Il mio ritratto

di in: Bazar

Diego Velazquez, Juan de Pareja

Eccomi con l’espressione triste dopo la notizia. Sono seduto sul divano, una mano abbandonata sulla coscia, l’altra regge il telecomando come se non importasse. Gli occhi guardano su, verso quelli di mia moglie che sta in piedi scalza sul tappeto, pronuncia le labbra e solleva il telefono per immortalarmi. Al viaggetto ci teneva: inserendo nelle chat con amici e parenti l’immagine del mio muso, si sfogherà.

La colpa è dei miei suoceri, che a dieci giorni dalla partenza si sono dovuti tirare indietro. Il nonno Peppe ha preso la polmonite, per contagio o per il maltempo incontrato in barca. Muore il sogno della nonna Maria di volare sulle giostre a Disneyland Paris con la nipotina.

Lucia non sa niente, accovacciata ai miei piedi pochi secondi a seguire una serie animata in 3D sullo schermo a led quarantadue pollici prima di saltellare via per il soggiorno.

Vorrei tanto lasciarmi andare sullo schienale di ecopelle bianca, abbassare le palpebre e sospirare: «La mostra di Velazquez!»

Qualcosa però mi trattiene. Forse non voglio ancora allarmare Lucia, anche se sono certo che ci metterà meno di tutti noi a farsene una ragione. Oppure sento di dover mantenere il contatto visivo con mia moglie, sempre in piedi, il calcagno destro, scalzo, gratta il polpaccio sinistro, mentre s’inclina il caschetto dentro il quale gli occhi mi fotografano prima che lo faccia l’obiettivo del cellulare. Trecento euro per il volo sull’aeroporto Charles de Gaulle, seicento per tre notti in albergo vicino a Les Halles, più il mangiare e le varie ed eventuali: somma insostenibile senza l’aiuto dei nonni. Risparmieremmo se volassimo con una compagnia low cost su Buvèe, ma costringeremmo Lucia a un’ulteriore ora di viaggio in treno per raggiungere il centro città. Risparmieremmo soprattutto deviando su un hotel fuori mano, ma perché infliggere alla bambina tante tratte in metrò? Poi il nervosismo suo diventa quello della famiglia, e addio relax.

A parte procurarmi il catalogo tramite la libreria d’arte in via Guerrazzi, che altro modo ho per garantirmi un accesso alla mostra? Qualunque cosa stiano suggerendo gli occhi di mia moglie, andarci da solo è fuori discussione.

 

Diego Rodriguez de Silva y Velazquez, passato alla storia come Diego Velazquez avendo preso il cognome della madre secondo l’usanza sivigliana dell’epoca, sosta nella sala degli specchi dell’Alcàzar e guarda i dipinti di Tiziano Vecellio, passato alla storia come Tiziano, e guardandoli sogna di tornare in Italia. Desidera ammirarne di nuovi, rivedere quelli già visti. Vent’anni fa. La prima e unica volta che ha lasciato la Spagna. Salpò da Barcellona nell’estate del 1629. Aveva appena compiuto trent’anni. Mentre ammira i colori di Tiziano, l’artista che trattava da pari i potenti, Diego ha quasi compiuto i cinquanta. A venticinque si trasferì a Madrid con la famiglia. Assunto come pintor de càmara. Venti ducati al mese più l’alloggio e un extra per ogni quadro realizzato. Decreto reale 6 ottobre 1623. Re Felipe IV aveva diciotto anni. Orfano da due, sposato da otto. E sei meno di Diego. Entrambi giovani promettenti accomunati dalla passione per l’arte. Grazie al proprio talento, il pittore si accattivò il sovrano.

Ma, così come dona, un imperatore chiede. Nel tempo, Sua maestà ha fatto di Diego un fiduciario, coprendolo di nomine: ujier de càmara, ayuda de càmara, ayuda de guardarropa real. Decreto reale 15 marzo 1627, decreto reale 28 giugno 1636, decreto reale 6 gennaio 1643. Lo ha gravato di compiti e responsabilità. Fino al decreto 9 giugno 1643, con cui lo ha reso asistente a la superintendencia a las obras particulares, cioè architetto e arredatore di corte, dotato perfino di parziale autonomia di spesa, a dispetto della Junta de obras y bosques. L’Alcàzar lo ha in parte allestito lui. E la sala degli specchi gli piace perché è una delle poche illuminate del palazzo.

