Passi di fine inverno

di in: Bazar

Non lo vedevo da più di dieci anni. Si era trasferito a Firenze con la madre e il fratello. Mi ricordai di lui dopo essere scappato dal cinema dove mi ero rifugiato per trovare un po’ di compagnia: mezz’ora di un film americano con Dom De Louise, un comico che fa la parte di un operaio innamorato della pastasciutta: non ho mai sopportato le storie, la parlata, il doppiaggio degli italiani d’America. Mi commuove “Uno sguardo dal ponte”, la sensualità della ragazza, ma quando Raf Vallone fa la spia, il film si spegne, non m’interessa più. Non sapevo dove andare, la città mi aveva messo addosso una brutta malinconia. Ero entrato in un altro cinema, solo perché figurava, tra gli interpreti, Kim Novak, anche se in un ruolo secondario. C’erano quattro spettatori, più distanti della luna, e Kim Novak era un fantasma ingrassato, sperduto, senza la morte negli occhi. Mi venne in mente quel ragazzo, il suo nome, ma, sopratutto, la madre. Il padre era impiegato alle poste, la madre era bella. Così me la ricordavo. Esisteva un altro fratello, biondo, come lui, di poche parole, ombroso. Avevo cercato un albergo, una pensione, mi ero attaccato all’elenco telefonico, ma era agosto e non trovai un letto per stendermi. Il primo treno partiva a mezzanotte. Quando bussai, venne ad aprire Michele, il fratello maggiore, quello che conoscevo meglio. Dietro di lui, nella penombra dell’ingresso, la sagoma della madre. Stava lì, col sorriso di una bambina malata di testa, prigioniera della casa. Mi venne incontro spalancando gli occhi, mi abbracciò con trasporto e mi chiese della città che aveva lasciato tanti anni prima:

– È sempre bella?

Le risposi che non era più la stessa. E subito me ne pentii, perché era chiaro come il sole che quella donna voleva sentire altro. Di un’altra cosa mi resi conto, durante la conversazione: lei non faceva caso a quello che le dicevo, e a un certo punto esclamò:

– Allora, è veramente bella!

Capii, allora, che la mia presenza in quella casa era, per lei, una magia. Quella donna fremeva, a ogni mia parola, come le avessi portato la lettera di un amante, che lei poteva leggere davanti al figlio senza vergognarsi, fidando nella sua compassione. Era eccitata. Venni a sapere che l’altro figlio viveva per conto suo e che il padre era morto qualche anno prima.

