Yemen, 1988

di in: Timbuctù

In attesa dell’imbarco, tento di recuperare le poche notizie che ho di questo posto del mondo: lo Yemen, regno degli aromi, della mirra, dell’incenso; le tracce di Bilqis, la favolosa regina di Saba, saranno ancora leggibili? Il sito di Ma’rib, antica capitale del suo regno, pare sia ora visitabile anche se con qualche rischio. L’operazione “Tappeto volante” che nel 1948 ha portato in Israele cinquantamila Ebrei celebri cesellatori orafi avrà cancellato l’artigianato “mirabile” descritto dagli antichi viaggiatori? Per non urtare sensibilità, ricordare che la Repubblica Araba dello Yemen è il Nord, la Repubblica Popolare Democratica, il Sud. Sono zayditi: un pronipote di Ali, cugino e genero di Maometto, Zayd Ibn Ali, è all’origine di questo scisma dall’islam ufficiale. Ricordo le stupende immagini delle Mille e una notte di Pasolini…

Dopo frammentarie letture, ora sono piena del giusto vuoto necessario ad affrontare un viaggio. Superata la nuvolaglia romana, il cielo si apre sopra la Grecia; non riconosco nessuna isola ma risento, vibrante, l’eco delle dolenti Odes cantate da Irene Papas e, insieme, l’intensa presenza di un caro amico scomparso da poco. La costa turca, Creta; Cipro dall’alto appare ritagliata da ortaglie verdissime che arrivano sino al mare, coste piatte senza spiagge. È quasi buio quando sorvoliamo la penisola arabica: vasto telo mimetico dove non si distinguono zone illuminate né costruzioni; l’annuncio del comandante ci risveglia dal profondo torpore: stiamo sorvolando Medina, stella a cinque punte di luci sfolgoranti posata su un lenzuolo nero; Jeddah, un’infinita serie di rettangoli regolari perimetrati da punti luminosi e suddivisi in unità spaziali di eguale misura che contengono moschee e grandi edifici con i profili sottolineati da lampadine colorate. Le donne salite a Cipro con in testa un semplice foulard, per scendere a Jeddah si sono avvolte in ampie djellabah nere da cui sporgono solo le unghie dei piedi laccate di rosso scuro. Le assistenti di volo servono il terzo pasto della giornata.

Sono a San’a, o almeno credo. All’aeroporto ero attesa da un autista con cartello su cui era scritto, storpiato, il mio nome, da un’addetta dell’ambasciata e dalle mie due compagne di viaggio giunte via Mosca. Non siamo all’albergo previsto, un vecchio caravanserraglio riadattato, ma allo Sheraton; non c’è tempo: siamo invitate a una festa a casa di una francese – sconosciuta – che festeggia il compleanno di qualcuno altrettanto ignoto; misto di razze, lingue e musiche, tutti parlano, mangiano, bevono immersi in nubi di fumo dolciastro. Della città intravvedo fabbricati modesti con loggiati, la piazza della Rivoluzione dove il monumento è un vero carro armato, un tratto di mura rosate che racchiudono il palazzo dell’Imam, oggi museo. Alle due e mezza di mattina conquisto la mia camera; sul muro un adesivo indica la sola e unica direzione cui rivolgersi: The Holy Mecca.

Calma, ambientarsi, tentare di adeguarsi al ritmo locale. Il suk, affascinante e repellente come tutti i veri mercati, rigurgita di brutti argenti indiani e di oggetti fatti con materiali di recupero. Per ora, le uniche cose belle le ho viste al bazar dell’albergo: preziosi bauli in legno con intarsi d’ottone e cassettini traforati, fantasiose valigette in metallo con dipinta l’immagine della Mecca. San’a è grande, sparpagliata, polverosa. È così ovviamente bella, che a un certo punto smetti di guardarla e fai invece attenzione a dove metti i piedi per non cadere nei profondi fossati che si aprono all’improvviso, o in una fogna i cui liquami scorrono indifferenti ovunque. Ma poi un cambio di luce ti costringe ad alzare gli occhi e San’a sembra scrollarsi di dosso polvere e miserie: Arabia phoenix più che Arabia felix; si esibisce senza pudore, arrogante, stupenda, sicura di poter sfidare le condizioni che un essere umano chiede ai luoghi da abitare.

