Il delta

È uscito da qualche settimana Il delta, romanzo di Kurt Lanthaler tradotto da Stefano Zangrando. Per gentile concessione dell’editore Alpha Beta, proponiamo alcuni capitoli dell’opera.

di in: De libris

A let a let folga

Set a sin lieva

Set a sin colga

Set a la stala

A badar a la cavala

Set al stalin

A badar al cavalin

Bombolin lè un birichin

 

 

[ 1 ]   [ La piazza | Le storie, quelle piccole ]

 

Quando Fedele Conte Mamái mise piede sulla piazza del paesino, la nebbia si dileguò nei vicoli adiacenti.

 

Per l’appunto, dissi. E mi girai.

Il parrucchiere aveva chiuso. La Ferramenta Achille Ferrari e figli due case più in là era serrata con spranghe e chiodi, l’insegna del negozio perdeva una lettera dopo l’altra. La porta d’ingresso del tabacchino pendeva sbilenca da un cardine ed era assicurata con due catene grandi e grosse, parevan quelle per sollevare le ancore. La piccola vetrina della macelleria tappezzata di giornali, la scritta sparita. Il guerriero di cartone sbiadito con il lanciafiamme che sorvegliava impassibile la porta inferriata del videonoleggio aveva un biglietto appiccicato sul petto. Torno subito. E quando mai?, ci aveva scritto sotto qualcuno, non ci credi neanche tu.

 

Fedele Conte Mamai sferrò un calcio sullo stinco del guerriero di cartone ed entrambi ne uscirono malfermi. Alla fine la sagoma in armi rimase a terra, piatta.

 

Per l’appunto, dissi. E mi guardai intorno. Niente più biancheria sui balconcini. Niente fiori nei vasi. Nessuno alle finestre. E del monumento al centro della piazza era rimasto solo il basamento. Sopra, sterpaglia. E le case tutt’intorno. E i vicoli che si dipartivano. Fedele Conte Mamai, dissi, se solo ti ricordassi chi c’era su questo piedistallo, all’epoca. Ma questa cosa del ricordo perde colpi quanto più ci sarebbe da ricordare. E al suo posto ti restano soltanto le storie, quelle piccole. Sul monumento non ne hai nessuna. Niente che ti venga in mente. Soltanto che qui, dove sei seduto tu, una volta c’era un altro. All’occasione alzava il braccio. Aveva un cappello. Se ne stava a gambe larghe.

I gatti sono scomparsi. I cani. Il bue. I polli. Sì, c’era ancora un bue. I motori. I richiami a mezza voce. Non senti niente a parte la tua voce. E ogni tanto un lieve colpo di vento, una spintarella. Vai avanti. Maierlengo.

 

Pian piano mi ritirai su. Scrollai la gamba destra per scacciare il torpore, che scese adagio nel piede. Qui ristette, formicolando fra sé e sé.

Un sacchetto di plastica passa svolazzando, si gira sul dorso, si posa. E riprende il volo. Per l’appunto.

Lì ancora la chiesa, fra le pietre della scalinata cresceva un sambuco. Sull’altro lato, in diagonale, l’ingresso dell’osteria. Feci un cenno di rifiuto alla chiesa e mi incamminai.

Vedere cosa sta succedendo. Guardare un po’ chi c’è. Se riesco a rifilargli qualche storia.

 

 

[ 2 ] [ L’osteria | Un rituale ]

 

Vedete, Fedele Conte Mamai è di nuovo qui, dico. Ci è voluto un bel po’ di tempo, era sempre in giro. È quasi irriconoscibile. E tutto è rimasto come una volta, vedo. La piazza, l’edicola, la nebbia e il vento. L’argine, i canali. E di buoi non ce ne sono più già da un pezzo, da nessuna parte. L’ultimo lo vidi non meno di quindici anni fa. Attraversava la strada davanti a uno zoo. Non si capiva se andava o veniva. E da allora mi chiedo da dove arrivino mai tutti i guanciali brasati. Per l’appunto. L’osteria è ancora quella vecchia. Buia, come in passato. E un po’ umida, come allora. Non così inospitale.

