La montagna, dalla finestra

di in: Bazar

Luigi Ghirri, Scorcio notturno di abitazione, 1984

Sono al quarto piano di un palazzo, poggiato con la fronte al vetro. È grande quanto la parete, e sporco, adesso unto del grasso dei miei capelli e qua e là dei segni di insetti. Cinque centimetri di là del vetro un piano in cemento mai più calpestato dal termine dei lavori allo stabile. Il piano in cemento nero ha tre o quattro avvallamenti che sono diventati pozzanghere. Piove da quattro giorni. Ora fa una pausa, anche se le nuvole sono cariche e ferme. Come me, con la testa al vetro che ormai non è più freddo perché ci ho poggiato la fronte e pure i palmi delle mani.

Sotto le pozzanghere del piano, e sotto il cemento nero ci sono gli impianti di riscaldamento, un controsoffitto con le ragnatele, sicuramente, magari un gatto incastrato da qualche parte, e poi l’illuminazione di un supermercato che splende alle tre di questo grigio pomeriggio. Non riesco a vederne l’ingresso ma il parcheggio si. Una manciata di auto al minuto si muovono senza fretta, ordinate. Io quassù li guardo ma mi annoio subito, quindi stacco gli occhi dal suolo e li faccio girare senza muovere la testa, inchiodata al vetro. Con i palmi fissi, pure loro, ai lati. Vedo dei pioppi, la strada, quindi dei condomini. Cerco qualche essere umano e ne trovo uno seduto in terrazzo, vicino ad uno stendino pieno, o vuoto, per metà. Roba bianca si muove al ritmo scomposto del vento freddo. L’essere umano è una donna che fuma con gli occhi chiusi, mi pare di capire. Poi si alza, entra in casa e dopo una decina di secondi riappare con un telefono all’orecchio. Si sporge un attimo, l’ultima tirata della sigaretta e poi salda bene la cicca tra il pollice e l’indice, mira il terrazzo al piano di sotto e tira la cicca che cade precisa dentro un vaso da cui spunta una piantina verde. Mi sembra che l’abbia centrata in piano. Poi magari mi sbaglio, ma di poco. Non ho più voglia di stare a guardare e punto più a sinistra. C’è la ferrovia, poi la superstrada, poi una montagna ferma immobile. Non è bella ma è ferma, non si muove. Guardo la montagna. Fino a metà ci trovo delle case ammucchiate. Una colonna di fumo nero denso si alza dalla ciminiera di una fabbrica e guardo il fumo salire, spostato dal vento tutto a destra. Lo seguo, è ancora nel perimetro della montagna, che è molto più imponente della colonna di fumo. Lo seguo, il fumo, fino a che si confonde col cielo grigio. E proprio lì, un centimetro più a destra, alla fine della colonna di fumo c’è ancora un pezzetto di montagna e ci fisso lo sguardo. Su questo pezzo non ci sono gruppi di case, è verde e marrone e forse un po’ nero, tendente al bluastro. Sarà il cielo nuvoloso, o il vetro sporco.

Poi sento chiamare il mio nome. Non mi volto. Fisso quel pezzettino di montagna. Il mio nome riempie ancora la stanza. La tizia che l’ha pronunciato si muove, e la sento vicina all’orecchio sinistro, ripete il mio nome. Allora? Non c’è? Andiamo con il prossimo. Bitelli c’è? Bitelli c’è, perché infatti Bitelli dice eccomi e insieme se ne vanno i loro passi e le loro voci. Poi una porta si chiude, poi silenzio. Poi io, che ancora fisso quella parte di montagna e vedo d’un tratto una cosa che mi attira particolarmente. Cioè tra quel verde lì, in pratica, non succede niente. E mi attira questo fatto. Non ci penso su troppo e decido di andarci subito.

 