I reali vivono al buio. Trincerati dietro spesse mura in cui si aprono finestre sottili come feritoie. Otto secoli fa i mori le costruirono per proteggersi dai cristiani, e ancora contro i cristiani servono. I nemici interni sono temuti più di quelli esterni dai monarchi di Spagna, che vivono nel lusso mentre il popolo muore di fame. Sotto la guida di Felipe IV il bilancio della prima potenza terrestre è finito fuori asse. Il clero raccomanda sobrietà, la nobiltà obbedisce risparmiando candele. Tra i corridoi della reggia Diego si muove come in una rete di canali sotterranei, imbattendosi ogni tanto in uno dei reali con il suo seguito. Damigelle, nani, buffoni, servi vari, animali da compagnia. Nella penombra Diego distingue un piccolo assembramento di corpi stretti attorno o dietro a un altro corpo bardato di vestiti e orpelli che tace e produce rumori di spostamento. Diego si fa da parte, s’inchina. Non rialza la fronte prima che siano cessati il frusciare e il tinnire. In quei momenti si ricorda ragazzo nella campagna abbagliante di Siviglia, quando incontrava un gregge e godeva a immergersi tra le pance lanose.

Il re s’intende di arte ma il suo casato è maledetto dalla bruttezza. Gli Asburgo hanno il gozzo, il mento pronunciato, la testa oblunga. E si circondano di creature deformi, dementi o degeneri. Agli uni e alle altre il buio offre riparo.

Cominciamo dai deformi.

Sebastian de Morra, buffone di corte. Inchiodato alla propria condizione di nano da poche pennellate. Più volte Diego ne ha ritratto il padrone, Baltasar Carlos, amatissimo principe ereditario, raffigurato con maestria eppure con la debita deferenza. Sebastian riceve un trattamento diverso: Diego lo inquadra dall’alto, seduto a terra con i pugnetti sulle gambette stese, le suole delle scarpe in vista. O forse sono pantofole. Indossa perfino un mantello rosso, merlettato alla fiamminga, che ricorda quello di un cavaliere, un nobile o un supereroe. Sembra non gradire l’attenzione dello spettatore.

Quanto ai dementi, due parole sul buffone Calabazas. Il suo sguardo si perde nello strabismo e in un sorriso che diresti gratuito. Anche lui seduto a terra, gli arti avviluppati, zucche intorno, e forse proprio da quelle è suscitata la sua ilarità, o dall’affinità tra quelle e il suo nome. Lucia odia il sapore della zucca. Sua madre gliel’ha servita in tutti i modi, questo inverno, nei tortelloni, nel risotto, al forno, in insalata, perché alla sua età va abituata a consumare ortaggi di stagione: ma niente. Fa schifo anche a me, la zucca.

La degenerazione a corte è per lo più morale. Basti considerare il conte duca di Olivares. Gaspar de Guzman y Pimentel, primo ministro di Felipe IV, nel 1634 rappresentato addirittura a cavallo, come solo i monarchi. Cresciuto a Roma, originario di Siviglia, senza di lui Diego non sarebbe dov’è. Per questo ha dovuto sopportarne gli aneddoti, gli ammonimenti, gli omaggi, quotidianamente, per vent’anni. Nel suo pedigree enumerava il falso in bilancio, la delazione, l’omicidio. Gli spagnoli lo ricordano per le guerre perse e le tasse aumentate. Scarso il sollievo dopo il suo licenziamento e la sua morte. Dal ritratto del ’34, dalla faccia, dalle guance cascanti e lo sguardo falsamente placido, s’intuisce che il suo corpaccione sprona il cavallo non per gettarsi nella battaglia ma per fuggire con il malloppo.

 

Nella foto postata in chat mia moglie scherza su come tengo il mento sollevato, scrive che cerco di restare a galla. Ricordo solo un’altra foto di me in soggiorno, scattata quando ci consegnarono il divano, tre anni fa. Le battute in dialetto dei facchini, i trilli di Lucia a guardarli dalle braccia di sua madre, le mie occhiaie da influenza. Quella mattina eravamo tutti a casa perché in famiglia ci si ammala contemporaneamente.

La foto attesta la presenza di mio padre, a titolo di supervisore sano. «Qui», commentò osservando le piastrelle di cotto davanti al nuovo mobile, «ci sta bene il tappeto persiano della bisnonna.»