 

La porta era aperta. Scesi i tre scalini e mi guardai intorno. La volta, i tavolini, il banco corto, basso, eternamente bagnato. Le sedie erano sparse qua e là, come dopo una rissa. Il locale vuoto, come se i carabinieri avessero portato via tutti in una volta. Sul piccolo scaffale, qualche bicchiere. E sopra ogni cosa muffa, polvere, intonaco scrostato. Bene, dissi, attraversai il locale, passai nel retro, lì c’erano i resti cinerei di un falò, freddi. Cos’è successo qui?, dico, sarebbe una novità.

Mi sedetti al tavolo nell’angolo in fondo, il tavolo per chi arriva dopo. Lo assesto un po’ finché non traballa quasi più, poso la valigia accanto a me.

 

Oste, sono di nuovo qui. I gà igà i gái.

Sapete, l’osteria non è mai stata troppo cordiale con gli ospiti, e l’oste, se possibile, ancora meno. Ti portava un bicchiere di vino sul tavolo senza bisogno di dir niente. O mezzo litro. Sempre di quello disponibile al momento. Di caffè ce n’era soltanto nei casi veramente eccezionali, funerali o simili. Due o tre volte l’anno. Quando oltre agli ospiti abituali si trovava all’osteria anche quella parte del paese e dei dintorni che altrimenti ci girava alla larga sprezzante. Gli iniziati, dal canto loro, girano alla larga dal caffè. Di grappa se ne trova sempre, basta uno sguardo muto. L’accenno della mano verso lo scomparto in basso. Un cugino lontano che distillava senza tanto badare alla legge, uno che aveva capito e preso sul serio a tal punto la propria occupazione che ci aveva lasciato le penne.

Qualunque cosa servisse l’oste, che uno l’avesse ordinata o no, il ringraziamento era sempre il seguente: che bon caffè ca fè. Che buon caffè avete fatto anche oggi, oste. E lui si guarda intorno nella semioscurità dell’osteria, guarda la sua eterna clientela abituale e dice: I gà igà i gái. Hanno legato i polli. E allora parte un giro di risate. La volta dopo il gioco si ripete. Un rituale. Più che un passatempo, un indolente segnatempo.

Dopo la madre, alla fine era deceduta anche la vecchia zia. Una cuoca arzilla, che rimaneva nascosta dietro i fornelli per sottrarsi all’andirivieni dell’osteria. Non voleva vedere nulla, saperne nulla, cucinava in modo egregio e morì di afflizione. Da quel momento in poi la cucina si scaldava solo quando ci andava uno degli ospiti. Il che poteva accadere, soprattutto nelle notti che promettevano di allungarsi. Posto che anche l’oste cadesse preda di un attacco di fame notturna. E che il macellaio fosse seduto anche lui al tavolo. Sul che comunque si poteva contare. Oppure qualcuno era arrivato tardi, molto tardi dal delta entrando dalla porta posteriore. E aveva incrociato un’anguilla. Il che poteva benissimo capitare, soprattutto nelle notti grigie, povere di luna. Nelle ore successive la si affrontava con raccoglimento, l’anguilla. E la brace del camino su cui quella si contorceva.

 

L’anguilla. Hai abbandonato questo posto per via dell’anguilla. Sei tornato per via dell’anguilla. Mar dei Sargassi e ritorno. Per uno che è nato nel delta del Po, la via più ovvia.

 

 

[ 3 ] [ La valigia | Mettersi in viaggio ]

 

Se ne sta ancora brava ai miei piedi, la vecchia valigia di cartone, e qui non sa ancora nessuno di baccalà e babà, bresaola e bottarga, e del piano e degli ingredienti della vecia col pist. Inoltre due camice e quattro calzini. Il vestito addosso, la maglia appresso, un ricambio. Non sono mai stato troppo difficile in fatto di abbigliamento. Con le calzature già di più. Camminavo molto, quindi dovevo andarci bene.

Quanto al mangiare, l’ho imparato soltanto dopo che la grande fame si è trasformata in quella piccola, quotidiana. E ogni volta che finivo in un posto nuovo, attraversando la penisola in lungo e in largo, in questo scombinato andirivieni negli anni, senza grandi obiettivi a parte quello di sbarcare il lunario e, quando capitava, fare un passo avanti, ogni volta raccoglievo una cosa o l’altra, riempiendo ogni volta la valigia e poi di nuovo svuotandola, e portando con me l’odore e il sapore e la cibaria. Baccalà e babà, bresaola e bottarga. Arbatax, Genova, Napoli, Chiavenna. E zone limitrofe. Di qua e di là del mare.

