Il lupo di Dossena

di in: Bazar

Accadde un sabato pomeriggio di alcuni anni fa, alle ore 16.30. Già il piccolo paese di Dossena era avvolto nelle prime tenebre della sera, il ghiaccio lo stringeva nella sua morsa, e tutti i camini fumavano, quando all’improvviso, negli interni riscaldati delle case, alcuni abitanti udirono un ululato lungo e profondo, che per molto tempo, dopo quella sera, sarebbe rimasto impresso nelle orecchie e nella memoria della gente. Sembrò giungere in quella estrema propaggine della Valle Brembana da gelide lontananze, da siderali latitudini, veicolo di esperienze che si credevano esaurite in un passato atavico e misterioso, ormai del tutto dimenticato. E infatti chi lo udì per la prima volta, pur essendone profondamente colpito, non ne capì o non ne volle capire il senso, e lo attribuì a un cane sperduto nelle tenebre della sera che abbaiava alle stelle.

Quando però l’ululato fu udito due e tre e quattro volte, e non più da poche persone, ma da tutti gli abitanti di Dossena, non ci fu alcun dubbio: era proprio l’ululato d’un lupo. La sera stessa fu convocato d’urgenza in seduta straordinaria il Consiglio comunale, che si tenne alle ore 18.30 con grande concorso di popolo.

Il Sig. geom. Astori, presidente della Pro loco e assessore al turismo, argomentò che se d’un lupo si trattava, doveva essere fuggito da uno zoo o da un circo oppure dal recinto di qualche raro ed eccentrico zoofilo della valle, e che, in ogni caso, la comparsa d’un lupo avrebbe avuto grande risonanza fin sull’ “Eco di Bergamo” e addirittura sul “Corriere della Sera”, pagina della cronaca lombarda; e già prevedeva un notevole incremento del turismo negli ultimi mesi della stagione invernale. Ma lo spirito imprenditoriale del Sig. geom. Astori non rincuorò i dossenesi che, per bocca del loro Sindaco, Sig. rag. Alcaini, espressero la preoccupazione che il feroce animale portasse scompiglio tra le greggi e gli armenti della zona, e insidiasse i pomeriggi all’aperto dei loro figlioli. Il parroco, don Sticco, cercò di riportare la calma, obiettando che di sicuro non di un lupo si trattava, bensì d’un qualche cane inselvatichito giunto su quei monti chissà come e chissà da dove. Come si vede, c’erano ancora degli scettici, e d’una certa autorità. In realtà, anche questa ipotesi non rincuorò nessuno, poiché, dicevano in sala, un cane inselvatichito poteva essere feroce quanto un lupo, e bisognava abbatterlo. Il pastore Bonzi Giovanni, a capo di ben trenta mucche brune, una delle quali premiata (I posto) nell’ultima fiera di settembre, chiese la parola e, in un italiano-bergamasco gutturale dal vaghissimo sapore toscano, disse che nella due notti precedenti aveva già sorpreso inquiete le sue mucche al riparo nelle stalle, e pure i cani avevano a lungo abbaiato, e che tutto questo non gli pareva normale, e ora lo attribuiva indubitabilmente al lupo di Dossena. Così disse.

Parlarono in molti, dissero tutti le stesse cose, che il lupo era un lupo, un lupo autentico, come quelli che tante volte si vedevano nei documentari televisivi, che su questo non c’era da dubitare, che tutti lo avevano sentito (e alla fine era d’accordo anche il parroco), e che doveva essere ucciso. L’argomento che convinse tutti della necessità di fare l’indomani una battuta di caccia, fu che un lupo non poteva mica stare da solo, che certamente sui monti, tra la neve, in qualche tana nascosta, una lupa aveva o avrebbe dato alla luce una cucciolata, e l’anno successivo i lupi si sarebbero moltiplicati, e chissà cosa sarebbe accaduto ai poveri abitanti di Dossena. Insomma, bisognava stroncare il fatto sul nascere – disse il Sindaco – poiché vero era che il turista sarebbe fuggito da un paese infestato (parola sua) dai lupi e non vi sarebbe tornato più. Questo argomento, contrario a quello del Sig. geom. Astori, presidente della Pro loco e assessore al turismo, persuase i più e fu applauditissimo da tutti, o quasi. Infine, verbalizzato che le autorità comunali non si potevano esimere dal dare la caccia ad una bestia feroce che poteva insidiare la popolazione e mettere a repentaglio i suoi beni, e che avrebbero prodigato ogni mezzo a loro disposizione per purgare il paese da quella fiera, fu stabilito che il giorno seguente, sin dalle prime ore del mattino, una squadra composta da volontari, coordinata dal vigile Attanasi e diretta dal Sindaco in persona, avrebbe battuto la zona circostante l’abitato per un raggio di almeno quattro chilometri. Infine, rassicurata dal Sindaco la cittadinanza, che tuttavia nel frattempo nessun pericolo correva, poiché il lupo non avrebbe avuto l’ardire di avvicinarsi troppo al paese, la seduta fu sciolta alle ore 21.00, e tutti se ne tornarono nel tepore delle loro case, rincuorati, anche se non del tutto sereni. Il dissenso del Sig. geom. Astori, naturalmente, fu messo a verbale.

