Arredo sacro

Dunque era così che ci si sentiva, verso la fine? Il corridoio umido era più scuro dell’ultima volta in cui ci era entrato, sembrava anche più stretto. Avanzava facendosi largo fra le borse, i piedi degli studenti e delle molte studentesse accovacciate contro il muro in attesa della comparsa di un docente per ora lontano, enigmaticamente chiuso oltre le porte degli studi del sottotetto. Dal tardo pomeriggio del giorno precedente era preda di una delusione che gli aveva provocato una serie di sintomi pre-influenzali: dolore alle articolazioni, un caldo disagio sul collo, la fissazione ossessiva per il suo futuro e la certezza che questo sgradevole insieme di dettagli non dipendesse in alcun modo dall’azione di un virus, ma da ciò di cui era venuto a conoscenza, appunto, diciotto ore prima.

Il giorno precedente la convocazione era stata fissata per le sei. A ripensarci – mentre cercava di sistemarsi fra le varie borse – era sceso nel seminterrato con un’aspettativa poco serena. Faceva freddo. Guardando le aiuole ancora mezzo essiccate dell’ingresso si era detto che una convocazione così inusuale non poteva essere accolta come un segno positivo, ma aveva cercato di mettere da parte questa osservazione pensando che in un contesto tanto approssimativo la sua sensibilità poteva arrivare a ingannarsi: aveva cercato di rianimare la speranza che aveva nutrito per quasi due mesi. D’altra parte, gli iscritti alla selezione non erano tanti. E non tutti erano qualificati. Anzi, i più lo erano meno di lui. Era rimasto nell’atrio a passeggiare avanti e indietro, poi si era appoggiato a un bancone usato per un paio d’anni per il front-office e ora posto in un angolo in attesa di essere dismesso. Aveva tentato di pensare al libro di Welte che non era riuscito a trovare in libreria, né in alcuna delle biblioteche della provincia consultate in rete e per il quale ora si era presentato a ricevimento. Poi, nella penombra, dal fondo dell’atrio si era aperta la porta della segreteria e ne era uscito un consigliere. Non il Presidente o il Direttore, ma qualcuno che aveva meno titolo di parlare a nome dell’impresa, il basso consigliere Pedr. L’aveva visto avanzare verso di lui, l’aspetto del giovane invecchiato che pretende di rimanere giovane, i pantaloni eleganti dal taglio asciutto e l’aria di chi prova a sentirsi a suo agio nelle funzioni di decisore. Eppure, ripercorrendo la scena mentre aspettava il proprio turno, si trovò a pensare che quell’andatura, quell’espressione sotto i radi capelli grigi conservava nonostante tutto qualcosa di comune e perfino di umano.

«Volevo dirle una cosa, per la sua domanda» fece, non appena arrivato alla distanza opportuna per un colloquio.

«Sì, ieri c’è stata la votazione. Mi dispiace, ma non è andata. Abbiamo pensato che lei è troppo qualificato». Guardava a terra, poco avanti a sé, come parlando a un collega: «Sarebbe sprecato. Del resto, ha un’altra preparazione, non quella amministrativa, o almeno, non solo quella amministrativa». Nel tono della sua voce cresceva qualcosa di grave, come se questo momento dovesse restituirlo a se stesso aumentato di considerazione, perfino di volume. «D’altra parte», proseguì con un’inflessione più imprecisa, senza guardarlo in faccia, «noi speriamo che questo risultato la spinga a cercare un’opportunità migliore per lei, più adatta. E crediamo anzi che ce ne saranno molte».