Non sono mai stato del tutto sicuro che avrei davvero ritrovato Maierlengo. Quarant’anni sono tanti. E un sacco di posti. Per molto tempo, lo ammetto, Maierlengo non avevo proprio voglia di vederla. Finché un mattino, un piede aveva già lasciato il letto, l’altro era ancora avvolto nella coperta, vidi la valigia nell’angolo e sentii una certa fame. Quella speciale. Quella di anguilla appena pescata.

Per l’appunto, dissi, prendi la tua valigia e mettici dentro le cose buone e mettiti in marcia e vai in cerca di Maierlengo e va’ a vedere cosa gli è successo, al paese e a quella gente e all’osteria e al fiume e al delta.

E visto che mi trovavo nel sud il viaggio è durato un po’, e si è interrotto un po’ qui per via del lavoro e un po’ la per il riposo, non avevo particolarmente fretta, non c’era nessuno ad aspettarmi. Inoltre era un periodo dell’anno ancora un po’ prematuro per l’anguilla perfetta. Così rimpinguavo le scorte e proseguivo il viaggio.

E mi indaffaravo segretamente a capire quale storia si sarebbe abbinata al meglio con quale gusto, quale ricordo a quale cibo. E poi rigettavo tutto quanto. Non avrei detto niente, raccontato niente, a nessuno, me ne sarei soltanto rimasto lì seduto. E così mangiavo tutto quel che c’era in valigia. Per riempirla di nuovo alle mie tappe successive e a ogni nuova occasione. E mettere in ordine le storie. Carne con carne e pesce con pesce. E in più l’anguilla.

Aspetta che il Po sia grigio. Allora abboccherà, l’anguilla. E aspetta che diventi grigio il giorno. Allora sfuggirai senza esser visto.

[…]

 

 

[ 13 ] [ Il maiale ghiacciato | Del buon pastore ]

 

Vaccarin aveva nel nome la vacca, è vero, ma in realtà era un esperto di maiali. Quindi si sarebbe anche potuto chiamare Maialin. L’importante è che finisse, come tutti nel delta, con quelle due lettere. Vaccarin, l’esperto di maiali, era soprattutto un esperto di setola di maiale. Dietro le spalle lo chiamavano, nei periodi in cui non c’era bisogno di lui – e a parte pochi giorni all’anno non ce n’era bisogno –, il bosgato. Nel delta il maiale si chiamava bosgato.

A quel tempo nel delta non c’erano troppi bosgati, perché allora nel delta c’era più povertà che ricchezza, anche se di ricchezza ce n’era abbastanza. I pochi giorni all’anno nei quali Vaccarin era benvenuto nelle casupole sul delta erano i giorni delle macellazioni. Vaccarin era esperto nel prelevare il sangue al maiale e raschiargli via le setole. Nessuno nel delta sapeva farlo meglio di lui. Non occorreva chiamarlo. Veniva da solo. Il giorno giusto, al momento giusto.

Chiamava a sé il maiale schioccando la lingua. Se il maiale non voleva sentire, lo tirava per un orecchio. Di solito i maiali lo ascoltavano. Poi li accarezzava sotto la gola, dava loro una sberletta sulla nuca, puntava il pistolone e sparava. Poi bisognava sollevare e appendere il maiale per le zampe posteriori, ma questo lo lasciava fare ad altri. Per quello non c’era bisogno di particolari conoscenze. Bastava essere forti. Una volta che il maiale era appeso, Vaccarin accostava il secchio, prendeva il coltello dalla cintola e incideva il primo taglio, profondo. E il maiale sanguinava nel secchio. E intanto Vaccarin stava lì e lo osservava. E rimestava il sangue.

Alla fine, quando il maiale era svuotato, Vaccarin metteva il secchio al sicuro. Il sangue di maiale era il suo compenso, per il suo lavoro non ha mai chiesto altro, non ha mai preteso altro che il sangue di maiale. E le setole; ma questa è un’altra storia.