Appuntamento con un francese che è qui per la Total a scavare in cerca di petrolio ma, come lui stesso dice, non ha fretta di trovarlo; ci porta da un amico che abita a Ar Rawdah in un’antica casa yemenita. Vedo finalmente le decantate finestre con lastre di alabastro in sostituzione dei vetri che a quest’ora lasciano filtrare la luce viola opalescente del tramonto. Scale, scalette, archi che s’intrecciano e si torcono, enormi ambienti con divani bassi tutt’attorno al perimetro; lampade ad olio in alabastro come sola illuminazione, bagni il cui sobrio arredamento è composto da uno sgabello, una brocca e un foro nella parete per odori e escrementi che scendono a caduta libera lungo la parete esterna. Il nostro ospite è molto religioso, fa dire messa una volta al mese nel salone principale e nella stanza all’ultimo piano, che lui chiama oratoire, c’è solo un sanguinolento cuore di Cristo, un rosario e un vangelo aperto. Temporaneamente ospita un compatriota dall’impronunciabile nome alsaziano che in due anni, a piedi e in bicicletta, è giunto sino a qui ma la sua meta finale è il Giappone. Rinunciamo all’invito del settimanale Amica e restiamo a cena da questo sfuggente ma intrigante personaggio: addetto d’ambasciata, studioso dell’islam che sta scrivendo un saggio sulle grida, i colori e gli odori degli animali! Nonostante le premesse, la conversazione scorre piacevolmente distesa; le ombre che hanno invaso la stanza, la luce incerta del camino, i toni bassi delle voci uniti al sommesso russare del febbricitante ciclista-pedone hanno un effetto gradevolmente rilassante.

Appuntamento all’ambasciata, se vogliamo andare a Aden ci servirà un visto per il rientro a San’a. Bisogna fissare anche l’itinerario interno perché è necessario un visto d’entrata e di uscita per ogni villaggio; a noi tre si aggiungono anche un pittore che dichiara la sua arte indefinibile, e una giornalista avida di sensazioni e di oggetti arcaico-primitivi (sic!). Nell’aria c’è un evidente nervosismo che si placherà solo nel pomeriggio quando la gente sarà legalmente autorizzata a consumare il qat che li rende cordiali, leggermente intontiti e con i volti deformati dal gonfiore della guancia sinistra riempita di foglie. È un’erba che si consuma solo fresca, perciò non s’importa né si esporta, ed essendo una coltivazione redditizia ha avuto il merito di frenare l’esodo rurale.

Abbiamo una Toyota e un autista, Mohammed Abdurahman, che parla francese e s’informa di continuo sul nostro stato di salute e di benessere. Attraversiamo paesaggi dove difficile è distinguere l’opera dell’uomo da quella della natura, montagne e case sono fatte della stessa essenza; la roccia o i muri costruiti con fango, pietre e paglia sono uniformati da una polvere dorata che stempera i volumi. Raida, Amran, torrioni fortificati si sfidano, in difesa, l’uno contro l’altro. In un villaggio una donna mi prende per mano, pronuncia brevi frasi di cui afferro solo i suoni aspri, ruvidi, ma sorride mostrando gli incisivi ricoperti d’oro. La sua abitazione è affogata nel gelsomino e nell’odore di zucchero caramellato; ci sono altre donne, tutte senza velo, truccate, profumate e con un fiore dietro l’orecchio sinistro. Tè dolcissimo e speziato, ci lasciamo con sorrisi e complici strofinii di palme di mano, ripasseremo di qui tra un paio di giorni. Si aggirano bande di cani apparentemente senza padrone che di giorno si limitano ad annusarti ma, dicono, di notte attaccano con ferocia. In questi luoghi di vento i sacchetti in plastica sono ovunque: placente terrose che nessuno si cura di seppellire.

