Gino/ 23

di in: Gino

Nei guai

Cominciò una sera che non ne poteva più, di sentire la Sara e Franz cianciare col solito scroccone di turno. Li lasciò di colpo e loro nemmeno lo videro, che usciva sbuffando. Gironzolò per il centro, dove c’erano qualche luce e qualche passante, sempre meno. Poi per la periferia. Gira e rigira si ritrovò di nuovo nel quartiere della Gegia e nei vicoli silenziosi che lo facevano sentire piccolo e inutile. I passi corti, il fiato pesante, a caso nella notte, come una falena.

Sbattendo i sensi ottusi qua e là, a un certo punto fu attratto da una luce forte e squadrata, sul selciato. Il rettangolo di una porta a vetri luminosa racchiudeva rumori e gente, fumo che cercò di scappare a fiotti, quando lui aprì la porta per entrare, e che rimase intrappolato in nebbia accanita, quando lui se la richiuse alle spalle.

Dentro al tanfo di sigarette e di gioco, di parecchia gente pigiata a rischiare da ore e sudore rancido di chi perde.

Da una parte un biliardo verde, grande, bellissimo.

Liscio e ovattato, intorno a lui non si litiga e non si urla. C’è gente brava, che gioca davvero e che non si deve disturbarla mentre tira. Concentrazione a rivoli giù dalle fronti spianate dall’attenzione.

Le facce sbaluginanti del verde del tappeto. Cicche a ogni angolo a fumarsi da sole fino allo sfinimento.

Gino non c’era mai stato, in un posto così. Lui conosceva le bettole coi vecchi che bestemmiano e sputacchiano. Uomini che si fanno il cicchetto prima del lavoro, dopo il lavoro, prima di cena, dopo cena, per dormire, per svegliarsi.

Taverne dove accanto ai tavoli colmi di untaglie c’è una tavola e quattro sedie spaiate, mazzi bisunti e neri e un po’ di vino in una fossetta, da un lato, per intingerci i diti e acchiappare meglio le carte.

Questo conosceva Gino e quel locale serio, fumoso e silenzioso gli pareva una chiesa.

Aveva assistito zitto e rispettoso, per qualche giorno e poi, sempre rispettosamente, aveva fatto qualche tiro. Ma così, tanto per giocare. Non avrebbe mai potuto fare una vera partita, con quelli lì. Già era il più giovane. Poi l’ultimo arrivato. E non si fidavano neanche un gran che. Quando entrava lui sibili e cenni d’intesa ammezzavano i discorsi.

Però stare lì costava. Bere, fumare, scommettere, perdere. E siccome non c’aveva niente, per pagare, perdeva i soldi degli altri. Prestiti, prestiti, qualche furto alla Gegia. Non a lei, che c’aveva gli occhi dappertutto, ma ai suoi clienti, che poi la Gegia li buttava fuori a calci perché diceva che era tutta una scusa, quella che gli avevano rubato i soldi, per non pagare il conto.

Franz e la Sara provavano, ignari, fino al crepuscolo.

L’ora in cui Gino si arrampicava sul muretto del cortile, e poi passetto passetto, attento in bilico fino alla grondaia. Un piede in un buco nel muro, una mano sul rame. Issa verso un altro buco, la mano un po’ più su.

Palleggiare per un momento il portafogli smencio, di chi c’ha pochi quattrini. Vecchio cuoio usurato e qualche lira che fa pena, fra le dita.

Poi un rumore nel corridoio, le palle in gola dalla paura e fermo nel buio atterrito a vedere se il rumore si avvicinava o si allontanava. Paura più della notte fonda, più dei fantasmi e dei banditi. Paura d’essere trovato a fare il ladro.

Passi più soffici e lontani, respirare e girare i tacchi, muoversi di nuovo a tentoni verso la finestra, con le lire ficcate in tasca e le mani sudate che scivolano sul muro e il metallo dove scorre rumorosamente uno scroscio d’acqua merdosa verso la fogna.

