Poesie scritte a Londra

di in: Bazar

L'immagine che illustra questi versi è di Davide Racca.

Doppio ritratto

a Giuseppe Caccavale

Il mio sguardo lucido
è finito nella tua luna opaca
dietro grate di una finestra
di ottobre. Abbiamo parlato
a lungo di tua madre
che contava i soldi che
ti contavano (pochi
del resto se escludevi
quelli che non ti davano
da bere). Potevi prendere
a calci una lattina all’epoca
ma non ti sei lasciato
offendere. Io, tutto da
cominciare, sono in perenne
falsa partenza… ma le nostre
geografie parlano per noi.

Ora il tempo stringe e tu
stringi il pugno della sua ora.
Lasciamo le lacrime ai vestiti
e il cuore stasera
intagliamolo nella pietra.

Per cercare il mare

Per cercare il mare guardavo il cielo.
La fronte si spianava adesiva sul vetro
mentre l’inverno cambiava ogni cosa
e accartocciava una mano nell’altra
e si staccavano le domande dai dubbi.
Una cosa naturale come bere e sentire
l’urgenza nel ventre quando le foglie
cadono perché il tempo è maturo.
Ma intanto cadono tutte e raccoglierle
non è conservarle, ma pulirne il fondo.

Altre si sono formate della stessa specie
ma differente forma, più sottili o
più grandi del pugno che stringevo.
Si aprivano sulla mia fronte nel controvento
da dubbi ancora più grandi di me
che per cercare il mare guardavo il cielo.

Muro

Si è fermata davanti, una nebbia fitta
aperta dal volo di nessun uccello.
Tiene chiuse le stanze dalle voci
e a porgervi l’orecchio si sfoglia
come petali. Una carta di pergamena
scricchiola dalle sue trame un sentimento
d’isola. (Qui non c’è nessuno).

E la mano cerca il varco, strofina
la granulosa consistenza, ferma la luce
nel palmo. Toccare non conta,
lo specchio ti tocca spanna dopo
spanna e accende la sagoma al riflesso.

Bianco dietro bianco una nuova nebbia…

(Non siamo fatti per fermarci ma per

attraversare). In assenza di prospettiva,

come in mancanza d’aria, il dorso strofina

l’ombra e l’ombra beve la superficie

sempre più chiara, più vicina e dura.

Dolcezza

Attraverso il parco, una processione
di donne vestite di nero offre pane
al collo proteso di oche nell’acqua.
Tra il falso e il vero della visione
una nube passa tesa nella coscienza del cielo.

Due piccioni grigi si spaiano in volo
come in uno sbuffo di respiro
trattenuto nella gola del vento.

Il corvo dagli occhi buoni sa distinguere
la luna d’oro di una moschea da un raggio
di sole, che cammina nella dolcezza
di occhi da una ferita cucita di nero.

Le tre finestre

Piove da un lembo di cielo una pioggia
leggera come granelli di cenere bianca.

Dalla mia finestra si aprono tre finestre.
Quella a destra è cieca un po’ più in là,
eppure si vede chiaramente. Le altre
sono vicine a un passo. La più esterna
si accende di rado e dà sulla scala comune
degli appartamenti. Al centro è sempre
illuminata, sempre presente, ma fogli
confusi non lasciano intravedere gli interni.

Piove da un lembo di cielo sulla finestra dei tre tempi.

L’anatra

Le croci delle finestre sono spente.
I rumori sono vetri rotti da un guanto
felpato. Nessuno passa sotto la tenda
cenere dei fari. Un tetto di zinco
assorbe la vibrazione delle foglie.

Non accade nulla. La ghiaia moltiplica
i frammenti dei miei passi e le radici
si radicano ancora più a fondo. I salici
sembrano nascosti dietro alibi, la nebbia
compatta il piano dei miei fantasmi.

La gola è arsa. Svuota la pancia profonda
dell’ora. La notte si chiude come uno stagno
sulla testa di un’anatra inchiodata nell’acqua.

Dentro il tronco

Difficile capire e mettersi di fronte
una colonna di pino nelle direzioni
molteplici di formiche. Difficile
provare il passo che sia quello
di una scia da seguire nelle gole
profonde della corteccia.

I propri limiti sono catene invisibili,
linee in frammenti come se altre
ne avessero disturbato il percorso.
L’ora è un continuo singhiozzo di passi,
di sguardi. Le croste tracciano geografie
di un tempo rimarginato.

Siamo abbracciati al tronco, siamo dentro il tronco.

Accade

Il salice copre i suoi rami
sotto la pelle bruna dell’ombra.
I bambini si divertono
a fare cappi per lucertole
coi suoi fili strappati alle foglie
e vedere il verde guizzante
scappargli tra le mani.

Una donna conta i battiti
sul collo dell’uomo al suo fianco.
Si inarcano sulla panchina
per sentire dalla puntura di spine
il sangue delle rose che si aprono
intorno.

Un verme infila la testa
come un ago
nella lana grezza della terra.

Invisibile

a Cristiane Lhor

Ad occhi chiusi nel bianco spalancato
i rami escono dai sentieri del braccio
e germogliano sangue e cortecce di foglie.

Fra le zolle le spighe si intagliano
come uccelli dalle uova nel nido della terra
dove anche un alito può rovinare, un
rumore consumare l’assenza, ma
l’essenza restarne inalterata.

L’uomo non è un creatore, non ha voluto Dio
solo per sfruttarne il creato. Qualche volta
si è innamorato anche delle cose invisibili
e così concrete che nella mente diventano pietre.