 

Diego prima lavorava con il suocero, ora, ritiratosi il suocero, con il genero. Per sua moglie e per sua figlia questo e altro. E fortunatamente tra i tre parenti artisti c’è stima e affetto. Ma il suo preferito è il moro, lo schiavo, Juan. Se lo portò perfino in Italia, nel ‘29. E così farà nel ’49, per il suo secondo e ultimo espatrio.

Ecco Juan de Pareja, ritratto per fare bella impressione sugli accademici di San Luca, a Roma. Secondo i critici ha un’aria fiera. Forse hanno ragione.

Sono Juan de Pareja, e sono uno schiavo mulatto, quindi nel ritratto che mi dedica il grande Velazquez devo mostrarmi fiero. Ecco il motivo del tremito alle mie labbra.

Oppure: Sono Juan de Pareja, e sono uno schiavo mulatto, ma lo schiavo del grande Velazquez, che mi concede l’onore di essere suo assistente, quindi devo mostrarmi fiero. Ecco perché sfoggio questo mantello di velluto verde.

Altrimenti: Sono Juan de Pareja, e sono uno schiavo mulatto, ma nel ritratto eseguito dal mio padrone, il grande Velazquez, apparirò, a milioni di spettatori, come uno sconosciuto, un uomo e niente più, quindi devo mostrarmi fiero. Lo faccio con questo colletto ricamato, che in patria la legge mi vieta.

Ultima: Sono Juan de Pareja, e sono uno schiavo mulatto, ma il mio padrone, oltre che un grande pittore, è un grande uomo, e mi ha liberato. Continuerò a mescolargli i colori, ma da pari. E potrò perfino dedicarmi alla pittura io stesso. Mi domando tuttavia per quale motivo don Diego abbia preso questa decisione mentre ci troviamo in Italia per conto del re.

 

Inginocchiato sul tappeto nel soggiorno, assumo un tono comprensivo e suadente: «Lucia, topina, non fare così!»

«Dai, che tra un paio di mesi andiamo al mare» tenta mia moglie. «Così diventi brava a nuotare come papà.»

Affoga il sogno della nipotina di volare con la nonna sulle giostre a Disneyland Paris. E allora sono strilli, bronci, proteste. E bugie di mia moglie al telefono, per non avvilire i suoi.

Penso ai quadri della mostra allestita al Grand Palais, impassibili.

 

Diego non ama sentirsi osservato. Figuriamoci mentre dipinge. Figuriamoci se a osservarlo è il re.

Purtroppo Felipe ha questa mania. Sua esclusiva una sedia nello studio di Diego. La occupa quasi ogni giorno. Per due minuti, mezzora, un’ora. Di solito tace. Qualche volta si confida. Il tal nobiluomo insidia la regina, la tal pulzella resiste alle avance, un erede maschio non arriva mai. La boccuccia carnosa di sua maestà. I capelli pagliosi. Gli occhi inespressivi. Diego ormai saprebbe ritrarlo alla cieca. E sarebbe disposto a fargli da balia per l’intera giornata, perfino a scorrazzarlo per i boschi del Pardo tenendolo in groppa, facendo la corvetta e nitrendo come il miglior destriero della scuderia reale, se in cambio Felipe gli liquidasse lo stipendio con la stessa puntualità con cui lo visita. Così non sarebbe costretto a supplicare Juana di aprire un altro conto con l’ortolano e il macellaio, né Francisca di aspettare il mese prossimo per ordinare alla sarta quel vestitino di foggia italiana che tanto piace alle sue coetanee.

Tiziano non aveva simili problemi.

 

Perché Velazquez ha dipinto bambini? Soltanto per adempiere alle sue mansioni?

Cominciamo dai maschi.

Il principino Baltasar Carlos con un nano, ritratto nel 1631. Le pennellate dedicate al nano, o forse nana, appaiono frettolose, valorizzano per contrasto la nobiltà, direi cesellata, del primogenito.

Il principino Baltasar Carlos a cavallo, dipinto nel 1635. Qui sembra più grande della sua età ed esegue la corvetta in groppa al suo pony, contro un cielo fosco. Davvero un bel bambino. E diventò un rampollo apprezzato.

Poi abbiamo il principino in tenuta da caccia, del 1636. E la lezione di equitazione del principino, stesso anno. E il principino con il mantello, 1639.