Il giorno dopo, domenica, alle ore 8.00, si incontrarono davanti alla chiesa arcipresbiterale di San Giovanni Battista, armati di fucile e coi cani da caccia in gran numero. Erano una trentina di provetti cacciatori, tutti padri di famiglia, con una lunga esperienza venatoria alle spalle, ma si confessarono in cuor loro che mai prima d’allora avevano dato la caccia a un lupo. Mancava soltanto il parroco, don Sticco, che di lì a poco avrebbe dovuto officiare la seconda messa della domenica. Comparve tuttavia sulla soglia della casa arcipresbiterale, benedisse la spedizione con un largo segno della mano, e rientrò. Alla battuta non prese parte neppure l’assessore Astori, a causa del suo dichiarato e verbalizzato dissenso. Animavano il gruppo e vi si distinguevano per il loro attivismo, il Sindaco, Sig. rag. Alcaini, e il pastore Bonzi. Coordinava il vigile Attanasi. I cani abbaiavano e ansimavano, bramosi di iniziare la corsa, e gli uomini erano costretti, nell’attesa degli ultimi compagni ritardatari, a tirarli e strattonarli per il guinzaglio, e lo facevano senza alcun riguardo, sicché pareva che gli animali più focosi dovessero morire da un momento all’altro per soffocamento, strangolati.

Si distingueva inoltre tra i cacciatori un ragazzetto, non più alto di un metro e trenta; egli colpiva per gli occhi azzurri come il cielo di Lombardia quand’è sereno, e vispi come quelli d’una volpe, per i capelli biondi che portava cortissimi anche nel gelo dell’inverno, ad eccezione d’un ciuffo che sortiva sul capo dalla fronte prominente, di sotto il berretto di lana che sua madre gli aveva confezionato con cura nelle sere d’autunno, dopo le fatiche dei campi e della stalla. Il ragazzetto vestiva un giubbino a scacchi rossi e verdi, e una sciarpa rossa pendente dietro la spalla gli s’avvolgeva intorno al collo. Portava, anche quel mattino, i jeans e un paio di scarponi da montagna grandi e pesanti, caldissimi. Berto sembrava, malgrado i jeans, un pastorello venuto fuori da qualche oleografia ottocentesca. Aveva undici anni.

Aveva chiesto al Sindaco di seguire il gruppo degli adulti che col fucile in spalla stava per avviarsi lungo il sentiero che conduceva verso il monte. Il Sindaco aveva sorriso, gli aveva dato una pacca sulla spalla, e gli aveva ordinato bonariamente di tornarsene a casa, da sua madre, perché quella non era una battuta di caccia alla lepre. Berto aveva risposto senza esitare di aver visto il lupo, e che il lupo di lui si fidava, perché lui il giorno prima gli si era avvicinato e gli aveva perfino dato da mangiare. Il rag. Alcaini naturalmente non gli aveva creduto, e lo aveva rimandato a casa ridendo.

– Se ci fosse qui mio padre, mi darebbe il permesso.

Così aveva detto Berto al rag. Alcaini, mentre questi ormai gli voltava le spalle e non lo udiva neppure. Ma suo padre si era addormentato l’anno prima, e non si era più svegliato, e nessuno gli avrebbe dato quel permesso.

 

Era apparso a Berto nel tardo pomeriggio del giorno prima, rigido e buio, nel silenzio del bosco dove nessuna presenza animale era supposta. Berto era sbiancato, aveva tentennato e poi era indietreggiato, colpito da quella improvvisa apparizione. Aveva avuto paura, ma non gli era neppure venuto in mente di darsela a gambe. Anche il lupo era rimasto immobile dinanzi a lui, a non più di venti metri di distanza, nero nel biancore della neve, tra gli alberi. Il lupo si era mosso piano, aveva fatto un passo e poi due, e infine Berto si era ritrovato vicino alla bestia, a non più di dieci metri da essa. Il lupo sembrava assorto in chissà quale pensiero, e non si muoveva, ma sembrava fidarsi di quella figurina che appena si stagliava contro il grigiore del cielo, tra i rami. Allora Berto non aveva avuto più paura, e anzi gli era andato incontro piano, tendendogli nella mano un boccone della colazione che si era portato nel bosco, e poi gettandogliela tutta intera. Era a meno di tre metri dal lupo, e non gli pareva vero. L’aveva visto mangiare con avidità e s’era visto guardare da quegli occhi dapprima pieni di paura, poi quasi fiduciosi, umani. Infine, il lupo, voltandosi, era fuggito via e, a distanza di trenta metri, come per un ripensamento, s’era rivoltato verso di lui, e aveva levato il muso al cielo nevoso, come fanno i lupi, per ululare a lungo, ripetutamente, abbandonandolo in quel luogo deserto, sbigottito.