Huth, medioevo trucido aggressivo, la moschea ha invece lievi sagome curve e la vasca per le abluzioni è ricoperta da tenera melma verdissima. Siamo circondate da bambine che portano cuffiette a punta ricamate d’oro e d’argento, sembrano fatine cenciose cui abbiano rubato la bacchetta magica. Sa’dah, irti grattacieli a forma di cono: la base è in pietra e i muri a fasce sovrapposte in fango e paglia sfidano altezze sino a dieci metri. Si può cogliere l’immagine della città solo percorrendo i camminamenti delle sue mura a mezzo sgretolate: quartieri d’ombra, grandi porte scolpite, torri, garitte di guardia decorate d’arabeschi. Al mercato si è avvolti dall’aspro profumo che proviene da mucchi di uva dai lunghi acini neri messa a seccare al sole, poi pile ordinate di croccanti, dune di spezie dai vari colori, pugnali (la jambìa che tutti gli uominiportano infilata in cintura) oggetti in argento, talleri di Maria Teresa venduti da commercianti ebrei dalle lunghe basette arricciolate. Cesti di ogni forma, misura, intreccio e colore; piatti e orci in terracotta decorata o in una sorta di pietra olearia, lampade a olio in alabastro. Quasi tutto l’artigianato è indiano, importato o prodotto localmente. Lungo la strada mi estasio ad ammirare un ammasso di nubi plumbee che di continuo cambiano forma e procedono a grande velocità: scoprirò poi che si tratta di sciami di cavallette tanto enormi da oscurare il sole.

Shahara. Note confuse, non sono certa di trovare parole che traducano il senso dell’essere in questo luogo. Sono al centro, in cima, nel cuore del mondo. Ci si arriva su una camionetta, superando pendenze impossibili, scortati da uno zombi armato di kalashnikov; la nostra Toyota e l’autista sono rimasti in basso: questo è un feudo cui si accede solo con la scorta armata del padrone locale. Strada da vertigini ma il sole è già basso e il buio inghiotte la paura, restano emozioni per una bellezza quasi intollerabile, e il silenzio. Il funduq che ci ospita è un’antica residenza dell’Imam, casa-fortezza-città-castello. A lume di candela si sale una stretta scala che ha pareti annerite dai fumi delle lampade a olio e lisciate dal secolare strofinio di corpi; negli oscuri corridoi il continuo frusciare dei piedi nudi di ragazzini armati che fanno la guardia davanti alla porta della camera che ci è stata assegnata e dalla quale non potremo uscire sino a domattina. La stanza, spazio quadrato dipinto d’azzurro, ha pareti scavate da nicchie che contengono ceri accesi, un grande tappeto, cuscini multicolori posati a terra tutt’attorno. Ci porteranno il tè poi, forse, qualcosa da mangiare. Ma niente ha importanza adesso, sono in stato di rapimento, senza desideri e pronta ad accogliere qualunque cosa possa succedere. Alle finestre, le lastre di alabastro rispecchiano le nostre immagini animandole e lasciano trasparire sagome esterne che alla luce delle candele sembrano di giganti.

Il signore locale ha un esercito personale, dotato di mitra russi, è disposto ad accogliere i rari visitatori ma stabilisce lui le regole: stati nello Stato, e l’attuale presidente in carica da sette anni ha resistito tanto proprio perché sa negoziare con i vari capi regionali; quelli che lo hanno preceduto hanno avuto minor fortuna, e vita breve. In silenzio, strisciando su lunghissime ciabatte arriva un vecchio con vassoi e ciotole; non si distingue ciò che mangiamo ma ha buon sapore ed è accompagnato da giganteschi thermos di tè bollente che profuma di chiodi di garofano e cardamomo. Le mie due compagne si addormentano, io continuo a bere tè che, come la scorsa notte, mi terrà sveglia ma dormire mi sembra uno spreco, una colpevole mancanza d’attenzione per questo luogo di cui, comunque, coglierò solo qualche breve lampo. Qui l’opera dell’uomo appare insieme mistica e violenta, autoritaria e assecondante verso questa natura che si difende con baratri e voragini e aggredisce con la sua perfezione.

