La tazza di porcellana

All'inizio del 1799 Heinrich von Kleist si fidanza con Wilhelmine, figlia del generale Von Zenge. Nel 1800 parte per un lungo viaggio durante il quale - come il poeta rivela alla ragazza nel suo epistolario - confida di guarire dalla misteriosa malattia che gli impedisce di sposarsi. In una lettera del 18 settembre 1800 lo scrittore ricorda a Wilhelmine la tazza che le ha donato in occasione del loro fidanzamento. Questa tazza, tuttora conservata in un museo di Lipsia, ornata di papaveri e fiordalisi, contiene una sciarada intraducibile: l'interno reca la parola Vertrauen, «fiducia», l'interno del piattino la parola uns, «noi»; l'esterno la parola Einigkeit, «concordia»: cioè «Fiducia in noi, concordia tra noi». Heinrich von Kleist e Wilhelmine Von Zenge non si sposeranno mai.

di in: Bazar

Heinrich von Kleist a Wilhelmine von Zenge

 

Wurzburg, 18 settembre 1800.

 

Mia cara, carissima amica!

 

     Come brama il mio cuore un paio di parole amichevoli scritte di tuo pugno, una breve notizia della tua vita, della tua salute, del tuo amore, della tua tranquilità! Quanti giorni abbiamo passato ora separati l’uno dall’altra e quante cose saranno capitate che riguardano anche me! E perché non vengo a sapere nulla di te? Non esisti più? O stai male? O ti sei dimenticata di me, che ti ho sempre avuta presente nel mio pensiero? Sei forse in collera con l’amato che si allontanò così capricciosamente dall’amica? Muovi forse il rimprovero di leggerezza al viaggiatore che in questo viaggio conquista la tua felicità con sacrifici incredibili e ora forse – FORSE l’ha già conquistata? Vorrai ripagare con diffidenza e infedeltà colui che tra breve ritornerà con i frutti della sua azione? Troverà ingratitudine nella fanciulla per la cui felicità ha arrischiato LA VITA? Non otterrà il premio su cui faceva assegnamento, l’eterna, fervida, tenera gratitudine?

     No, no – tu non sei fatta per essere ingrata. Eterni rimorsi ti tormenterebbero. Mille ragioni hanno potuto impedire che le tue lettere giungessero a me. Mi tengo stretto al tuo amore. La fiducia in te non deve vacillare. Nessuna apparenza mi deve sviare. IN TE voglio credere e in nessun altro. […]

     E quante cose apprenderò! Con quali presentimenti guarderò la busta, il piccolo recipiente  che racchiude in sè tante cose! O Guglielmina, in sei parole può essere contenuto tutto ciò che mi occorre per la mia pace! Scrivimi: io sono sana; io ti amo – e non voglio altro. […]

     Che cosa si dice di me a Francoforte? Ma tu non avrai occasione di sentire queste cose. Dicano quello che vogliono, mi misconoscano pure! Se noi due ci intendiamo pienamente, non v’è giudizio altrui, né opinione che m’importi. A chiunque sono disposto a perdonare la diffidenza salvo a te, poiché per te ho fatto di tutto per togliertela dal cuore. – Capisci l’iscrizione della tazza? E la segui? In questo caso adempi il mio più profondo desiderio. In questo caso sai onorarmi.

     Forse riceverò anche il tuo componimento – o non l’hai ancora terminato? Non importa, non affrettarti. Un raggio di sole a primavera fa maturare il fiore dell’arancio, ma per la quercia ci vuole un secolo. Da te vorrei ricevere qualcosa di buono, di raro, di utile; e il buono richiede tempo per formarsi. Ciò che si forma rapidamente perisce rapidamente. Due giorni di primavera, e il fiore dell’arancio è appassito; la quercia invece sopravvive al millennio. Ciò che mi viene da te deve profumare per più di due istanti; io ne voglio godere per tutta la vita.

     Sì, Guglielmina, se tu potessi darmi la gioia di far progredire sempre la tua formazione con lo spirito e col cuore, se tu potessi concedermi di fare di te una moglie come l’auguro per me, una madre come l’auguro ai miei figli, illuminata, istruita, senza pregiudizi, obbediente sempre alla ragione, pronta a secondare il cuore – allora sì mi potresti ricompensare per questa azione.

     Ma tutti questi desideri sarebbero vani, se non fossi predisposta tu a tutte le cose eccellenti. Io non posso mettere niente nella tua anima, soltanto sviluppare quello che vi pose la natura. A rigore, nemmeno questo posso farlo IO. Tu sola, lo puoi. Tu stessa […] devi fissare la meta: io non posso che indicarti la via più breve, più pratica; e se ora ti fisserò una meta, lo farò soltanto perchè sono convinto che l’hai riconosciuta da un pezzo. Voglio esporre soltanto con chiarezza cio che forse è oscuramente assopito nella tua anima.