Berto sulla strada del ritorno non aveva saputo trattenere le lacrime; ma lo stesso, ripetuto ululato, in paese, dapprima, come dicemmo, aveva turbato gli abitanti di Dossena, che se ne stavano al caldo nelle loro case, e poi era parso loro come una sfida.

 

Il mattino di quella domenica era buio come una notte senza luna, e la neve caduta nelle ultime ore non aveva lasciato alcuna traccia, sicché i cacciatori si resero subito conto che la loro battuta difficilmente avrebbe avuto un buon risultato. Essi stentavano a orientarsi tra gli alberi avvolti dalla nebbia del mattino, né i cani potevano aiutarli. Nessun uccello che emettesse alcun grido, nessuna presenza animale era in quel bosco. Un senso di angoscia pervase gli animi degli uomini che pure conoscevano palmo a palmo i più nascosti sentieri per averli battuti centinaia di volte. I cani abbaiavano alla nebbia.

All’improvviso un ululato ruppe quella monotonia, poi un altro e un altro ancora: sembrava veramente una sfida. Uomini e cani sbigottirono. Poi il Sindaco disse a voce alta che quella era la direzione che dovevano seguire e che il lupo non era lontano. Andarono verso est. All’imboccatura d’un sentiero, sopra un fosso, il Sindaco scivolò e cadde, ruzzolando, portandosi dietro i suoi due cani legati al guinzaglio. La battuta di caccia si arrestò per un momento. Tutti, e più di tutti il vigile Attanasi, si prodigarono per soccorrere il capo e compagno caduto. Il Sindaco non aveva riportato ferite, e neppure i due cani. Ripartirono. Un nuovo ululato, più acuto e vicino, li avvertì che quella era la direzione giusta, che di certo presto avrebbero raggiunto il lupo. I cani sembravano ormai aver fiutato la preda poiché senza dubbio seguivano la traccia; ma i loro padroni tentennavano, tenendo a freno i cani, strattonandoli. Perché, dunque, non li liberavano?

Quando i cacciatori si erano messi in marcia, Berto, disubbidendo agli ordini del Sindaco, li aveva seguiti a distanza, sperando, in cuor suo, che i cacciatori non trovassero il lupo, perché di sicuro non gli avrebbero risparmiato la vita. Avanzava a fatica nella neve gelida, accompagnandosi con un bastoncino che aveva ricavato da un ramo d’abete sfrondato, seguendo le tracce che i cacciatori inghiottiti dalla nebbia avevano lasciato coi loro scarponi da montagna, senza farsi vedere. Udiva a tratti le loro voci da lontano, l’abbaiare dei cani, la loro ferocia. Se solo avesse avuto la fortuna di trovare prima di loro il lupo, se avesse potuto per l’ultima volta vederlo, parlargli, dirgli che se ne andasse via, in un altro luogo, su di un’altra montagna! Gli uomini non l’avrebbero più perseguitato, e lui sarebbe stato salvo. E si illudeva di poterlo trovare prima degli adulti e di poterlo salvare. Queste cose pensava avvolto dalla nebbia, mentre non distingueva un albero a dieci metri di distanza, quando lui e loro, a quel punto, sentirono un ululato, uno solo e assai prolungato. I cacciatori liberarono i cani e si diressero verso il luogo da dove proveniva l’ululato. Percorsero circa cinquecento metri, affondando nella neve, ansimando dietro ai cani che avanzavano in direzione del precipizio. Sul ciglio del burrone i cani si erano fermati e abbaiavano alla nebbia che confondeva cielo e precipizio in un’unica lontananza grigia.

I cacciatori si affacciarono sul dirupo e non videro che bruma; dissero che quella era una falsa pista, che il lupo non poteva essere sceso da quella roccia ch’era troppo scoscesa, e che se solo ci avesse provato si sarebbe sfracellato nello strapiombo. Ritirarono i cani e s’avviarono verso il bosco.

Ultimo giunse Berto, battendo il suo bastone sulla neve. Guardò a lungo nella bruma sottostante, e quando, ormai intirizzito, stava per voltarsi e tornare sconsolato verso casa, un insperato freddo venticello squarciò la nebbia del mattino, e di tra la bruma gli apparve la sagoma del lupo, vivo, come una macchia nera nella bianca scarpata.

[1997]