Negli ultimi anni di vita Diego ritrasse l’infante Filippo Prospero, avuto da Felipe in seconde nozze e morto ancora più giovane di Baltasar. Il primo dipinto risale al 1659. Un bimbo di tre anni, serio e pallido, in piedi accanto a una sedia, vestito di un grembiulino bianco e arancione. Per quante ore ha resistito in posa? Come lo hanno costretto? Lo hanno costretto? Lucia imparerà mai ad aspettare fino allo scatto fotografico? Pendono dal corpicino cornetti, melagrane e altri amuleti che avrebbero dovuto proteggerlo dalla salute malferma dovuta al patrimonio genetico asburgico, sfibrato da secoli di incesti. Pochi capelli biondi sulla piccola fronte grigiastra, dove vorresti lasciare una carezza plebea. La presenza del cagnolino lo rende ancora più indifeso.

Passiamo alle bambine.

Del 1640 il ritratto di un’anonima decenne, la cui acconciatura nera piramidale richiama quella di Diego stesso, mentre il leggero doppio mento fa pensare a re Felipe, del quale ben potrebbe essere figlia illegittima: Felipe aveva fama di donnaiolo, oggi diremmo stupratore.

L’infanta Maria Teresa, figlia del Re Pianeta e sposa del Re Sole, è stata immortalata almeno tre volte: 1648, 1652 e 1653. Bruttina, c’è poco da dire. Non a caso la diva è l’infanta Margarita. Pare che il nome rispecchiasse la nomea. Fiabesca la traduzione in Gretl, opera del futuro marito imperatore viennese. Di lei abbiamo varie pose. La mia preferita risale al 1653, dove la si vede, a pochi anni di vita, adagiare la manina su un tavolino su cui sfioriscono delle peonie. A parte il ritratto del 1655, non bellissimo, va citato quello del 1656, in una posizione quasi identica a quella assunta lo stesso anno nel quadro passato alla storia col titolo di Las meninas. Notevole anche il ritratto in azzurro del 1659, icona della mostra parigina, e con il guardinfante del 1660, completato da Juan Bautista del Mazo, discreto pittore nonché genero di Diego. Una bella bambina, considerato che era cugina del proprio padre, il quale l’aveva concepita con la propria nipote. Nel 1666, sepolto papà, emigrò in Austria, dove sposò Leopoldo I, partorì sei volte e morì ventenne, di polmonite o cancro ai polmoni. Il catarro che le chiude il respiro, nel letto Gretl rantola per ore. A centinaia di chilometri dalla madre.

 

«Ho sentito dire che nei tuoi quadri c’è quello che hai visto e basta. A me non sembra. Quando mi hai dipinta con quello specchio di fronte e quell’amorino… E poi quel nastro rosa e quell’altro azzurro… Però è vero che c’è l’essenziale. I tuoi quadri, o almeno i pochissimi che ho visto, hanno una loro purezza. Anche se… non so se mi piace. Sei meglio tu.»

Diego era tenace e otteneva quello che voleva. Non solo sulla tela. Persuase Felipe a lasciarlo partire. Il suo secondo viaggio in Italia durò più di un anno. Dal marzo 1649 al dicembre 1651. Doveva razziare opere d’arte per le nuove dimore reali, ma mise incinta una donna.

 

«Topina, anche il babbo è dispiaciuto.»

Zitta. Da quasi un’ora. Gli occhietti arrossati. Non vedrà il nonno. Non vedrà la nonna. Non vedrà Disneyland.

Rilascio i muscoli delle spalle, chino la testa e mi cade l’occhio sul tappeto persiano. Allora penso alla mia, di nonna, che lo ha conservato in ottimo stato per decenni nel suo soggiorno. Ripeteva che da bambini vengono prima le favole poi i sogni, da grandi il contraio. La popolana che sposò il notaio. Il notaio che morì prematuramente, gettando le amanti nello sconforto.

Intanto mia moglie agita il pollice sul tastierino dello smartphone. Niente niente che carica in chat anche questo racconto.

