Un ossessivo refrain

"Ho nostalgia di quando copiavo inviti a cena e biglietti da visita di dottori, allora ero felice come un bambino, immaginavo che la mia scrittura producesse cibi deliziosi o curasse malati inguaribili: cose che la mia calligrafia certificava con arabescata precisione. Oggi non lo credo più. Oggi non so dove andrà il mondo, anche se qui a Herisau è facile prevederlo".

Non andare a caccia di pensieri, sono loro a venire incessantemente da te”.

R. W.

“Hölderlin giudicò conveniente, anzi riguardoso, rinunciare a 40 anni d’età al proprio intelletto: con ciò offrì a molti l’occasione di compiangerlo nel modo più dilettevole e gradevole”.

R. W.

“Se un uomo sano scrive male, allora è malato in qualità di poeta. Se un uomo malato scrive bene, allora appartiene in qualità di uomo a coloro che sono sani”.

R. W.

Prefazione

Questo libro raccoglie i colloqui tra Robert Walser, degente dell’ospedale psichiatrico di Herisau, e il giovane medico Karl Weiss, allora tirocinante di quell’istituto, negli anni fra il giugno del 1954 e il dicembre del 1956. I colloqui, inediti fino ad oggi per esplicita volontà di mio nonno, adesso vedono la luce per le edizioni Ernst Marti a Lugano, in un volume che non potrà che arricchire la conoscenza del “fenomeno Walser” in tutta Europa. Dopo “Passeggiate con Robert Walser” di Carl Seelig, questo libro è quanto più ci avvicina al segreto degli ultimi anni vissuti a Herisau dal grande scrittore di Biel. Il titolo delle conversazioni deriva da una frase ripetuta da Walser come ossessivo refrain nei momenti di estrema malinconia.

Hermann Weiss, 10 ottobre 2012

Etica

Mio giovane amico, mi sono fatto aprire io le porte di questo luogo: è proprio per un insopprimibile bisogno etico che ci sono entrato dentro, quasi senza accorgermene. Sì, mia sorella era d’accordo. Ma io più di lei.

Etico è sparire. Non esserci più in mezzo alle persone che credono di essere vive. E quale luogo migliore di questo per affermarlo in modo definitivo, con la complicità della vostra inutile scienza?

Ora posso intrecciare canestri e legare pacchi. Guardare scorrere le stagioni. Scrivere poesie e godermi la loro inesistenza. Il tempo in cui dovevo dire chi sono (ma sono pentito dei monologhi di Simon nei Fratelli Tanner, tante, troppe parole, che sequenza di pagine uguali!) è passato da un pezzo. Ho anche avuto troppo tempo per dirlo, ma allora i pianeti giravano con orbite graziose e io li assecondavo. Oggi li sento immobili e li guardo come un solo punto, non mi vanto di loro, e certo non loro di me. Mi guardo le dita, c’è aria che le separa, tanta, troppa aria, e vibra fastidiosa nelle orecchie!

Ridere?

Ho nostalgia di quando copiavo inviti a cena e biglietti da visita di dottori, allora ero felice come un bambino, immaginavo che la mia scrittura producesse cibi deliziosi o curasse malati inguaribili: cose che la mia calligrafia certificava con arabescata precisione. Oggi non lo credo più. Oggi non so dove andrà il mondo, anche se qui a Herisau è facile prevederlo. Guardati sempre da facce attonite, si affonda in occhi che vanno non so dove. Un lungo alone, un rumore di voci, un’eco, e poi il sonno.

Però niente lacrime.

Al contrario, bisognerebbe ridere e non smettere.

Qui, in tutto il manicomio, ci sono tali palcoscenici che potrei scrivere farse in un atto se solo avessi voglia di intrecciare ancora meraviglie su carta.

Imminenza

Sei nato in Italia, anche se hai un nome svizzero. Allora ti risponderò con le parole di Dante: “Io dirò cosa incredibile e vera”. Ho motivo di contraddire proprio io il grande regista delle cosmogonie, il perplesso uomo che sviene negli inferni freddi e roventi? Lo scrittore ha il compito di accostarsi all’incredibile e di mostrarcelo come vero. Ho amato molto i romanzi d’avventura per questo, i loro eroi e i loro autori, da Dumas a London, da Aramis a Martin Eden. Accadeva qualcosa di nuovo nella vita senza senso del lettore: leggeva di moschettieri e di dirigibili, di mirabolanti avventure nel centro della terra e di vagabondi che vagano fra le stelle vivendo tante vite. Non sapevo mai cosa sarebbe accaduto nel prossimo capitolo. Forse la rivelazione di qualcosa che non si sa se avverrà è la vera magia: è l’estetica di cui parlano gli eruditi. Una cosa imminente ha questo potere: ti affonda nel sonno, ti calma, ti aspetta oltre ogni sogno. Chi rinuncia al mondo è nella condizione giusta per comprenderlo. Solo così tutto ciò che esiste ritorna vero.

