La giostra

di in: Bazar

Josef Hoflehner, Green Chairs (Vietnam, 2012)

Prima stava male, poi stava peggio e quando sembrava migliorare è peggiorato ancora. Al funerale c’era tanta gente, i parenti, gli amici, quelli che lo conoscevano e qualcuno di passaggio. Una cerimonia come tante, ma non per lui. Non è facile quando muore tuo padre.

Questo è successo ieri. Oggi è a casa, un giorno di permesso, domani si ricomincia. I colleghi gli faranno le condoglianze, strette di mano, parole di comprensione, dopodomani al massimo sarà tornato tutto alla normalità.

Una cosa al lavoro l’ha imparata: di fronte ai problemi non bisogna arrendersi né continuare come se nulla fosse. Non basta prenderne atto e cercare di risolverli. Non bisogna considerarli problemi, ma opportunità.

Ieri non ci è riuscito. Anche lui col muso lungo, gli occhi umidi, un accenno di pianto davanti alla bara, un pianto vero quando è rimasto solo. Ma ora sa cosa fare, allora si alza, chiama la moglie, il figlio, la madre e quando sono svegli lo dice, dove vuole andare. Partite voi, fa la moglie. Non posso badare a tutt’e due, risponde lui. L’unico davvero contento, dopo averlo chiesto tante volte, è il figlio.

Quando sono in fila realizza di non esserci mai venuto, poi sua madre chiede dov’è, lui chiede chi e paga il biglietto; non credeva che fosse così caro, un parco divertimenti. Dentro deve rincorrere il figlio, ha paura di perderlo tra gli altri bambini, ha paura di perdere la moglie che resta indietro apposta e non fa niente per la madre, dietro ancora. A un certo punto lo chiama, ma lui tira dritto, allora chiede alle altre di allungare il passo, la prima non sente, la seconda risponde, ma è lui a non capire.

Suo figlio si ferma. Vuole salire sulle montagna russe, la moglie ha paura, ma quando la madre dice che aspetterà lo sposo cambia idea. Il giro è lento, poi veloce, urla in picchiata, sottosopra, vede sua madre a terra che si guarda attorno, vorrebbe salutarla, ma è troppo lontana. Farà un altro giro con lei. Dirà che lo sposo aspetta in cima. E se si accorge che non c’è? Purché salga.

Ma ora che sono scesi non la vede. Bella idea venire qui, fa la moglie. Aspettano ancora, poi suo figlio insiste per il grand canyon; presto o tardi la troveranno. Stavolta c’è la coda, spingono da dietro, lui si volta e gli dicono che anche loro hanno ricevuto una spinta, poi la fila riparte e altri ne approfittano per imbucarsi. Fa qualcosa, dice lei. Lui si guarda attorno, cerca quelli della sicurezza, trova un tizio vestito da gallo cedrone. Il gallo lo ascolta mentre viene immortalato da una comitiva di turisti stranieri, però non muove una zampa, allora torna indietro e qualcuno gli rinfaccia di saltare la coda.

Quando esce ha i piedi bagnati, fa per togliersi le scarpe, ma dovrebbe camminare scalzo. Pensa di avvertire quelli che aspettano, poi lascia perdere, così imparano a spingere. Ora i maghi, dice il bambino, ma nella cartina sono dalla parte opposta, in mezzo potrebbero fare qualcos’altro, fa lui, solo che impiegherebbero più tempo e vai a sapere se ci saranno ancora, obietta la moglie. Una volta arrivati scoprono che sono tra due ore, intanto ci sono i clown, ma quelli non fanno magie.

Lei è stanca, vadano avanti loro, ma quando lui propone di cercare la madre si arrende, ancora un altro, poi la cercheranno insieme, e sceglie la ruota panoramica. Quando sono in alto vedono quello che hanno visto dal basso, ma da un’altra angolazione. Vedono anche i parcheggi, le auto degli altri, la propria no. Il figlio si lamenta che gira troppo piano. Non è pensata per andare veloce, fa lei. Allora per cosa? Per il panorama. Ma lui al panorama c’è abituato, il compagno di banco abita al dodicesimo e l’ingresso è gratis.