Michele si era sposato con una ragazza greca. Mi aveva spedito una lettera, chissà quando, con una foto dove stavano in motocicletta: nella foto la ragazza portava gli occhiali scuri e sembrava molto più donna di quella che avevo davanti a me. Aveva una faccia da ragazzina mite, così mite da apparire completamente asessuata. Su invito del marito, prese un album di fotografie, lo posò sul tavolo; quando videro che lo avevo aperto a metà, con la promessa che il resto lo avrei guardato un’altra volta, scoppiarono a ridere. Erano immagini di passeggiate a piedi, in moto, con gli amici, da soli, attorno alla città, in Grecia. Non c’erano ritratti della madre né del fratello. La madre raccontò che il figlio faceva il macchinista in un vecchio cinema. Parlava della sua lontananza senza rimpianto. Quel distacco era, per lei, motivo di avventure. Le piaceva farsi bella per andarlo a trovare: non a casa, ma al cinema, dove si sedeva nelle prime file e si guardava il film dall’inizio alla fine, meravigliandosi che uscisse sempre più spesso la parola “fine”, invece, di “the end”, come quando era ragazza. Mentre lei raccontava, Michele aspettava, con aria distratta, ma senza apprensione, che la madre finisse di parlare. Non si leggeva nessuna simpatia, nei suoi occhi, per quella donna, che stava lì, con le braccia conserte, felice di avere in casa un uomo della sua città. Aveva seguito il marito controvoglia. Il figlio la guardava con il sorriso svagato e distante di chi non ama più la propria madre, da tempo, né ricorda di averla mai amata. Ma vorrebbe amarla. Un po’ se ne dispiace, ma non si sorprende più di confortarla ormai senza passione. Quando la ragazza annunciò che la cena era pronta, la madre ebbe un sussulto, disse che avrebbe apparecchiato lei, fece il gesto di alzarsi dalla sedia, ma all’ultimo momento si trattenne e rimase dov’era, con il timore che qualcuno avrebbe preso il suo posto. Mangiammo con allegria, ma lei si limitò a guardare, preoccupata di dover abbassare tante volte gli occhi verso il piatto. Continuava a fissarmi con uno stupore che voleva essere ardente, ma il suo desiderio era offuscato dai sedativi. Assaggiò solo la crema al cioccolato. Le sorridevano gli occhi, di una luce pacata, senza scintille, appena trovava il coraggio di parlare. Mi chiese se la trovava ingrassata e fece per mettersi in piedi, così potevo guardarla meglio, ma ci ripensò e tornò a sedersi, ravviandosi i capelli per bilanciare la delusione. Michele e la moglie mi fecero visitare la casa: la stanza della madre, con il letto grande, il comò, una sedia povera, l’armadio con lo specchio, le persiane abbassate, sembrava fissata, per sempre, nell’incredulità di trovarsi fra le cose del mondo. Tutto era a posto, ordinato, incapace di riflettere la follia gentile della cosa che chiamiamo sonno. La madre di Michele rimase sulla soglia, non indicò nulla con le dita né fece il nome di un oggetto o di un tempo qualsiasi lasciato crescere nella polvere. Passammo nella stanza degli sposi. Accanto al letto, una vasca con dentro una tartaruga gigante, che, in quel momento, stava emergendo dall’acqua. Mi impressionò, la presenza di un animale così grande, con quella ridicola corazza. Gli animali tenuti in casa mi fanno pena, sempre, si tratti di cani, gatti, uccelli. Era capace di riconoscere il suo padrone? Michele mi rispose di no, sorridendo di quella compagna di stanza “dal cervello corto” e delle cure che le prestava: certe sere la trasferivano nella vasca da bagno per farle cambiare aria e perché l’acqua, mossa in continuazione, non li faceva dormire. C’era un gatto, in casa, una bestia dal pelo nero che chiamavano “topina”. Da qualche giorno era in calore e si lamentava. Michele sorrise anche di questo, trovava divertente la gelosia che il gatto mostrava nei miei confronti. Stavo in quella casa da meno di un’ora, mi accorgevo di respirare, senza fatica, nei passi della madre, che mi girava intorno, contenta, e nella placida stupidità della tartaruga… La moglie di Michele faceva la baby sitter. Michele lavorava ai Monopoli di Stato. Ci sedemmo nel salotto, una stanza senza finestre, con tendaggi pesanti e vecchi mobili scuri.

– Mio figlio ha fatto una bella proiezione, l’altra sera… -, mi sussurrò la madre, furtivamente, un momento che eravamo soli, accennando a una delle sue ultime fughe.

Il figlio e la nuora confabulavano con il gatto, nel bagno. Non c’erano stati bambini, in quella casa. Ne era comparso uno, nella pancia di quella ragazza, l’anno prima.

– Ma non ce l’avremmo fatta a tirare avanti… mia moglie avrebbe dovuto rinunciare al lavoro…