     Infine la vera istruzione della donna consiste nel saper riflettere ragionevolmente sulla missione della sua vita terrena. Riflettere sullo scopo di tutta la nostra esistenza  eterna, indagare se l’ultimo fine dell’uomo sia il godimento della felicità, come pensava Epicuro, o il raggiungimento della perfezione, come credeva Leibniz, o l’adempimento dell’arido dovere, come assicura Kant; questo è sterile anche per gli uomini, e spesso dannoso.

     Come possiamo arrischiarci a intrometterci nel piano che la natura ha tracciato per l’eternità, se il nostro sguardo ne può abbracciare soltanto una parte infinitamente piccola, la nostra vita terrena? Non avventurarti dunque col tuo intelletto oltre i limiti della tua vita. Sta’ tranquilla circa l’avvenire. Ciò che devi fare per questa vita terrena, lo puoi capire, ciò che devi fare per l’eternità, no; e nessuna divinità pertanto ti può chiedere più che l’adempimento del tuo destino su questa terra.

     Vedi dunque di limitarti a questo breve tempo. Non curarti della tua destinazione dopo la morte, perché pensando a questo potresti facilmente trascurare la tua destinazione su questa terra.

 

Tuo Heinrich

 

*

 

Wilhelmine von Zenge all’amica Henriette O.

 

Francoforte, 18 settembre 1800.

 

Cara Henriette, amica mia,

 

avrai la bontà di perdonarmi se ti scrivo in un momento particolarmente confuso della mia vita. Ma a chi confidare i propri dubbi, le gioie e i turbamenti se non all’amica fidata, che può illuminarmi con un giudizio sereno oppure aiutarmi a sorridere di alcune cose che a una giovane sprovveduta come me possono risultare troppo serie e senza possibilità di soluzione ?

Io non sono una di quelle ragazze che usano confidarsi con la propria governante. Non ti nasconderò che una volta ci ho provato, con la mia Françoise, così ricca di buone intenzioni e abbastanza esperta nelle cose del mondo: ma una mia svagata osservazione sul matrimonio e sull’amore la allarmò a tal punto da correre a riferirla subito a mia madre – naturalmente travisandone il senso – e poi…

Mi ricordo ancora il penoso interrogatorio che ne seguì: imbarazzatissima, non seppi dare una risposta soddisfacente e la cosa arrivò fino alle orecchie di mio padre. Ti risparmio il resto della storia, perché ancora adesso né io né l’incauta governante né i miei cari genitori sappiamo più con esattezza a «cosa» ci riferiamo, quando a qualcuno di noi capita di tirare in causa quelle mie candide parole.

Mia preziosa, insostituibile Henriette, è superfluo quindi chiederti, oltre che un’infinita pazienza nell’ascoltarmi, anche la massima segretezza sul contenuto della mia lettera. In verità,  non so da che parte cominciare.

Ho appena ricevuto una lettera di Heinrich da Würzburg, dove sai che si trova da alcuni mesi. E’ sempre talmente ansioso e insistente, in tutte le sue bellissime lettere! Il suo grande affetto e il suo altrettanto grande ingegno coltivano l’aspirazione di fare, della nostra unione, un capolavoro esemplare! Dovresti sentire con quanta fermezza mi rimprovera della mia scarsa sollecitudine, in questi ultimi tempi, nel rispondere alle sue missive (e come dargli torto, considerati i miei brevi biglietti di queste ultime settimane?). Mi colma di premurose attenzioni e di dottissimi insegnamenti, che a me sembrano un po’ eccessivi.

Dovrei esultare di avere un fidanzato che si occupa di me con tanta solerzia e intelligenza ed esprime così nobili progetti e sentimenti. Non a tutte le ragazze accade nella  vita una  fortuna simile. Osservo con sbigottimento gli uomini che frequentano la nostra famiglia: militari preoccupati esclusivamente della loro carriera – a cominciare da mio padre, il migliore dei padri, che ammiro e temo in uguale misura, e da mio fratello, che in tutti i modi cerca di essere alla sua altezza e conquistarsene i favori. Ma nessuno dei due mi parla (e mi scrive) come Heinrich: nessuno, nella mia breve esistenza, uomo o donna che sia, possiede una sensibilità così accesa, un’idea così netta e profonda su ciò che deve essere o non essere la vita terrena, su ciò che in particolare devo essere o non essere io. Se da una parte ne sono lusingata, addirittura commossa, dall’altra…

Ti ricordi, cara Henriette, di quella tazza che Heinrich mi donò, dipinta appositamente per noi con papaveri e fiordalisi? Porta scritte tre parole – fiducia, noi, concordia. Quelle tre parole incise per sempre sulla porcellana mi sono sembrate un mònito rivolto a me, e hanno cominciato a entrare nei miei pensieri non come un gioioso messaggio ma come una severa minaccia proferita da qualche divinità intransigente; mi sembra quasi un ordine impostomi dall’alto o semplicemente da mio padre – mio padre che, sul campo di battaglia, ordina ai suoi fedeli soldati, prima di lanciarli all’attacco: «Siate valorosi, in nome di Dio e del re».