Era riuscito a trattenersi, e questa la reputava un’ottima prova di autocontrollo, ma l’incongruenza, non solo del risultato – avevano scelto un candidato che aveva la metà dei suoi titoli – ma di quel discorso inappropriato e maldestramente pedagogico, nelle ore successive era cresciuta a dismisura. E così la delusione, l’oscura negazione del riscatto, gli spasmi e qualche altro disagio. Per tutta la sera era rimasto in camera sua a osservare gli scaffali. Fra l’altro, il consigliere non era affatto una vittima della circostanza: anzi, aveva votato apertamente contro di lui, come voci informali gli avevano anticipato nei giorni precedenti. Si era mosso in modo inqualificabile. L’aveva visto allontanarsi con passo incerto, un po’ claudicante. La serie delle congetture sui membri del consiglio di amministrazione aveva confermato l’orientamento del voto. Ora che non aveva quasi più niente in tasca, mentre rifletteva sulla questione che avrebbe dovuto porre al professore, si ripeteva che aver contato su una conclusione positiva della faccenda gli aveva fatto perdere molto tempo e che, cosa più grave, aveva nuociuto all’analisi sulle possibilità del suo immediato avvenire. Quell’impiego gli avrebbe dato sei mesi di respiro, lo avrebbe rimesso in sesto, era a portata di mano, era giustificato. Per questo ci aveva fatto affidamento: ma era svanito nel nulla. In un istante si era ritrovato davanti una prospettiva dai riflessi materiali più duri e più incerti, non troppo graditi a Martina, che lo aspettava a casa sua alle sette e mezza. Lei gli aveva detto subito che aveva fatto male a illudersi, ma l’illusione c’entrava fino a un certo punto, ossia molto meno di quanto potesse apparire a un primo sguardo.

I colloqui dal professore duravano in media una decina di minuti. C’erano ancora due persone prima di lui (uno studente era appena entrato). Qualcosa di esteso e di soffocante aveva coperto il contesto in cui viveva e lo aveva quasi messo sotto.

Gli tornò in mentre un’altra scena penosa. Prima di andarsene dal colloquio era accaduto un episodio che gli era sembrato disposto dalla mano di un regista mediocre solo per compensare la scena precedente. Dalla segreteria, in cerca di un’altra fotocopiatrice e con una pila di fogli in mano gli si era avvicinato un consulente magro e dinamico di nome Marcus. Lo conosceva di vista, ma non gli aveva mai parlato. Gli si accostò in modo cordiale e gli disse: «Vorrei che sapessi che con la votazione di ieri io non c’entro niente. Ci tenevo a dirtelo». Dopo essersi guardato attorno, si diresse verso un altro ufficio: «Stai tranquillo», gli disse, mentre era sulla soglia.

Ora, seduto lungo il muro, guardava il manifesto sulla porta dello studio, un convegno sul secondo Wittgenstein. Tentava di ritornare al libro di Welte, ma ciò che era accaduto gli era ancora troppo inconcepibilmente vicino. Un’estromissione decisa da un consiglio che lo conosceva, che lo aveva visto all’opera negli anni precedenti in mansioni di minor conto ma non tanto diverse da quelle richieste in questa circostanza: mansioni in cui era stato apprezzato. Se i consiglieri avessero valutato solo i titoli di un elenco di candidati sconosciuti per poi favorire un loro parente o amico, quest’esito si sarebbe rivelato più accettabile, ma nel suo caso, in virtù del riconoscimento espresso durante le precedenti collaborazioni, le cose non potevano essere prese alla leggera. Era stato preso a calci pubblicamente, umiliato. La retorica con la quale Pedr gli aveva comunicato la motivazione ufficiale si era mossa sugli sterili binari consueti, senza ulteriori argomentazioni. In fondo, si era limitato a ribadire un solo punto: sappiamo che sai usare il cervello, ma non importa; ciò che conta, qui, è come lo sappiamo usare noi.

Due ragazze sedute al suo fianco parlavano a voce alta.

«Mi era piaciuto tanto Così parlò Zarathustra. Invece al corso ci fanno leggere il primo volume di Umano, troppo umano, che non mi va proprio. Solo pensiero, niente immagini».

