letteratura, stato e romanzo. Partendo, naturalmente, dallo stato così come lo intende Piglia: un insieme di cospirazione, guerra, paranoia e, soprattutto, finzione economica.

Traduzione dallo spagnolo di Daniele Crivellari.
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L’intervento è tratto da Finzione e documento nel romanzo, a cura di Massimo Rizzante, Walter Nardon, Stefano Zangrando, uscito in questi giorni presso la casa Editrice Università degli Studi di Trento. Il volume raccoglie i contributi del Seminario Internazionale sul Romanzo (tra gli altri, quelli di Eraldo Affinati, Gianni Celati, Antonio Moresco, Ornela Vorpsi, Ingo Schulze). Per informazioni: Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Filologici, Via S. Croce, 65 – 38100 TRENTO – Tel.: 0461 881777 – 881722 – Fax: 0461 881751 – e-mail:editoria@lett.unitn.it.