 

Giovanni Battista Pamphilj, passato alla storia come Innocenzo X. Duecentotrentaseiesimo papa di Roma, settantenne scontroso e irascibile, nobile da generazioni, pronipote di Lucrezia Borgia, avvocato concistoriale e uditore della Sacra Rota, scomunicatore dei giansenisti, proclamatore del quattordicesimo giubileo e dulcis in fundo cognato e concubino di donna Olimpia Maidalchini, nota nelle pasquinate come Pimpaccia, temuta e odiata urbi et orbi perché papessa occulta, in quanto furba e perfida ancora più del papa in pectore, quindi tiranna sua, della curia e dell’intera città. Anche se il vecchio non sembra desiderare di fuggirle. Forse neanche considera l’ipotesi. Del resto non concepisce soltanto progetti ignobili: se in Piazza Navona scorrerà la Fontana dei Quattro fiumi e se in Santa Maria della Vittoria deliquierà Teresa d’Avila, sarà per merito suo, oltre che dell’architetto e scultore alla moda Lorenzo Bernini. Giovanni Battista non ama Olimpia, ma Olimpia è la chiesa, Olimpia è Roma, Olimpia è lui.

Sua santità riceve Diego in una sala poco illuminata di palazzo Pamphilj su via del Corso. Si lascia baciare la mano e aggiunge, nella propria lingua, qualche frase di circostanza sul caldo dell’estate romana, che definisce spietato. Poi si sistema sulla sedia di velluto, rossa come la mozzetta, e guarda verso quello che oggi sarebbe l’obiettivo della macchina fotografica. Le mani pendono dai braccioli, affusolate, giovanili, tanto curate quanto incuranti del lago di sangue da cui spuntano. Diego, tavolozza alla mano, nega indulgenza alla bruttezza del papa, pur sapendo che si trova a migliaia di chilometri dalla protezione dei reali di Spagna. Deve comunque cogliere l’occasione per porgere gli omaggi del proprio re e così accennare ai vecchi tempi alla Corte di Felipe, quando trentenne incontrò Giovanni Battista cinquantenne nunzio apostolico in Spagna, nella speranza che Sua santità gli dia o faccia pervenire istruzioni su come regolare il pagamento della prestazione professionale. Ma è difficile: da un lato vuole mantenere la concentrazione per produrre un’opera stupefacente, dall’altro l’interlocutore non offre spunti. Durante le sedute di posa, non molto lunghe data la grande impazienza e le molte occupazioni, Innocenzo X parla poco, più che altro sembra scrutarlo. Gli concede due appuntamenti, che dopo molte garbate insistenze di Diego diventano tre. Ma i loro dialoghi sono pochi di più.

Durante l’ultima sessione, il papa improvvisamente gli rivolge la parola: «Maestro, conoscete il Digesto?» La sua voce strappa il silenzio afoso. Stavolta usa lo spagnolo. Uno spagnolo impolverato, risalente agli anni trascorsi a Madrid. Senza attendere risposta il papa prosegue: «Un’opera immane. Duemila libri riassunti in cinquanta. Secoli di giurisprudenza romana portati a sistema grazie all’imperatore Giustiniano, undici secoli fa. Rappresenta un’importante fonte di diritto anche per noi cristiani.»

Diego intanto si è discostato dal cavalletto per mostrarsi all’interlocutore in tutta concentrazione, mentre aspetta il proprio turno di parola.

«Ve ne accenno in seguito a un pensiero spuntato, durante queste giornate in vostra compagnia, nella mia mente affollata di cure e preghiere.»

«Sarei lusingato… se Sua santità… mi mettesse a parte» risponde Diego con lentezza dovuta un po’ all’imbarazzo, un po’ all’affanno provocatogli dal clima e un po’ all’uso della lingua spagnola, che il papa potrebbe decifrare con fatica.

La risposta è fulminea: «Puro. Vi guardo e penso a questo aggettivo.»

A Diego quasi cade la tavolozza. Eppure è avvezzo ai politici e alle loro astuzie. Dato che alla risposta segue una pausa, intercala: «Sua santità vuole usarmi la cortesia… di chiarire… se tale purezza è riferita a me… o ai miei dipinti?»

Innocenzo X incrocia le nobili mani in grembo, la seta della pelle sulla seta dell’abito. Gli occhi da torvi si fanno sardonici. «L’aggettivo comporta una qualificazione giuridica. Gli antichi romani definivano puro un luogo sconsacrato. Un tempio o un bosco o una tomba che per qualche motivo venivano sottratti agli dei. Quanto vi dico è attestato nel Digesto. Per esempio da Ulpiano.»

Lo spagnolo del papa non è poi così impolverato. Nonostante l’afa, Diego suda freddo: in Vaticano sono venuti a sapere della sua amante? E come? Li hanno visti insieme? O è stata lei a parlare? Quella donna gli nasconde qualcosa, sotto le lenzuola nere che lo attraggono e respingono al contempo?