«Eppure, ad ogni passo hai sempre l’impressione che Nietzsche stia per dire qualcosa di importante».

«Sì, ma io mi ero iscritta perché speravo di studiare un programma più poetico».

Uscì uno studente anziano, dal maglione verde petrolio, i capelli scomposti – con tutta probabilità uno studente lavoratore – ed entrò l’amica dell’appassionata di poesia. Cosa restava dell’analisi su una fase post-laurea un po’ più serena? Non si poteva dire che non si fosse mosso. Aveva chiesto: erano in pochi. Si era presentato in segreteria, si era iscritto alla selezione, aveva manifestato espressamente il suo interesse per l’incarico. Sapevano che era all’altezza. Cos’altro avrebbe dovuto fare? Mostrare in modo più eloquente la sua condizione, il suo bisogno di denaro? Non lo si capiva, forse? Non lo si vedeva? Più che altro, i consiglieri avevano compreso in un istante che i suoi servizi valevano molto meno dei vantaggi che sarebbero infallibilmente seguiti alla decisione di scegliere il figlio di un amico del vicepresidente. Così, guardando verso il margine dove era seduto, i commenti della direzione al suo dispiacere per il mancato incarico avrebbero potuto suonare in questo modo: non si è saputo rassegnare a succhiare in pace l’osso che la vita gli  ha buttato.

«Allora, sei sicura, lo slam poetry si fa? Mi avevano detto che non ci sarebbero stati iscritti a sufficienza?»

«Ma no, a me hanno garantito che si fa. Questa volta nel bar a fianco della libreria British».

«Sono contenta. E Francesca, viene anche lei?»

«Non ne ho idea, comunque devo vederla verso le cinque qui sotto per un caffè. Vuoi venire con noi?»

«No. Non preoccuparti. Ci troviamo dopo».

Uscì anche l’amica della poetessa, prima di quanto si aspettasse. Si alzò in piedi per risistemarsi la giacca, prese la borsa ed entrò. Ci tornava per la terza volta in un mese.

Lo studio luminoso era sempre stipato di volumi e riviste, con le librerie disegnate su misura per seguire il tetto che scendeva verso l’esterno. Il professor Copp aveva un libro davanti a sé, sul quale – fra un colloquio e l’altro – sottolineava frasi con la matita.

Salutò e arrivò al dunque. «Mi scusi» disse, «ma per quanto possa sembrare strano, non riesco a trovare il libro di Welte, L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo. Ho provato nelle varie biblioteche della città, ho provato anche fuori: le copie risultano tutte in prestito. In libreria non si trova da nessuna parte. A ordinarlo, poi, ci vorrebbe troppo».

Il professore alzò la testa calva, lo sguardo comprensivo:

«È sicuro di aver guardato in tutte le librerie?»

«Sì, certo».

«È andato anche nella libreria Zuppa, in via Borsi?»

La libreria Zuppa teneva anche libri come quello? Restò sorpreso non tanto dall’indicazione in sé, quanto dal non aver considerato questa possibilità. Sebbene potesse essere un’ipotesi bizzarra, non ne aveva tenuto conto. Certo, il periodo non era dei migliori.

Il professor Copp chiuse il libro e vi pose sopra entrambe le mani.

«Devo andare un momento in segreteria. Mi accompagna per le scale?»

Fuori, all’annuncio del breve giro negli uffici amministrativi gli sguardi deferenti rivolti al professore mutarono verso un’ostilità più sensibile. La poetessa si fermò con la testa china sul pavimento, poi rimise la faccia nel libro sulla poesia performativa. Mentre camminavano a fatica fra i vari studenti, pensò quanto fosse ridicola l’espressione di chi in quell’istante vedeva in lui un privilegiato, anche se va detto che il suo orgoglio intellettuale, momentaneamente risorto, trovava la conversazione del tutto ordinaria.

«Quando pensa di consegnarmi il lavoro», disse il professore, tenendo una mano sulla ringhiera.