A terra sentono parlare di un incidente, una cabina si è staccata, ma è successo tempo fa. Per fortuna sopra non c’era nessuno, però sotto sì. Allora lei commenta che è meglio così, meglio saperlo dopo. Se lo sapeva prima non saliva.

Ora cercheranno la madre, ma la moglie ha fame e il bambino vuole andare sul top spin. Lascialo andare, tanto è a due passi, dice lei. Mentre viene assicurato al sedile saluta e loro ricambiano, poi si accorgono che altri genitori fanno lo stesso, allora si sorridono a vicenda. Quando arrivano i panini lei dice che non sarebbe male rimanere seduti tutto il tempo. Si guarda attorno, lui anche, quindi cerca il figlio, ma non è più seduto allo stesso posto, è un altro giro, starà tornando, ma lungo la strada non c’è.

Chiamalo, fa lei, ma non risponde. Propone di fare un annuncio, ma per la moglie è troppo, allora suggerisce di separarsi per cercarlo meglio, ma qualcuno deve aspettare. Vado io, fa lui. Invece resta.

Si guarda attorno e scopre che ci sono altri genitori, guarda meglio e ha il sospetto che siano gli stessi, allora si volta verso il top spin che rotola in cielo: anche i bambini si somigliano. Poi vede la madre che si allontana e quando la raggiunge scopre che è un’altra, si chiede cosa ci fa una vecchia sola in un parco divertimenti, ma non fa in tempo a rispondersi, il cameriere lo sta inseguendo, allora continua a correre.

Si unisce a una fila, è la terza volta, dice un padre, a sua figlia non piace altro, dovrebbero fare un parco di soli delfini con le maschere travestite da cetacei. Lui si concentra sulla coda, ma sono sempre le stesse persone, allora calcola lo spazio percorso, il tempo trascorso, quello a venire, poi lascia perdere e si lamenta che almeno potrebbero mettere una tettoia. Il padre gli mostra un berretto, tutta la famiglia ne ha uno, allora cerca un cappello anche lui.

Passa in rassegna i negozi, ma gli dicono di usare un ombrello, in effetti ha visto un’orientale che faceva così. Si chiede la differenza tra un ombrello da pioggia e uno da sole, alla fine pensa che non dipenda dall’ombrello, ma da chi lo porta.

Quando si accorge della telefonata senza risposta della moglie richiama, ma è occupato, ci starà provando anche lei, allora aspetta, silenzio, uguale al secondo tentativo, poi vede un bambino, ci mette un po’ a riconoscere il figlio, ma quando si avvicina capisce che è un bambino e basta.

Dice che ha perso i genitori. Erano qui, poi non c’erano più. Gli descrive il papà e lui risponde di non averlo visto, poi si rende conto che gli somiglia, allora indica una direzione e il bambino si allontana. Camminano allo stesso modo.

Quando è scomparso prende un’altra strada e sale su una giostra perché non c’è coda, sceglie il primo animale e chiude gli occhi. Si concentra sul movimento, sa che è rotatorio, lo sa perché l’ha visto, poi li riapre e vede che sono tutti bambini, quelli più piccoli con un genitore.

Scende e trova un’altra telefonata persa, richiama e c’è un messaggio registrato, forse ha il cellulare scarico. Va al banco informazioni per fare un annuncio, poi ci ripensa e domanda se può uscire e poi rientrare, loro gli rispondono che dovrà pagare di nuovo e lui chiede se ha diritto allo sconto.

Si avvia verso il parcheggio. La macchina è lì, bianca come tante, cammina ancora e si accorge che qualcuno è appoggiato alla portiera, gli sembra di conoscerlo, allora affretta il passo, l’altro resta voltato, ora ha capito, lo raggiunge, allunga una mano, ma invece di toccargli la spalla dice qualcosa, poi si rende conto di averlo solo pensato e lo dice sul serio.

Eccomi, papà.