Alle quattro ci sveglia un suono acuto come di uccello ferito, è la voce di un ragazzo che lancia il nome di Allah contro le montagne, e queste lo rimandano amplificato. Lamento, minaccia, sfida… Poi, la voce arrochita del muezzin che giunge attraverso un altoparlante soffoca ogni altro suono: è l’ordine, il potere, la norma. Ogni sguardo cristallizza una scena perfetta: donne avvolte in veli colorati scendono lentamente i gradini della cisterna per attingere l’acqua con armoniosi movimenti simili a una danza; gesti e atteggiamenti maschili sembrano invece mimare una guerra perenne. Il nostro tempo è scaduto, dobbiamo andarcene. Potremmo scendere con la camionetta ma di giorno la strada mostra tutta la sua diabolica pendenza, meglio a piedi anche se su di un sentiero da capre con burroni che si spalancano ai due lati. Due ore sotto il sole che già scotta, e i falconi si prendono gioco della nostra goffaggine sfiorandoci per poi precipitarsi a valle quasi sfidandoci a una gara; le tortore sono più gentili, ci aspettano. Ai piedi della montagna, ritroviamo l’autista, l’auto e tutti i bagagli nonostante gli avvertimenti minacciosi e il fatto che a un gruppo di tedeschi manchi una viaggiatrice e due valigie, oggetto, queste ultime, di maggior preoccupazione.

All’ennesima offerta, decido di provare il qat: giusto due foglioline scelte tra le più piccole e meno polverose; ha un sapore aspro simile a quello della noce di cola, quanto all’effetto promesso: lucidità, intelligenza, serenità, ho qualche dubbio. Ripassiamo da Amran, le donne ci aspettavano, siamo invitate a una festa di nozze, rigoroso gineceo da cui ogni presenza maschile è tassativamente esclusa. Sedute su una sorta di pedana-altare accanto alle due future spose avvolte in veli d’oro e d’argento, veniamo vestite, truccate e ingioiellate. Vi sono almeno quaranta donne, a viso scoperto, ammassate in un’unica stanza, si cammina su neonati incautamente posati per terra tra mucchi di vestiti. Caldo da sauna e stordimento per l’intenso profumo di gelsomino, di basilico e di un altro arbusto aromatico che le donne tengono in seno. Si mangiano frittate di yogurt, cipolle e peperoncino, dolci spalmati di melassa; addii difficili, facciamo tardi e cala il buio quando ancora siamo lontano da Shibam. Viaggiare di notte è segnalato come una grave imprudenza e di fatto per due volte sbagliamo strada. Ilfunduq di Kawkaban non è magico come quello di Shahara ma la stanza è spaziosa e il cibo sembra commestibile; democraticamente Mohamed accetta di mangiare con noi intrattenendoci sulle nefandezze compiute da Kabili, il signore di Shahara: poiché giorni fa hanno trucidato dieci dei suoi uomini ha annunciato che si vendicherà uccidendo trenta passanti a caso!

Kawkaban deve gran parte del suo fascino al fatto di sorgere come un’apparizione su un picco che emerge da una sconfinata pianura. L’abitato è racchiuso da muraglie turrite scandite da portoni che di notte vengono chiusi e di giorno sono sorvegliati da uomini baffuti armati di mitra. La gente è cordiale e pronta a vendere, o a procurare, qualunque genere di merce: coralli, berretti ricamati, cuffiette con lustrini, ambre, coltelli, forbici…

A Shibam è giorno di mercato, folla colorata, i soliti argenti, ambre, tovaglie ricamate e, con grande gioia di Mohamed, covoni di qat. Ai piedi della montagna, case scavate nella roccia; Thula, antica fortezza è ora sede militare e dunque inavvicinabile. Non ci fermiamo a lungo a Hababa per arrivare con la luce a Bayt Khamis da dove raggiungeremo Zakati. Mohammed. Troppo grasso per affrontare la salita, ci affida a un ragazzo dalla faccia saggia e i piedi di capra: un’ora d’arrampicata e siamo su una piattaforma mozzafiato, un altopiano sospeso nel vuoto ricoperto da sottile erba verde. Le case sono costruite interamente di pietra e in un punto quasi inaccessibile c’è un mercato-granaio dove anticamente venivano conservate le riserve di cereali in periodi d’assedio. Poco ospitali ragazzini ci accolgono con tiri di pietre, urla e spintoni. Di nuovo sfidiamo le strade al buio, lo squallido funduq di Al Mahwit si apre solo per noi e il suo odore di latrina è più che mai aggressivo; troppo stanche per reagire neppure davanti alla cena servita: una teglia di fegatini nerastri annegati in un olio dove galleggiano spicchi di pomodoro e d’aglio. La finestra si affaccia su una fumeria d’oppio, i clienti entrano, fumano sdraiati su scomodi cannicciati e se ne vanno con la stessa aria depressa di quando sono arrivati.