Su cosa ci facesse il Vaccarin con quel sangue, le voci sono discordanti. Sta di fatto che nella stagione delle macellazioni se ne accumulava un bel po’. Lo stesso Vaccarin, quando gli facevi domande al riguardo, alzava brusco il mento e grugniva. La cosa non vi riguarda. Non chiedetemelo. Altrimenti il lavoro fatevelo da soli.

Mentre il maiale sanguinava, il trogolo veniva riempito con acqua bollente. Poi vi si gettava il maiale. E Vaccarin lo girava e cospargeva e, borbottando fra sé e sé, gli raschiava le setole. Un lavoro che normalmente andava fatto da più uomini. Vaccarin insisteva per farlo da solo. E sudava come un maiale.

Quando poi il maiale era di nuovo appeso per le zampe posteriori, nudo e rosa e fumante, il lavoro di Vaccarin era finito. Il resto non era più affar suo. Sistemava il sangue e le setole sul suo carretto a mano, accarezzava un’ultima volta la gola del maiale e poi spariva nella nebbia, così com’era apparso. Senza salutare. Da quel momento in poi era di nuovo il bosgato.

 

E poi un giorno lo trovarono. Morto.

Nel corso di quella giornata aveva sgozzato e spellato il maiale di uno che stava fuori, a Punta Santa Maria. Era venuto lungo il braccio ghiacciato del Po e se ne era andato per la stessa strada. Qui poi non ha mai più fatto così freddo come quella volta, il Grande Fiume da allora non è mai più stato così gelato.

Lo trovarono, assiderato e ghiacciato e dapprima senza neppure notarlo, il giorno dopo nel Po. Stavano cercando il maiale appena macellato, che era scomparso durante la notte. Lo videro sul fiume ghiacciato. Lo raggiunsero, cercarono di liberarlo dal ghiaccio e solo allora scoprirono le mani attorno alle zampe.

Vaccarin, che chiamavano di nascosto il bosgato, doveva essere tornato nottetempo, aveva tolto il maiale dal gancio, se l’era caricato sulle spalle come il buon pastore e si era incamminato con la bestia verso il fiume e poi sul suo letto ghiacciato. Ma doveva essere sprofondato poco prima di arrivare dall’altra parte, il maiale si era messo di traverso, lui si era tenuto fisso all’animale, l’acqua fino alla testa, tenuto a galla dal maiale e spinto sott’acqua dal medesimo, e poi a un certo punto doveva essere annegato, sempre tenendosi al maiale, e così era congelato e il maiale, congelandosi anche lui, era rimasto attaccato al lastrone di ghiaccio.

Il salvataggio del maiale era stato un lavoraccio. Per prima cosa avevano collocato con prudenza delle assi sul ghiaccio per non finire di sotto anche loro, poi pian piano si erano avvicinati e avevano liberato il maiale dal ghiaccio, centimetro dopo centimetro. E a quel punto la cosa si fece ardua.

C’erano sostanzialmente due possibilità. Si sarebbe potuto provare a separare il maiale dal bosgato. O appunto il bosgato dal maiale. Ma non si trovò nessuno che avesse esperienza nella recisione di polsi e che sapesse bene in quale punto troncarli. Così, mentre il ghiaccio emetteva i rumori più strani, non era rimasto altro da fare che staccare al maiale le zampe anteriori e posteriori, lasciandole al bosgato, per riportare a casa almeno il resto.

Il bosgato, il buon pastore del Po, rimase bloccato nel buco di ghiaccio ancora per qualche giorno, la testa sott’acqua, spuntavano soltanto gli avambracci, due zampe di maiale in ogni mano. Poi il vento girò, il freddo s’incrinò e s’incrinò il ghiaccio, e il Po liberò l’uomo e le zampe di maiale rilasciando così Vaccarin, che di nascosto e fuori dalla stagione dei maiali chiamavano il bosgato, e il cui cadavere non fu più ritrovato.

Le zampe del maiale però, così si dice, ogni tanto ritornano a galla. Si arenano nella sabbia alluvionale. Galleggiano nei canneti. Come se il buon maiale, ucciso, desetolato, macellato, congelato e salumificato, non avesse ancora trovato pace. Tuttora in viaggio nel delta del Grande Fiume.

Ma l’intraprendenza per arrivare fino al mare sembra non avercela mica.

 

[da Il delta di Kurt Lanthaler, traduzione e cura di Stefano Zangrando, Edizioni Alpha Beta 2015]