Uscimmo a fare due passi. La madre pregò il figlio di portare anche lei, ma non venne accontentata. Rimase impietrita sulla porta, cacciò un sorriso straziante. Si era fatto buio. Le strade, anonime e tranquille. Michele mi parlò del fratello, che non prendeva pace, che aveva un corpo infelice per delle carezze avute da ragazzino. Era stato un prete. Lo ascoltai, in silenzio. Al ritorno trovammo la madre nell’ingresso, si era pittata le labbra, indossava una camicetta blu che stava bene sotto i capelli biondi. Durante la passeggiata, Michele disse che la madre era tornata dalla clinica da qualche giorno, una casa di cura dove rimaneva per mesi. Guardai quello che non era più un ragazzo e sentii di stare bene accanto a lui: cominciava a piacermi quella faccia dove era scomparso il pallore un po’ ripugnante della giovinezza. Anche la sua voce era cambiata: si era fatta dura, luminosa. La santità di non amare la madre? E perché non l’amava? Non glielo chiesi. Aveva fatto la sarta per tanti anni, a seguito di una compagnia di cantanti lirici. Negli ultimi tempi, prima di ammalarsi, si spostava da una città all’altra. Non era innamorata di suo padre. Non lo era più. Non lo era mai stata? Accudire un uomo malato che non ami, spogliarlo e vederlo nudo, per la prima volta, perché donne come lei avevano sempre fatto l’amore al buio. La madre tornò a guardarsi nello specchio, poi mi fissò con il sorriso sfasato e inerme che hanno le donne che non s’innamorano più, che non custodiscono segreti, che ardono di nostalgie lievi, le sole che il loro cuore sopporta festosamente. Era felice di rivedermi e non aveva alcuna voglia di nasconderlo.

– C’è sempre vento, nella mia città?

Risposi di sì, che c’era sempre vento.

– E allora… perché dici che non è bella?

Le avevo detto che non era bella?

– E dimmi, piove? Qui, la pioggia non batte mai sui vetri. Non piove mai.

Era decisa a fare tardi nei ricordi, che erano la memoria di stagioni, venti, nevicate; mai di qualcuno. Il figlio cercò di dissuaderla, la invitò a ritirarsi, anche perché desiderava restare da solo con me. Lei abbozzò una smorfia da bambina delusa, poi obbedì, a malincuore:

– Ma lui se ne va e io chissà quando lo vedo un’altra volta…

La vidi scomparire come un’ombra, e immaginai, più tardi, che si attardasse a spogliarsi, che evitasse il frusciare dei vestiti per afferrare le nostre voci e distinguere quella dell’uomo che viveva nella città dove era stata felice e dove non era stata costretta a tormentarsi perché la pioggia non scorreva sui vetri. Da quando avevo messo piede in quella casa, e poi anche fuori, passeggiando, avevo notato, nella ragazza, un’attenzione struggente nei miei confronti, una sospensione del cuore, alcuni slanci, spenti sul nascere, un desiderio di prendere, davanti a me, un argomento che le premeva, felice che ci fossi io, resa temeraria dall’occasione che le offriva il destino, e disperata di non saperla cogliere. Nella trepidazione che la coglieva, appena era sul punto di aprire bocca, abbassava gli occhi, e le parole le si spegnevano in gola. Il gatto aveva smesso di frignare, sembrava aver preso un po’ di pace e lei accennò al mare. Era di questo che voleva parlare. Ci era riuscita, finalmente. I suoi occhi si illuminarono:

– Vorrei correre al mare, la domenica. Ma lui non mi porta. Abbiamo la moto. Ci vuole meno di un’ora…

Il marito sorrise, con una grazia che lui stesso non si aspettava, come chi si veda scoperto, quasi non sperava altro, e messo di fronte a una cattiveria immotivata.

– A lei piace il mare…

– È triste rimanere in città, quando non si lavora.

– Andiamo in collina! -, replicò lui, senza convinzione.

– Portala al mare!

– La porterò.

– Lo farai? -, aggiunse lei, con il cuore che sperava forte.

– Lo farò.

Si era fatto tardi. In cucina trovammo la madre, in piedi, le mani piantate sul tavolo. Il figlio le chiese di andare a letto, e lei, questa volta, senza rispondere nulla, si allontanò. Dove avrei dormito? Aprirono il divano-letto. Mi vennero in mente, prima di chiudere gli occhi, i capelli della ragazza. Nelle poche ore che eravamo stati assieme, glieli avevo visti sciolti; poi annodati, a tavola; con due piccole code, prima di uscire.