«La contraddizione è solo apparente» spiega il papa posando di nuovo i gomiti sui braccioli. Sciabordano le onde rosse dell’abito. Sotto il camauro la fronte gli splende di sudore. Non sembra patire l’umidità. Vent’anni fa a Madrid, negli sprofondati locali del palazzo reale, la presenza di quell’uomo non metteva Diego alla prova tanto quanto adesso. «Prima di diventare puri, quei luoghi, cioè quel bosco o quel tempio o quella tomba, non erano ritenuti impuri, bensì vincolati. Gravati. Dalla loro natura sacra.» Quest’ultima frase è stata accompagnata da un breve sobbalzo di gomiti e scatto di polsi, quasi che il pontefice alludesse al peso della porpora o – ma sarebbe blasfemia il solo ipotizzarlo – al peso di ciò che della porpora è causa. «Di quei luoghi potremmo dire che sono diventati liberi. Ma attenzione: liberi soltanto di essere acquistati, venduti, commerciati. Come beni qualunque.»

Il pittore osserva per qualche secondo il quadro alla sua destra. Ormai può dirsi finito, certo, ma contemplandolo qualcuno immaginerebbe le parole pronunciate dall’uomo ritratto?

«Sapete, maestro, non mi stupisce che abbiate liberato il vostro servitore.»

Diego è costretto a fissare di nuovo il papa. «Sua santità è al corrente… della mia recente decisione… di affrancare il mio servitore Juan de Pareja?»

«Come potrei non esserlo, se questa libertà avete sentito il bisogno di rappresentarla, oltre che di condividerla? Con i soliti risultati eccelsi, s’intende, maestro. Quel quadro, che vi ha ufficialmente aperto le porte dell’Accademia di San Luca, è degno della vostra fama. E, se non costituisse peccato, scommetterei: scommetterei che negli ultimi tempi, in risposta allo stesso bisogno, vi siete dedicato a ritrarre voi stesso.»

Diego sente sul petto una pressione diretta al pavimento. Forse comincia a intuire il senso delle recenti teorie sui gravi di quel Galilei. «Sua santità vincerebbe la scommessa…»

«Tuttavia ricordate: questa purezza è una condizione temporanea. Al pari della libertà, che prelude a nuova schiavitù. Non fu un vostro illustre connazionale a cadere, pur nato libero, schiavo dei turchi, dopo essere stato fatto prigioniero nella grandiosa battaglia di Lepanto?»

«Sua santità allude a Miguel de Cervantes Saavedra?»

«Ebbene», dice il papa alzandosi, «la sola libertà, la vera purezza sta in nostro Signore. Al quale raccomando la Vostra anima nel congedarvi.»

 

Nel 2015 il re di Spagna si chiama di nuovo Felipe. Il sesto a portare il nome. Ma discende dai Borbone quindi è bello e sano. Per tacere della meravigliosa moglie, Letizia. Con la quale ha generato due bambine: Leonor, principessa delle Asturie, e Sofia, infanta. Per esteso il nome del nuovo monarca suona Felipe Juan Pablo Alfonso de Todos los Santos de Borbón y Grecia. Nato nel 1968. Giuseconomista specializzato in Canada. Velista olimpionico. Mio suocero pilota il peschereccio. Esce dal porto prima dell’alba. Butta le reti in mare aperto. Prende di tutto, al largo delle coste calabresi, totani, pesci spada, costardelle. Poi rientra, incontra i grossisti. Ha anche una sua clientela per la vendita diretta, esentasse. Fa soldi. Un po’ ne arrivano a noi, tramite mia suocera: senza, non avremmo il divano né il televisore a led. Andiamo d’accordo, i miei suoceri e io, anche se qualche volta mi rinfacciano di avere rapito la loro figlia maggiore. E protestano che non occorreva venisse al nord per fare la fame. Invece è rimasta a casa per scelta, per crescere Lucia nei primi anni di vita. E di tempo per infilarsi in uno studio legale ne ha ancora. Così la smetterà con le pulizie in casa di amiche e coinquiline. E i suoi la smetteranno di recriminare. E io la smetterò di mandare un sospiro per ogni capello grigio che le trovo sul caschetto la sera quando rientro e Lucia mi viene incontro per sfilarmi di tasca il tesserino magnetico dell’ufficio e mimare il suono del marcatempo elettronico udito quella volta che vennero a trovarmi sul lavoro. Come se i sacrifici non toccassero anche a me: le mie velleità artistiche non sono facili da reprimere.