Amore

Amo i briganti, quelli che arrivano di notte, ti rubano tutto e ti lasciano vivo perché tu possa ricordarti di loro. Morto, non potresti. I masnadieri sono furbi, sono bandìti dell’arte, ti bandiscono dal mondo. Assomigliano a un dio. La somiglianza fra dio e uomo è singolare: l’uomo non capisce qualcosa che lo spaventa o lo innamora, e lo chiama dio. E allora… Oh dio brigante!

Impenetrabile

Difficile risponderti. Non sono impenetrabile. Sono docile alle domande degli altri, ma devono essere le domande giuste. Non posso essere io a chiedermi qualcosa: saprei già tutte le risposte. Qui, a Herisau, nessuno mi chiede nulla. È tutto un leggiadro silenzio. Nessuno sa che io scrivevo, nessuno nomina i miei libri. Dovessi consigliare qualcosa a qualcuno gli direi: scrivi per te, e per nessun altro. Mostra le tua pagina a qualcuno, poi cancellala, dimenticala. Cosa significa, questa funebre immortalità dei libri, poveri oggetti a volte lasciati soli per anni, nelle biblioteche, coperti di polvere come scrigni senza tesori? Gli scrigni vanno aperti e la polvere d’oro sparsa sui sentieri!

Non è vero che detesto gli scrittori vincenti, solo che mi disinteresso a loro. Non mi sento né padre né figlio di quello che scrivono. Vivo una sindrome della fuga? Non so. È una questione di musica, più che di innocenza. I vincenti non mi parlano, sono bronzi sordi. Dentro il paesaggio temporalesco della città in bilico sono gli inutili archi di trionfo. Cosa vuoi che dica? Sotto gli archi pisciano i poeti e passano i girovaghi: io sono lì. Vedi tu a che punto sono superbo.

Schubert

La tua piccola scienza, dottor Weiss…Piccola, troppo piccola, e pensare che potrebbe diventare così grande. Vasta come un panorama che nessuna terra può contenere. Ma voi vi ingegnate solo a descrivere le vostre paure. Cercate soluzioni, non vi fate allibire. Molto brutto, questo, e spiritualmente povero. Il dolcissimo Schubert ci faceva allibire sempre. Così ingenua, la sua musica si snoda prolissa e sublime per valli e sentieri, le sue frasi hanno sempre lo stupore melodioso del wanderer che si ferma in una radura incantata e luminosissima: sono ciò che voi non avete mai avuto e che io non dimentico. Passeggio felice, nonostante l’età. Mi commuovono i cieli temporaleschi. Credo che scrivere derivi dalla paura di guardarliveramente.

Descrivere?

Obbedisco. Servo il mio sogno di servire. Lo faccio perché i servi scelgono i padroni, non i padroni i servi. E così sono libero.

Ma ho descritto troppe volte i dettagli del mio sogno, e in troppi libri. Questo è male. Mi disturba che mie parole troppo chiare esistano ancora, che vadano sempre in giro. Sono stato un millantatore. Il sogno ha bisogno di bambini taciturni. Io ero un taciturno superbo di parole, gonfio come un pavone di tante, tante, tantissime parole.

Preferirei di no

Tutta la mia vita deriva da una frase di Melville.

Preferirei di no.

Così ho perso la mia vita. In quel “preferirei”.

Non ho mai detto “preferisco”.

Sono stato nel no come nel sì.

Se mi obbligavano, copiavo lettere ossequiose nella mia camera.

Se non mi dicevano niente, fissavo il muro, come tanti Meravigliosi Scrittori che mai scrissero nulla.

Autobiografia

Certo, io non sono uno scrittore che scriverà la sua autobiografia. In un libro in prima persona l’io è un modesto personaggio, e non l’autore. Cominciassi mai a parlare di me, mi fermerei dopo cinque minuti. Quel passero che cinguetta conta di più. Il fatto che noi non contiamo nulla, a me non causa nessun dolore. Proprio nessuno. Il fatto che io valga meno del lavacessi di un manicomio non mi fa male. Qui sono protetto. Pensa: nessuno potrebbe più rinchiudermi qui dentro perché mi ci sono già rinchiuso io per mia esplicita volontà. Il resto degli uomini non baderà ai nomi degli alienati di Herisau, cancellando con decisione le nostre vite. Bene. Mi deluderebbe essere ricordato. Ho sempre amato i Lotofagi: mangiano la dolce pianta di loto e smettono di ricordare gli affanni del mondo. Beati bambini, sulle rive di qualche oceano remoto. Loro non andranno mai a quei tristi funerali dove vecchie zie, dietro a piccole bare bianche, si chiedono ancora quale vita avrebbero vissuto quei corpicini che non respirano più. Perché pensarci? Perché seppellire i morti? Basta restare bambini e la vita non sfugge più, come una bella sciarpa calda. Imparate dai Lotofagi, come non imparò Ulisse, troppo astuto navigatore, e restate nelle isole senza memoria.