L’altoparlante della moschea è collocato proprio sopra il tetto del nostro funduqcosì alle quattro di mattina Allah riceve tutte le benedizioni che merita. Oggi ci aspetta una lunga e faticosa pista: ai lati delle strade-fogna di Al Mahwit sono allineate piccole case con raffinate decorazioni a rilievo; i negozi rigurgitano di televisori, registratori, videogiochi. La pista segue il corso di un wadiin secca e il paesaggio s’infittisce di alberi dalle grandi foglie lucide; la gente è bellissima, fiera e solida come le case in pietra che abitano: forme squadrate, essenziali con tetti piatti. Sono pastori di capre, coltivatori di magri campi: un bue lento trascina un aratro a chiodo (non diverso da quello in uso in Abruzzo sino a qualche tempo fa) e l’uomo che lo segue sparge il seme con largo gesto da predicatore. Passiamo tra montagne nere gonfie d’acqua che anche in questa stagione trasudano e trasformano la terra in fango. Povertà più evidente: baracche coperte da lamiere fissate con grosse pietre; mercati minimi, mucchietti di merci essenziali, ma le spighe di miglio sono alte e dritte, ci sono banani, papaie, yucche, palme. La giornalista aggiunta non demorde dal tema che evidentemente si è portata da casa : ogni cosa vista è incredibile, favolosa, così vicina a Dio; ogni schifezza che ingurgita le strappa gridolini di gioia: “Incredibile, mi sono proprio scialata!” (ma come parla?). Il pittore è un po’ molle, lamentoso e igienista ma gentile e adattabile.

Bisogno di confrontare intuizioni e sensazioni, peso della lontananza e insieme desiderio di isolarmi da chi mi sta attorno. I due aggiunti ci lasciano: a Manakah prendono un taxi per rientrare a San’a. Alle quattro del pomeriggio siamo già nel funduq: una grande stanza piena di luce che si affaccia sulla vallata, dall’afoso fondo valle siamo risaliti a 2700 metri. Cena anticipata, chiacchiere soffocate dallo spessore dei sacchi a pelo in cui siamo avvolte, controllo dei soldi restanti, ordine, scrittura… Lasciar scorrere tempo e pensieri, dopo l’accumulo di immagini una pausa è necessaria per farle decantare e, allontanandole, assimilarle. Alle sei, il sole sparisce dietro le montagne, si alzano fumi di nebbia e il nostro villaggio sembra galleggiare in superficie, più alto del resto del mondo.

Innumerevoli fortezze di minime dimensioni ognuna appollaiata su un picco isolato. Al Hoteib ospita la tomba di Hatim Ibn Ibrahim, santone vissuto attorno all’anno mille; una corona di donne vestite di luccicanti abiti di velluto, scialli d’argento e grossi coralli al collo circondano il sarcofago di marmo accarezzandolo con lievi gesti amorosi: forte odore d’incenso. Non vogliono essere fotografate ma si rifiutano con gentilezza sorridendo. Ne carichiamo sei per accompagnarle al loro villaggio poco lontano.

Al Hajjarah, banale riflessione comparativa con luoghi familiari cui pochi viaggiatori sfuggono, sembra Perugia! Colori cupi delle pietre che esplodono quando il sole le illumina, passaggi segreti, cupole d’ombra. Le donne ci invitano ad entrare in case spazzate sino a consumarne le superfici, oggetti d’uso disposti in nicchie come santini, pulizia e ordine di interni che contrastano con la sporcizia dell’esterno e dei bambini.