Poi fra le strade nella notte bassa e ottusa. Pochi lampioni e gas fioco, fino a un viottolo del tutto buio, la luce a rettangolo di una porta a vetri sul selciato.

Da quando aveva cominciato a rubare, tutto era cambiato. Loro lo avevano capito subito. Quei foglietti ciancicati, la faccia rossa, offrire da bere a tutti.

S’erano rilassati, a poco a poco, e l’avevano fatto avvicinare. Gli avevano insegnato a tenere in mano una stecca, gli facevano anche tenere i punti durante una partita e fare il quarto per un tressette, di tanto in tanto.

Gino ci faceva notte fonda, lì dentro, e poi dormiva fino a tardi.

Anche quando finalmente la Sara e Franz cominciarono a esibirsi, lui non si alzava. Li sentiva trafficare e parlare, scendere le scale, bere il caffè che finalmente non era più fatto con le carrube ma vero caffè, perché avevano ricominciato a guadagnare, e la Gegia a dargli da mangiare.

Gino si dava un contegno, beveva vino e grappa come fossero gazzosa. S’era fatto anche il suo personaggio, serio e appartato, che paga e offre e si rende utile. Lo trattavano bene, con rispetto. Eppure lui si sentiva troppo piccolo, eccitato, scodinzolante.

Quelli erano uomini fatti. E con dei passati che traslucevano piano piano nei discorsi e che a Gino, qualche tempo prima, gli avrebbero fatto fare una fugona senza voltarsi indietro.

Pene scontate, grazie, parenti dentro. Qua e là, a mezza voce. E frasi ancora più misteriose su roba in corso, merce da spostare, gente da far pagare.

Tutto un ammiccamento e un sussurro. Oppure battutacce gridate, così grosse che sembravano balle, e invece erano vere. Tipo quelle sul lavoro a maglia di Beppe, che era un po’ magrolino e effeminato. E Gino pensava lo prendessero in giro perché era buco.

Invece era un tipo che sfregiava chi doveva i soldi a uno e non glieli ridava. Per questo, con lui, parlavano ridendo di taglio e cucito.

C’era anche un bruto con la camicia bucata dalle cicche che gli cadevano dalle labbra senza che lui se ne accorgesse.

Una volta aveva ammazzato uno in una rissa, senza volere, e adesso c’aveva il pugno proibito.

Però lo usavano lo stesso, quelli del bar, perché era forte come un bue e stupido come una gallina. Faceva il palo, la spia, il facchino. Tutto quello che gli altri gli faceva schifo fare.

Il barista non sapeva e non vedeva, parlava e scherzava con tutti ma non faceva affari, questo Gino l’aveva capito. Però non doveva essere uno stinco di santo nemmeno lui, visto che lo chiamavano il Concia.

Siccome Arezzo era piccina e non c’era nemmeno tanti affari, quella era gente che aveva viaggiato, lavorato a Ravenna, a Bologna, addirittura a Roma. Che ogni tanto partiva e non si vedeva per un po’.

“In vacanza”, diceva il Concia. E a Gino gli veniva in mente i viaggi fuori Firenze dello zio. Roba linda e semplice, in confronto a questa. E gli veniva una nostalgia di come era stato bambino e senza sapere di posti come quello.

Però, ora che c’era, non ci si sapeva più staccare. Voleva sapere, voleva farsi valere. Sopratutto, ci stava prendendo gusto a esagerare. Con il vino e le scommesse, e il sangue a fiotti densi di paura ogni volta che andava a rubacchiare qua e là. Poi, dopo, si sentiva solleticare dappertutto e gli rimaneva un’euforia addosso che non gli andava via nemmeno dopo tre grappini.

Allora, sbronzo e pieno di formicolii addosso, una notte si lasciò prendere per il braccio da Robertino.

“Vieni, citto, che ti fo capire che ti se’ perso fin’ora!”.

Robertino era obeso e spiantato. Però trovava sempre la maniera di bere, mangiare e trombare a ufo, dicevano al bar. Infatti.

“Eccoci qui, bellezze, pieni di grana!”.