Ora mio suocero sarà in casa a tossire. Starà guardando fuori dalla finestra. Penserà a sua nipote. All’autostrada che non ha preso. Al decollo, alle nuvole incorniciate dall’oblò. In questo mio ritratto sto pensando a lui, il mio detrattore, finanziatore, forse lettore. Penso lui che pensa, nel sogno della mostra.

 

Per il ritardo impiegato nel rientro in patria, Diego fu punito con l’ennesima promozione. Per mezzo del decreto 16 febbraio 1652 il re lo nominò aposentador mayor. Qualifica intraducibile. “Quartiermastro”, al pari di “furiere” e “maresciallo”, è parziale, oltre che militaresco. Piuttosto che “lodging manager” diciamo capo dell’unità organizzativa di palazzo che curava le trasferte dei reali e del loro seguito. La mansione che in dieci anni lo sfiancò e condusse alla malattia e alla morte. Morte per asfissia, come Margarita-Gretl. Il 6 agosto 1660. Dopo una settimana di febbre. E agonia. Felipe, distrutto. Diego era stato, al netto dei limiti imposti dal cerimoniale, suo amico. Con chi si sarebbe confidato, adesso? Ordinò la distruzione della sedia a sé riservata nello studio del pittore. Poi sparì a caccia per una settimana.

Se avesse saputo del bambino, sarebbe intervenuto?

Del bambino non si sa quasi niente. Da ricerche e documenti storici c’è traccia della sua esistenza fino ai sei anni di età. Diego sapeva. Aveva visto il pancione. Tornò in Spagna lo stesso. Nelle profondità nell’Alcàzar. Se non fosse tornato non avremmo Las meninas. Non avremmo quella fronte bianca di luce fredda, al centro della scena, la simulata serietà del resto di quel visino, ruotato di tre quarti come per controllare, femminilmente, l’acconciatura, mentre accenna un sorriso non sapresti se educato o beffardo. Le punte di quelle dita infantili che cercano la stoffa della gonna per preparare o mimare una riverenza. Le damigelle intorno quasi addosso, come genitori apprensivi. I genitori incuriositi e casuali, come passanti. Il cane stordito. Il nano molesto. Se Diego non fosse tornato non avremmo nemmeno lo sguardo del pittore, che da lontano sembra concentrato, da vicino triste. Forse la verità sta nel naso, che fila via tra gli occhi. Il resto è penombra.

 

La filastrocca arriva a metà della favola, ma a Lucia non interessa il seguito. A me interessa che si sia calmata.

Con indice e pollice fingo di aggiustarmi un paio di occhiali sul naso, più o meno come faceva la mia nonna, e do lettura di un inesistente biglietto di partecipazioni, scritto in bolognese:

«Gal Castal,

Galéina Castaldéina,

Anadra Cuntassa,

Oca Badassa,

Brec Muntan,

Èsen Panan,

Can Maman

e Gat Sgranfgnan.

Sì, gatto, ci sei anche tu, vieni pure, dice il gallo. Allora il gatto balza giù dal muretto su cui sonnecchiava, va a prendere le sue cose, mette le sue cose in un fazzoletto, del fazzoletto fa un fagottino, il fagottino lo mette in cima a un bastoncino, il bastoncino lo mette in cima alla spalla e via che s’incammina con gli altri sette animali. Invitato anche lui al banchetto nuziale della principessa.»

Ora la faccina mi fissa carica di aspettativa.

Qui comincia la parte inventata da me.

Fingo di nuovo di aggiustarmi gli occhiali sul naso e avvicino la mano alla faccia come per mettere a fuoco la lista d’invitati al banchetto: «Ehi, ma qui c’è scritto un altro nome ancora!»

Il culetto rimbalza di eccitazione.

«C’è scritto Lucia Fangéina. Lucia Bambina.» Mentre lo dico le volto le spalle, restando accovacciato ai piedi del divano. Poi odo uno strillo e appena avverto l’impatto del corpicino sulle scapole sono pronto a chiudere le braccia dietro la schiena per stringerla a me. E mi alzerei, e me la porterei in giro per il bosco con gli altri animali diretti al palazzo reale, se avessi calcolato mia moglie, che dopo avere assistito in silenzio alla scena si tuffa su di noi.

Crollo. Mi schiacciano. Il mento sul tappeto.