«Quanto prima. Ho già completato quasi tutte le parti, quella del libro non era una scusa».

«Molto bene, allora. Comunque, non si preoccupi: il libro di Welte si legge in una giornata». Fece ancora tre gradini, poi si volse. «E per il resto?»

«Per il resto mi sto dando da fare».

 

2.

 

Sceso in strada si diresse alla volta della libreria, fra il centro e le prime vie di un quartiere periferico. Non aveva appetito. Un modesto stratega della vita comunitaria avrebbe potuto suggerirgli che continuare a portare il peso dell’umiliazione in un villaggio come quello in cui viveva – e in cui fra tre ore sarebbe dovuto tornare – si sarebbe potuto dire sensato solo se l’avesse fatto pubblicamente, con l’intento di attrarre consenso sulla sua persona in attesa di un riscatto che avrebbe potuto aver luogo più avanti (ma quando, se le opportunità in tre, quattro anni erano state così poche?) Tuttavia, al suo orecchio morale queste considerazioni non avevano peso; davanti al foro interiore l’umiliazione restava, ma non poteva essere riconosciuta solo a lui: questa volta era caduta palesemente anche su di chi aveva condotto la selezione. Con addosso un disagio dal quale faticava a uscire, si disse che forse era venuta l’ora di alzarsi. Forse non era più il caso di cercare una rivincita.

Osservava la vetrina di un negozio di abbigliamento da uomo un po’ fuori moda. I pantaloni beige di velluto-cinquecento-righe impilati uno sopra l’altro e indossati dal manichino sotto la giacca verde pino. Dopo aver detto a se stesso che se ne sarebbe andato alla prima occasione, capiva che strapparsene era difficile. Non tanto strapparsi dalle case conosciute, dalle sue abitudini, nemmeno da alcuni legami, ma dal riconoscimento che ancora sperava di ottenere da un ambiente che invece si sarebbe dovuto lasciare alle spalle. Senza preavviso e nonostante questo dovesse comportare l’abbandono di una lunga serie di illusioni, era venuto il momento di andarsene.

Si fermò davanti a un’enoteca per contare sullo scaffale interno il numero di referenze per vino. Uno spostato cantava cercando di seguire con la voce il pezzo hip hop che ascoltava con gli auricolari. Più in là, due ragazze si spintonavano l’un l’altra. Non sapeva dire se il proprio tempo fosse speso meglio, se lo studio potesse fornire maggiori garanzie. Non era detto che le fornisse la propria espressione, ma riguardo questa almeno – in un’impresa o in un’altra – sentiva che avrebbe trovato una via d’uscita.

 

3.

 

Chiuse da una cornice di legno, con i neon accesi anche di giorno, le vetrine del negozio di arredo sacro mostravano in atto una robusta volontà promozionale. Ogni oggetto era disposto con angolazione inedita, tanto da illuminare – in virtù di una particolare cifra stilistica – tutti i vantaggi del rinnovamento dei luoghi di culto. Quanto al resto, benché sulla porta di vetro dell’entrata campeggiasse anche la scritta «Libri», era chiaro che su questo genere di beni il gestore aveva deciso di puntare poco. Nella seconda vetrina solo sette o otto volumi restavano appoggiati a terra, fra un inginocchiatoio e una grande icona del Cristo Pantocratore: distinse un libro devozionale, due raccolte di canti liturgici dalle orribili copertine multicolori, un libro di preghiere di un monaco indiano e Il cammino dell’uomo di Martin Buber. Teologia, poca; la filosofia sembrava esclusa. Nella sua tensione verso l’aggiornamento, il negozio conservava qualcosa di opprimente.

Il gestore – pullover antracite, camicia bianca – aveva l’età indefinibile di certi ex-seminaristi fra i cinquanta e i sessant’anni.

«Posso esserle d’aiuto?»

«Sto cercando L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo di Bernhard Welte».