Nella grande stanza buia c’erano tre bagasce vecchie e brutte. Tutte stravaccate su dei divani verdi di noia e d’aria vizza.

Però quando videro Robertino si alzarono tutt’e tre e gli vennero incontro salutandolo e festeggiandolo come un gran signore.

Poi si felicitarono tanto di vedere Gino, e lo pizzicarono e palpeggiarono un po’ dappertutto.

“Che bel citto, Robertino, ch’è tuo?”.

E Robertino a ridere stridulo.

“Maddalena, ti pare che so’ ‘l tipo? Mai stato sposato, io!”.

“E meglio così, che ti si vede più spesso!”.

Risero tutt’e tre, attaccandosi un po’ al suo collo, un po’ ondeggiando qua e là a cercare una sigaretta, un bicchiere.

Robertino si stravaccò sul divano e due gli si sedettero accanto, ridendo e cianciando e levandosi pezzettini di tabacco di fra i labbri. La terza abbracciò stretto Gino fra le cicce.

“E questo puttino, che ne facciamo? Sembra uscito dal quadro, tant’è bellino!”.

Roberto si raddrizzò.

“Per lui… ci vuole un po’ di calma… fare le cose per benino, capito?”.

Gino si divincolò e si mise a rinculare verso l’uscita. Aveva bisogno di respirare e non ne poteva più di sentirsi dare del bamboccio.

“Oh, ma che fa ? S’è impaurito?”.

La grassona lo riafferrò come una mamma che riagguanta il mariuolo.

E come una mamma se lo portò a letto, sgridandolo e incoraggiandolo. Lo spogliò come se gli dovesse fare il bagno lo strusciò e lo masturbò. Toccato e guardato senza curiosità.

“E ora che sei più calmo, vieni qui, vieni”.

Gino si sentiva girare la testa e sciogliere la pancia.

La grassa s’era divaricata sul letto mollo e lo tirò su di sé, se lo mise sopra, spinse e afferrò e aggeggiò e agitò, con le natiche di Gino come due mestoli da girar la pattona, su e giù, su e giù. Gino venne dopo un monte di tempo e disperato, dentro quelle cicce che ballavano qua e là e che c’aveva paura non gli si sarebbero più levate dalla testa.

Ma gli si levarono presto, invece, quando arrivò la Camilla.

Una donna giovane, con gli occhi grandi e luccicanti e i capelli più neri che Gino avesse mai visto.

Ci si crogiolava dentro, a quei capelli, e sui seni duri scivolava via come acqua sul ghiaccio, la sua testa in un risucchio che gli faceva paura, tant’era forte.

Ecco, di colpo, il mondo tutto diverso e pieno di senso. Perché la gente viveva e moriva, sperava, pregava, ammazzava e rubava. Per i seni di Camilla, per i capelli neri e poter nuotare dentro di lei, lago beato e mulinelli che lo portavano via, alla fine, svenuto su di lei a respirare forte senza nemmeno accorgersene.

Gino faceva ancora più tardi, adesso, perché appena entrava nella camera e la Camilla si spogliava lui non faceva nemmeno in tempo a levarsi i calzoni, e saltellando con le gambe impigliate gli si buttava addosso, la baciava e toccava con la fregola d’una bestia e nemmeno si accorgeva di fare l’amore, perché durava meno di due sospiri.

Dopo, allora, gli piaceva rimanere disteso accanto a lei a lisciarle i capelli sulle spalle. A seguire i bracci, i gomiti, le anche, cosce, ginocchia. Le mani due calici a racchiudere i seni, la punta dei labbri sul collo.

Ci sarebbe rimasto tutta la notte, così, ma la Camilla lo scuoteva via, a un certo punto, che lei c’aveva da lavorare, mica era al grand’Hotel.

Allora, fra il bar, il biliardo, la Camilla e le grondaie, Gino non vedeva più la luce del sole.