Prima di richiudere la porta d’ingresso alle mie spalle fisso un attimo la mia destinazione ma invece che la montagna metto gli occhi sulle impronte che la mia testa e i miei palmi hanno lasciato sul vetro. Una volta nel parcheggio, salgo in macchina e arrivo all’incrocio. Sto così finché un clacson non mi suona alle spalle, allora mi scuoto però faccio segno che devo tornare indietro. Quello s’incazza di peso, sgasa in retromarcia e mi fa spazio. Poco poco, che devo essere bravo a fare manovra che lui mi ha lasciato poco spazio perché mi sa che non vede l’ora che gli tiro via la fiancata così poi sono cazzi miei. Invece io faccio piano, fischietto e torno dov’ero prima senza cercare lo sguardo del tizio che invece lo vedo con la coda dell’occhio che cerca il mio. Scendo e torno su, suono il campanello, dico il mio nome e mi aprono. Quando apro la porta d’ingresso vedo che una signora sta cancellando dal vetro le mie impronte. La guardo con un’espressione che non deve farle piacere però non dice niente. Io che non avevo ancora richiuso la porta decido di scendere nuovamente e sento dentro un’altra voce che domanda Chi era? Nessuno le risponde quella con lo scottex. Torno alla macchina, e stavolta parto davvero. Arrivo fino ai piedi della montagna, accosto su un piazzale fatto di terra e fango, e qualche sasso. Marrone chiaro, quasi caffelatte. Buono il caffelatte. Se non avessi l’impegno della montagna andrei a prendere un caffelatte. Insomma scendo, punto il dito su in cima, a caso. Perché la colonna di fumo della fabbrica non la riesco manco a vedere più e quindi salgo dall’unica strada che c’ho davanti. Passa del tempo che vado in terza e seconda sui tornanti e ogni tanto qualche cristiano lo becco ancora, e quindi non basta. Supero un paesello di una manciata di case. Sopra la porta di un bar c’è un segnale giallo e blu rotondo che una volta era il simbolo del telefono pubblico. Bello. Però vado avanti. Ci sono tre o quattro incroci, anche una minuscola rotatoria, però faccio subito a passarli e punto in alto. Senza guardare i nomi sui cartelli. Ormai è quasi notte, e sta iniziando pure a piovere. E i fari li ho accesi ma non capisco bene dove sono arrivato. Scendo un attimo che mi sa che parcheggio proprio in mezzo alla strada, tanto dietro non c’è nessuno. Mi copro gli occhi dalla pioggia e faccio un giro a trecentosessanta gradi. Ok, le luci laggiù sarà la città, dalle altre parti però non vedo niente. Forse sono sul puntino che indicavo dal vetro. Mi sa che sono arrivato. Allora guardo nuovamente verso la città ma è impossibile trovare il palazzo dov’ero prima, quindi nemmeno mi ci metto. Risalgo in macchina per fare il punto della situazione. Pro: forse sono arrivato. Contro: ho fame, ho freddo, piove, è buio, se sono arrivato non vedo niente perché è buio e non so cosa fare, anche se sono arrivato.

Poi ragiono che se prendo la strada della città adesso, sarà difficile che io ci torno domani un’altra volta a questo punto di arrivo che mi ero prefissato e che forse ho raggiunto. E poi domani mi sa che avevo qualche impegno. Provo a barare ma mi sgamo subito, perché domani non ho impegni e quindi do una bottina piccola al volante che tanto lo sapevo che alla fine mi sgamavo. A parte questo sono ancora indeciso e guardo l’orologio, è tardi. Di solito è tardi, a quest’ora è tardi, ormai ho già cenato a quest’ora. Quindi che faccio? Boh. Anche ‘sta cosa che è tardi devo ragionarci meglio. Cioè è tardi ma non ho impegni, quindi non è tardi. E manco presto. Sono le 21.29 e basta. Non è né tardi né presto. L’ora è questa. Smetto di ragionare e alzo il riscaldamento della macchina a quattro invece che a due.

Effettivamente verso le 22 mi sale una fame che lo sapevo che sarebbe arrivata. Penso prima di andare giù in un paese che avevo visto, al bar, quello con il simbolo del telefono pubblico, però poi penso che a quest’ora è chiuso, e io mi conosco. E se arrivo lì è chiuso magari dico: va bè scendo fino al bar che avevo visto prima, ed è chiuso. E gira e rigira torno in città e un bar aperto lo trovo sicuro, o una pizzeria al taglio, che mi andrebbe pure un trancio ai funghi, però sono al punto di partenza e qui non ci torno.

Quindi appoggio la schiena e poi di scatto mi tuffo ad aprire lo sportellino del cruscotto. E ta dan: i Tuc. Una confezione di Tuc iniziata e mai finita da chissà quanto. Li divoro tutti. Raccolgo pure le briciole facendole cadere dal maglione a un volantino che avevo nel sedile a fianco e le metto tutte insieme a canna dentro la bocca che due morsi addirittura mi ci vengono. Per bere scendo un attimo che tanto piove. Poi risalgo rapido che piove più forte di prima quindi mi do un’asciugata alla meglio col volantino. Però adesso non ho più fame e non ho più sete. Ormai resto quassù per la notte. Spengo pure la macchina che sennò addio batteria, però addio calore. Così mi fa un po’ di tristezza non sentire il rumore del diesel e anche un bel po’ di freddo, dopo dieci minuti. Però ormai sto per dormire. Il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi è il seguente: allora domattina prima cosa sveglia all’alba, vediamo se quassù arriva il fumo della fabbrica e poi se non ci arriva e se sono arrivato preciso preciso dove volevo arrivare allora va bene, vediamo. Altrimenti decido lì per lì.

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