Per Hodeida la strada è asfaltata. Scendendo ritroviamo il paesaggio tropicale: le abitazioni sono capanne con tetti in paglia, povere, semplici, dignitose e la gente sorride, anzi ride, più facilmente che altrove. Nei pressi della città la periferia si annuncia simile a quella di qualunque grosso agglomerato urbano, potremmo indifferentemente trovarci a Bamako o a Roseto degli Abruzzi. Rare case in stile turco con resti di belle verande in legno ormai sbilenche e fatiscenti, balconi dai preziosi trafori pendono nel vuoto e le finestre dai vetri rotti testimoniano dell’abbandono di queste antiche abitazioni. In compenso, l’intera città è mercato: strade, marciapiedi, minimi anfratti sono ingombri di merci, stoffe indiane, argenti, gioielli, babbucce ricamate, elettrodomestici… Ritrovo con gioia l’orologio ammirato nella sede della banca di Manakah: una riproduzione della Mecca incorniciata da elaborati calligrammi, e il suo ossessivo ticchettio scandirà il resto del viaggio. Nel celebre, vivo e affollatissimo mercato del pesce enormi cesti contengono esemplari di ogni specie e colore: mostruosi e splendidi. Da un grosso pesce martello scorre lentamente un rivolo di sangue nero, è ancora vivo e il suo sguardo dà i brividi. Più degli uomini, le donne sono scure di pelle, non sono velate e vestono abiti attillati con lunghe maniche chiuse da file di bottoncini, in testa hanno fazzoletti dai colori vivaci e, sopra, cappelli di paglia a cono. Le barche dei pescatori sono decorate sui bordi da fasce a disegni geometrici e sulle fiancate hanno inserite tavole in legno dipinte con soggetti veristici: un fiume con accanto una palma, capanne, vedute marine. A mezz’ora d’auto il mercato Bayt Al Faqih; difficile muoversi e persino respirare compressi tra gente e mercanzie di ogni genere: animali, legumi, covoni di qat; tabacco in foglia, in rotoli, in polvere, e poi, oggetti d’argento, ottone, stagno, pietra; oli profumati per i capelli e per il corpo, henné, quadri dipinti su vetro con inserti in carta stagnola.

Zabid corrisponde appieno all’immagine letteraria dei caravanserragli orientali; superato il portone d’accesso in mattoni rosati, si affronta un dedalo di cortili, stretti vicoli chiusi tra mura bianche traforate e arabescate con improvvisi tocchi di colori accesi. L’interno delle case è fresco d’ombra: vecchie donne dai capelli di un impossibile rosa stanno sdraiate su letti monumentali, grandi tavoli con piani di vetro dipinto. Altre più giovani cuciono, lavano, stirano e ci invitano a guardarle per vedere come si fa; forse pensano che per noi aliene siano attività del tutto sconosciute. La moschea del XV secolo vanta il minareto più alto dello Yemen: luogo di preghiera ma anche fortezza invincibile.

Per entrare a Mocha si attraversa una spianata di sabbia grigio scuro ricoperta da immondizia, ossa d’animali e cumuli di sassi: il locale cimitero. A fianco, in una piccola moschea bianca un uomo legge il Corano con accanto una gatta che allatta i suoi quattro piccoli; l’interno è buio, spoglio, e solo un cerchio di luce illumina la scena. Ai bordi della strada, timidi tentativi di deserto con dune in miniatura, erbe alte di savana e picchi che sembrano vere montagne ma sono alti solo pochi metri. Nessuna abitazione, dicono che questa conca in estate diventi un braciere infuocato.