«Ah, benissimo. Mi segua, mi segua» disse, con vivo apprezzamento per la richiesta, «le mostro il nostro settore di filosofia».

Fra un mobile e l’altro, dietro a una colonna, in una parte del tutto invisibile dalle vetrine, gli mostrò due grandi librerie dedicate ai filosofi. Di Nietzsche c’era quasi tutto e non mancavano alcuni studi sulla sua opera, come pure le biografie (quella di Horst Althaus in bella evidenza). I classici erano presenti in rassegna, compresi quelli più inattesi in quel negozio: Democrito, Hobbes, Marx, Husserl. «Cosa ne pensa?» fece, con l’aria di chi sa di aver stupito il cliente, «Niente male, vero? Sono una mia passione».

«Ci sono davvero molte cose», disse, tentando di restare sul vago.

«Si serva pure. Se ha bisogno, basta che mi chiami».

L’enigmatica libreria non mancava di risorse. Anche gli scaffali dedicati alla letteratura presentavano una serie molto ricca, messa assieme secondo le preferenze del gestore. Per prima cosa trovò il libro di Welte. Poi prese in mano un’edizione di Anna Karenina e quindi Fuoco pallido. Copp doveva saperla lunga. Ma perché quelle vetrine? per rassicurare i clienti con una sorta di atteggiamento prudenziale, come se lo studio dovesse restare una passione segreta o quantomeno secondaria? Sulle prime, aver scoperto quest’oasi lo distolse per dagli esiti del colloquio con Pedr. Evidentemente la città riservava ancora varie sorprese. Questo negozio lo riportava ad altre immagini: i sobborghi più grigi, le vecchie officine periferiche, un gigantesco edificio scolastico chiuso da un ventennio, il parco-giochi abbandonato, il campo da calcio di quartiere usato per l’allenamento. Si accomodò in un banco da chiesa a sfogliare La cantina di Bernhard e, cosa ancor più inverosimile, Lamento di Portnoy di Philip Roth. Aveva bisogno di libri incoraggianti. Il profumo della colla annusata fra le pagine contrastava felicemente l’odore di chiuso della parte del negozio riservata all’arredo, dall’incredibile moquette verde. Quanto a i libri, il proprietario, o chi per lui, aveva un gusto fuori del comune. La sequenza dei volumi si sarebbe detta quella di una biblioteca ideale, più che la dotazione di una libreria. Si alzò, ripose i libri al loro posto e ne prese un altro, V di Thomas Pynchon, ma avrebbe potuto prendere un libro di Gadda, di Calvino, di Parise, di Bellow, di Kundera, di Martin Amis. In quel mentre comparve la moglie del gestore, una donna bionda, magra, dall’aria simpatica, con gli occhiali e la divisa di ordinanza (pullover color cenere). Era accompagnata da un uomo più giovane e più basso di lei, che indossava un camice blu da lavoro e camminava sui talloni. Dal suo banco lo seguì mentre col gestore portavano una pesante cassettiera di legno scuro nel portico antistante, in attesa che qualcuno venisse a ritirarla. Nel negozio si era creata un’atmosfera sospesa. Un altro sguardo confermò che i libri erano tutti intonsi, che non si trattava della biblioteca di famiglia. Rimise a posto Pynchon e consegnò il libro di Welte nelle mani della signora alla cassa.

«Mi scusi per il trambusto, ma i corrieri saranno proprio qui a momenti», gli disse, sistemandosi gli occhiali. «Perché non torna a trovarci, invece? Potrà scegliere i suoi libri con più calma».