Eroi

Non leggo più, perché ormai ricordo tutto quello che ho letto. Non leggo più perché mi troverei nella condizione di quando leggevo La loggia invisibile di Jean Paul e mi entusiasmavo per certe frasi e poi mi imbattevo in foreste di stranezze e interrompevo la lettura: mi sembrava che l’autore mi parlasse in una lingua segreta che non ero in grado di poter decifrare. Ma ogni libro fa parte del disegno della natura. Io ne ho scritto tanti e ora mi chiedo perché. Non sarebbe stato più giusto evitare di farlo? Tanti trattati sul non-essere, perché ho voluto farli essere?

A mia discolpa posso dire che, in quegli anni, avevo molto tempo a disposizione e il miglior modo di perderlo era annotare storie non destinate a nessuno.

Sapessi quanto invidiavo i grandi narratori, da Dickens a Balzac. Tutti quei personaggi così veri, così ricchi di vita, che facevano sognare i ragazzi. Io, al massimo, tratteggiavo dei saltimbanchi, dei clowns. Esseri di passaggio.

Il mondo ha perso i suoi eroi. Da troppo tempo. Rimane gente come me a sorridere da un angolo della strada, quando passano persone buffe, donne deliziose, esseri da circo. E adesso, non passa più nessuno. Come avrei voluto da sempre che accadesse. Se mi hai veramente letto, quando comincio a gorgheggiare frasi senti anche i miei silenzi, le mie vertigini. Non sembra, ma ho letto Rimbaud.

Hugo Wolf

Mi commuove il Winterreise di Schubert, quante volte ho ascoltato quel ciclo di lieder! C’è un bel giradischi, a Herisau, nella stanza delle visite, e io quante volte mi fermo a far girare un microsolco, con il permesso dei dottori: gli altri malati non sembrano soffrirne, accettano a testa bassa, qualcuno mugola, qualcuno fissa il vuoto o si gratta la testa, nient’altro. Lì ho ascoltato tanti lieder, ma amavo soprattutto Hugo Wolf. Su quel matto musicista, oh come mi piace scrivere! Ho negli occhi la scena. Neve ovunque, fitta e lenta. Nessun dolore. Come si può soffrire, quando il bianco copre la pelle e costringe il corpo a poggiarsi sui tronchi freddi, a piombare in un sonno senza sogni? Wolf vede corpi distesi, supini sopra l’ultimo strato ghiacciato, precipitati o caduti da poche ore. Vicino a lui un uomo smania, si toglie gli abiti nella bufera. Hugo si spoglia, li indossa. Ora sono suoi. La stoffa è morbida. Calza scarpe trovate sulla roccia, aderiscono perfettamente al suo piede. La suola è ancora calda. Scavalca cancelli, oltrepassa siepi. La tormenta ritorna. Wolf appoggia l’orecchio a terra. Il rombo della frana è remoto come un flauto. La valanga trascina tetti, case, muri. Che timbro basso, clarinetto. Dall’albero cadono pezzi di neve – accordi di viole. Solleva la testa e turbina il vento. Hugo non può andare oltre. Fiocchi freddi, su ciglia e mani. Non vede che un velo, più grigio che bianco. Tasta aria gelata, un pulviscolo. È sempre più immobile. I piedi non avanzano, non creano orme. Le raffiche sorde, nell’aria, e vortici, vortici di punti bianchi: gli entrano nella gola, gli bloccano il respiro. Wolf è fermo nella terra ghiacciata, estraneo ai movimenti del mondo. I fiocchi sibilano fra cielo e rami. Lascia il bastone, si sdraia terra, vinto da un sonno assoluto. Gli occhi si chiudono, le ciglia non battono, il cuore rallenta. Lascia che la neve gli congeli le labbra, penetri nelle narici. Lentissimamente prepara la bocca a tacere, il cuore a non pulsare più. Il sonno entra nelle gambe, nelle mani, nel petto. Né stanchezza né freddo. Gira appena il collo, guarda all’indietro il mondo. Hugo Wolf vede un’unica forma bianca, senza rilievi e contorni, coperta da un velo, e ascolta – ma solo adesso – un fa diesis di acuta dolcezza.

[I – continua]