Il mar Rosso: sulla spiaggia ramoscelli di calcare rosato strappati dalla barriera prima che diventassero corallo; vento forte, gente che cammina a testa bassa tenendo per mano gracili bambini. Ta’izz è brutta senza rimedio, in parte spalmata in una conca pianeggiante, in parte sparpagliata sulla collina. Costruzioni anonime, case in cemento non intonacate che hanno la stessa precarietà di certi villaggi del nostro mezzogiorno. Il museo Salah ospita una modesta collezione di oggetti di scavo senza datazioni né spiegazioni; all’esterno, alcune gabbie racchiudono una ventina di leoni che contro ogni logica vivono e si moltiplicano, infatti nel cortile quattro allegri cuccioli giocano con un pallone sgonfio. Il museo Ta’izz, installato nella residenza dell’imam tiranno Ahmad, vorrebbe essere un rivoluzionario atto d’accusa contro le mollezze del precedente regime e la decadenza del sistema feudale. Non vedo ombra di grandezze sibaritiche ma solo un accumulo di paccottiglie occidentali probabilmente ricevute in dono e di cui l’imam non sapeva che fare: una saponetta Lux accanto a un diadema di strass, un frullatore, decine di rasoi, orologi da polso e da muro coperti di polvere, abiti, scarpe, profumi, lampade, souvenirs con carillon.

La moschea al Ashraffiya eretta nel 1229 e rifatta nel 1400, è attualmente vittima di brutali restauri; i delicati trafori in legno sono soffocati da pilastri in cemento, antiche porte lignee, delle cui decorazioni restano ormai solo tenui tracce, vengono sostituite da massicce porte verniciate con rozzi e pesanti motivi geometrici. Resistono i due minareti e qualche cupola polilobata dalla superficie scrostata che ha riflessi bianco rosati. Su consiglio di un vecchio mercante, al suk faccio incetta di incensi secondo lui indispensabili nelle varie occasioni: dopo il parto, prima di incontri amorosi, per avere serenità, fascino, bellezza e così via.

Lasciamo Ta’izz senza rimpianti, a qualche chilometro dovrebbe esserci un famoso mercato dove i montanari scendono per barattare zebù e capre contro merci di prima necessità: Wadi Dhabab, come il nome stesso indica ha luogo nel greto di un fiume non necessariamente in secca. Colpo d’occhio grandioso ma si arranca nel fango e negli escrementi animali tra montagne di pentole, cucchiai in legno, enormi caschi di banane. Vengono dalla vicina montagna Jabal Sabr, che significa monte della pazienza; le venditrici hanno facce segnate dal vento e fiori nei capelli. Moschea Al Janad, semplice, essenziale con bianche arcate che si rincorrono ritmicamente.

Si rientra a San’a e il tanto detestato Sheraton diventa un miraggio per la possibilità di una doccia calda. In camera, disfiamo sacche e involti ed è subito piacevolmente suk. Nel buffet-dansant offerto dalla Jordan Air Lines un’ implacabile orchestra filippina devasta canzoni latino americane.

Senso di fine viaggio, desiderio di fermare il tempo e rimanere ma anche di recuperare spazi abitudinari. Mohammed mi regala un’intera scatola dei profumi indiani di cui fa largo uso e che io ho apprezzato come elemento di completezza di coinvolgimento sensoriale. In un’orrida bettola mangiamo il celebre “pesce carbonizzato”, squisito anche se viene servito su fogli di giornale.

E ora il deserto! Verso Ma’rib s’annunciano dune rosate che subito fanno posto a creste di sabbia nera; tra le rovine vivono ancora cinque famiglie, adulti e bambini sembrano erosi dal vento come le loro case: qui sepolta sotto la collina sta quanto rimane dell’antica capitale del regno di Saba. L’intensità di questa presenza invisibile mi riporta l’immagine di Timbuctù, la sabbia morbida spegne ogni rumore e anche ogni forma di vita: stanno lasciando crollare le ultime costruzioni per poter iniziare gli scavi; un balcone di pietra traforata pende nel vuoto agganciato solo a una canna di bambù, forse basterà lo spostamento d’aria provocato dal nostro passaggio a dargli il colpo di grazia. All’orizzonte si profila un tramonto tragico con nubi violacee che sembrano adagiate sul terreno.

La moderna Ma’rib è costituita da due enormi caserme, una larga strada illuminata giorno e notte che collega l’aeroporto a un terzo edificio militare destinato a eventuali visite del presidente e dal Bilqis Ma’rib Hotel: blocco di cemento grigio con quinte feritoie, fortezza per difendersi dal vuoto visto l’isolamento e il fatto che siamo le uniche clienti. Nella hall troneggia una fontana davanti al ritratto del presidente e all’esterno un’anacronistica piscina a forma di trifoglio. Camerieri impettiti servono cibi dall’aria annosa e ogni voce del menu è caricata da pesanti percentuali d’imposte.