Il caro Heinrich vuole educarmi, pensa alla mia istruzione morale e spirituale, ha letto molti libri di filosofi e pedagoghi, probabilmente Rousseau, ma, da quel poco che ho letto e mi è sembrato di capire, questo scrittore francese non parla il solenne linguaggio del mio fidanzato, ed è più allegro e naturale.

A me pare che educare l’anima femminile sia una cosa molto difficile, un po’ troppo ambiziosa – oserei dire. C’è ancora chi sostiene che la donna non possieda un’anima e così facendo ci accomuna agli animali. Devo riconoscere che Heinrich è molto lontano da questa concezione se ritiene così importante occuparsi della mia educazione, e questo va tutto a suo merito, contro chi, barbaramente, crede ancora a questi assurdi pregiudizi.

Ma – mi domando – se non riuscissi a essere come lui mi desidera? se, malgrado l’impegno appassionato, la mia educazione fallisse a causa dei  miei limiti e della mia mediocrità? Se io non capissi adeguatamente i suoi insegnamenti e non sapessi mettere in pratica nulla di quanto lui desideri che io faccia? Continuerebbe ad amarmi oppure – deluso e sprezzante – mi abbandonerebbe a me stessa, una volta sposata?

Sono assalita da mille timori e da una grandissima  incertezza. Forse Heinrich chiede troppo da me e io sono quella che sono: una cattiva allieva, tanto cattiva che…

Dolce Henriette, ricordi quella sera di giugno, nella tua casa di Karlsbaad, una sera solcata da lampi, scossa dal lungo brontolìo del tuono? Dopo una buona mezz’ora, finalmente, scoppiò un tremendo temporale. Di lì a poco sentimmo bussare al portone. Nel salotto dove erano raccolte le nostre due famiglie, appena terminata la cena, si presentò uno sconosciuto; aveva la ruota della carrozza fuori uso e i servi più o meno malandati come la ruota. Ma ci salutò con un sorriso così luminoso mentre lo invitavamo a unirsi alla nostra compagnia! Durante la conversazione scoprimmo che era un ingegnere che lavorava a Vienna, lontano parente di tuo marito, si chiamava Glauser e ci sorprese tutti per il suo spirito brillante – francese, direi – e le sue splendide battute. Mio Dio, quante risate quella sera! – ridemmo di tutto e di nulla fino alle lacrime, rideva anche tua nonna, afflitta da un feroce mal di denti, e mio padre, che non ride mai. Confesso che in quella serata mi dimenticai completamente di Heinrich, dimenticai di essere la sua fidanzata, dimenticai tutte le sue belle idee così strane e complicate e, ahimé, non appena ce ne andammo tutti a dormire, sola nella mia stanza, gli occhi spalancati nel buio, cominciai a fare dei confronti.

Von Kleist mi sembrò d’un tratto noioso, pignolo, invadente, e troppo piccolo di statura. Ma soprattutto Come potevo vivere accanto a un uomo che non rideva mai?

Ho saputo, da un’amica della mamma, che il giovane Glauser ogni tanto viene a farvi visita: tu, da persona accorta quale sei, non me ne hai mai parlato (apprezzo la tua discrezione), né io ti ho chiesto nulla di lui, né vorrei  saperne nulla.

Una sola cosa ti chiedo, e ti prego di non stupirti per l’insolita domanda:  tu, che opinione hai dei sogni? Hanno importanza secondo te? Un significato? Dobbiamo cercare oppure no di comprenderli? Ti chiedo questo perché, da quella sera di giugno, mi accade di farne uno – sempre lo stesso.

Ho una gran sete e mi avvicino alla tazza che Heinrich mi ha donato come pegno d’amore e che fa bella mostra di sé su un ripiano della cristalliera. Mi avvicino ma non riesco a prenderla perché il mobile è chiuso e fra me e la tazza si frappone un vetro molto resistente e non c’è fessura o ombra di serratura o chiave che possa aprirlo. Guardo la tazza e, mentre la guardo, mi accorgo che i fiori dipinti hanno perduto la loro lucentezza, come pure la triplice scritta, fiducia, noi, concordia, si è sbiadita; e il bordo della tazza, proprio dove voglio appoggiare le labbra per dissetarmi, rivela un’incrinatura, sempre più profonda… A quel punto del sogno di solito mi sveglio, molto turbata come puoi immaginare.

È a causa di questo sogno che le mie lettere a Heinrich si sono diradate – una manchevolezza di cui lui non cessa di accusarmi.

Ma io ti ripeto, cara amica, e perdona la mia insistenza: che cosa significa questo sogno? e tu, in assoluta sincerità, che cosa ne pensi di von Kleist e di me? Che destino potremo avere insieme noi due?

Aspetto con trepidazione una risposta.

 

Tua affezionata e smarrita Wilhelmine