Finalmente c’era riuscito a invecchiare: c’aveva la faccia grigia, come quegli altri. Però con delle occhiaie che nessuno c’aveva lì dentro. Occhiaie fonde come la foga che gli pigliava quando stava con lei, che gli pareva d’essere un animale e non c’aveva più pensieri, se non di tornarci la notte dopo.

“La vorrei riavere anch’io, la lumaca che c’avevo a quattordici anni ! ” diceva Robertino e ce lo accompagnava quasi tutti i giorni, alla casa chiusa. Lui però scroccava e a Gino i soldi non gli bastavano più nemmeno per cominciare. La Camilla anche non poteva più fargli credito ” mica per me, sai citto. È la signora, che sennò mi manda via…”.

E Gino voleva che la Camilla la mandassero via? Piuttosto si faceva ammazzare.

Allora al bar, che erano gente che se ne intendeva, lo videro subito che lui era arrivato proprio a quel punto che gli serviva a loro.

“Vai a parla’ co’ Rospo”, disse il Concia.

E Gino guadó il bar fino al tavolo del rospo.

Ecco, ora era dall’altra parte, era con loro.

Il Rospo non lo considerò per un po’, troppo intento a fare conti su un foglietto.

Poi lo sbirciò da sotto in su, gli buttò il mento verso una sedia e mugugnò “stanotte non ci vai, al bordello”.

Mise via il foglietto e lo fissò negli occhi ; “devi anda’ ‘n un posto per me”.

Una rimessa di barrocci, lì in città, dove Gino portò un fagotto di cartone. Avrebbero potuto essere panni sporchi, o la spesa per la mamma. Ma erano soldi, lo sapeva. E li dette a uno che arrivò nel buio e gli dette un altro fagotto, pieni di oggetti.

E dopo quella volta regolarmente, lui di notte si metteva fra le stanghe ad aspettare. Paziente, coi fagotti stretti al petto. E nel buio intravedeva appena gente che non parlava quasi, mugugnava tre parole che non si capiva nemmeno e gli porgeva il pacco, prendeva il suo.

A Gino la notte stessa il Concia gli dava dei bei soldoni fruscianti che lui portava subito alla Camilla.

Ormai non vedeva più nessuno, fuori dal bar, la rimessa e il bordello.

Dalla Gegia ci stava a dormire come un sasso nelle ore che tutti quegli altri stavano a lavorare o a trafficare. La Sara e Franz erano sempre più spesso in tournée. Non gli interessava nemmeno di sapere dove.

Allora lui era una macchinetta. Zitto, affidabile, col cervello fritto dalla grappa e le cosce della Camilla.

Il Concia s’era messo a fargli addirittura gli zabaioni, per tirarlo un po’ su.

La Camilla, cominciava a affezionarglisi e ci stava sempre più a lungo, con lui. Che ora c’aveva i soldi e la maitresse non diceva più nulla.

E non lo lasciava più sfogare come una bestia, ma lo spogliava lenta e sorridente, se lo sdraiava accanto, lo accarezzava a lungo e gli faceva tenere a bada gli spasimi “impara a aspettare”, gli diceva.

Lui gli ci voleva davvero l’impegno, perché gli pareva che le mani della Camilla sprizzassero foco, sul suo petto e sulla sua pancia, sugli inguini… gli veniva da piangere, gli sembrava di star male.

“Non fare il cittino, pensa a n’altra cosa!”, e giù a pensare ai monti e ai ruscelli ghiacci, le nuvole, la bagascia vecchia della prima volta. E allora si godeva la Camilla a lungo, piano, centimetro per centimetro, i labbri sui pori della pelle scura e i capezzoli chiari, delicati, morbidi e lisci come le rose.

Via dal concia, sacchetti gonfi di quattrini e sacchetti gonfi di merce. Non più nella rimessa; ora si incontravano ogni volta in un posto diverso. In una soffitta, uno scantinato, un negozio chiuso, in campagna, sotto un ponte.

Tutta l’estate Gino di giorno dormiva e di notte portava a spasso la merce rubata, se non stava con la Camilla.

Ma tanto lui nemmeno lo sapeva più, che stagione era.