Tra le dune le celebri rovine del Tempio del Sole: una fila di colonne sovrastate da una piattabanda, qualche pietra attribuita al palazzo regale, tracce dell’antica diga del regno di Saba e, accanto, la nuova diga, ennesima dimostrazione che i moderni non hanno né la genialità né l’efficienza degli antichi capace di coniugare i caratteri formali con quelli tecnici e pratici. Il Corano ricorda che nel regno di Saba esisteva un giardino di destra e uno di sinistra che fiorivano a turno grazie alle acque ricche di limo convogliate dall’opera voluta dalla mitica regina. Qualche perplessità sull’efficienza della missione archeologica italiana che scava a Barakesh: alla luce si vedono solo alcune colonne coricate nella sabbia e i resti di una moschea che la guida definisce settecentesca probabilmente affiorata da sé. La Barakesh moderna sembra l’opera di un gigante bambino che si sia divertito a fare castelli di sabbia usando un secchiello.

Torniamo a San’a: lasciamo il nostro autista che abbracciandomi mi regala la cassetta di musica locale che ha ossessivamente suonato – sempre la stessa – durante tutto il viaggio e che io sola ho mostrato di gradire. Aperitivo a casa dell’agente di viaggio che ha organizzato tutto il nostro itinerario: un italiano che abita una casa stupenda con alternanza di spazi pieni e vuoti di grande raffinatezza, lampade a olio in alabastro colorato, arredo rigorosamente bianco e nero; cassepanche incise, bracieri d’ottone da cui si sprigiona profumo d’incenso, musica colta, locale ma anche Satie, Mozart, libri giusti…

Ultimo giorno. Le mie due compagne partono all’alba mentre il mio volo è all’una di notte. Dall’alto della terrazza guardo San’a che appiattita dalla prospettiva non riesce a nascondere la sua decadenza: le mura che a forma di otto circondavano la città da est a ovest erano un tempo tanto massicce che vi potevano transitare animali e carri; oggi restano solo i bastioni, un tratto che recinta il Republican Hospital e qualche altro rudere sparso nella città vecchia. Sette erano le porte d’accesso a San’a, unica rimasta la Bab al Yaman, delle altre sei vive ancora solo il nome dato ai luoghi dove sorgevano. Il mercato era e tuttora dovrebbe essere zona franca da guerre e conflitti che si arrestavano fuori dalle porte. Senza averne l’intenzione mi ritrovo al suk seduta tra pile di stoffe colorate a bere il tè con un mercante dal quale non ho mai comprato nulla, scortata da un ragazzino che mi ha preso in affidamento all’entrata del mercato. Serio, vestito con un doppiopetto nero e scarpe di almeno quattro misure più grandi del suo piede, segue ogni mio passo segnalandomi le botteghe a suo giudizio più convenienti, approvando i miei acquisti con aria competente. Lunghi discorsi: ognuno parla una lingua incomprensibile all’altro; mi accompagna sino al taxi che mi riporterà in albergo, non vuole soldi, mi stringe la mano e se ne va strascicando le sue scarpe troppo grandi.

Il tempo sembra fermarsi, fuori si sta facendo buio e ho davanti a me sei ore di attesa nella hall dell’albergo. Tornare, nel ritrovare gli amici ci sarà da colmare un vuoto, da accettare il silenzio di un discorso interrotto che aveva ancora tanto da comunicare. Riprendo in mano L’altare dei morti di Henry James che avevo lasciato a metà giudicandolo maniacale e intollerabile, le pagine si aprono su questa frase : “…aveva cominciato a pensare che andasse fatto qualcosa per loro. E loro erano lì, accanto a lui, forti di quell’essenza semplificata, più intensa, di quell’assenza consapevole così corporei e presenti che pareva avessero soltanto perso l’uso della parola.

Pensieri, ricordi, presenze… è ora di andare in aeroporto e tornare a casa.