Sembrava che lo dicesse più per avere qualcuno in giro, che per invitarlo all’acquisto, come se i clienti del reparto libri fossero tanto rari da farle avvertire con sorpresa una presenza umana. Nonostante la dichiarazione del gestore, né lui, né la moglie, né tantomeno l’aiutante davano l’impressione di avere una profonda competenza filosofica e letteraria, eppure gli scaffali la testimoniavano. Non c’era un filo di polvere sui ripiani. Fu tentato da un’ipotesi: poiché vendere libri comportava anche vendere quelli che non gradivano, con un’intenzione disperata e consapevole avevano respinto questa verità economica e si erano rassegnati quasi a non venderne. Erano più di seicento volumi, ordinatamente affiancati nel silenzio del negozio. Diede un’ultima occhiata. C’era un nesso indissolubile fra la custodia gelosa della propria passione e questa dissipazione di sé, un nesso malinconico e sterile.

«Arrivederci», gli disse la signora.

«A presto», rispose. Non riuscì a trovare un’espressione altrettanto cortese.

 

4.

 

«Ma che ti frega di tutti quelli che hai conosciuto? Per me è proprio inconcepibile che ti aspetti ancora qualcosa da loro. Vattene da un’altra parte, ovunque, ma ricomincia daccapo».  Martina sedeva al di là del tavolo col pullover a righe orizzontali, rosso, nero e giallo.

«Non so. Forse non si ricomincia neanche più daccapo» rispose, con una riserva mentale che superava per dimensione l’umiliazione che riteneva di aver subito, «ma non è neanche questo il punto. Il punto è che devo trovare qualcuno che abbia voglia di starmi a sentire, il che – ammetterai – non è facile».

«Dici così perché sei deluso. Per trovare di meglio di quello che hai attorno, non mi pare tu debba fare un grande sforzo. E per il resto vedrai che qualcosa riuscirai a mettere insieme». Giocava con uno schiaccianoci, aprendolo e richiudendolo. Non mostrava di essere turbata.

«Oggi in Facoltà quasi non ci si passava. Tutti nella penombra, con un caldo che si faceva via via più umido e rancido. Tutti seduti a terra nel sottotetto, tutti sfibrati: gli studenti a mangiare un panino e i laureandi chiusi nell’attesa del traguardo del Purgatorio, che non è certo il Paradiso terrestre».

Martina alzò lo sguardo dal tavolo: «Devi semplicemente andartene, cominciare a fare qualcosa da un’altra parte. Non credo che ci sia altra scelta. Alla peggio, puoi sempre metterti a spostare icone, vendere inginocchiatoi». Aspettò un attimo, poi prese un tovagliolo ripiegato e glielo tirò addosso. «Non dirmi che non ti è ancora venuto in mente niente?»

«Cosa mi sarebbe dovuto venire in mente?». Pensava a un colloquio che aveva sostenuto due mesi prima. Erano in otto in una stanza, seduti su vecchie sedie da scuola. I responsabili, due immigrati albanesi, chiamavano a turno i candidati e chiedevano loro soltanto le referenze.

«Potresti anche cominciare in un’impresa di pulizie. Che te ne importa? Quello che sai non te lo può togliere nessuno».

Curiosamente, prima che arrivasse l’ultima smentita, si era convinto di aver già cominciato, non tanto da poter dire di aver accumulato chissà quale esperienza, ma da aver fatto qualche metro senza alcun supporto. Invece non si era mai mosso dal punto di partenza. La sua convinzione aveva mostrato un fondamento evanescente, come illusorie gli apparivano ora le tante immagini dell’ingresso nel mondo del lavoro.

Martina si reggeva la testa con una mano e con l’altra scarabocchiava un tovagliolo di carta: «Tu ti aspetti sempre troppo. Chiedi a queste cose ciò che non dovresti chiedere. O vivi una vita, o ne vivi un’altra, non puoi viverle tutte e due. Pensa alla mia situazione, invece: cosa dovrei dire, io? Dobbiamo solo cominciare a muoverci. Io credo che dobbiamo andare avanti come due ragazzi che si sono persi nel bosco e che cercano insieme la strada di casa. Non ricordo neanche più chi l’abbia detto, ma per me è così».