Industrial Simphony

di in: Bazar

Il silenzio del rumore delle valvole a pressione
I cilindri del calore, serbatoi di produzione”.

Franco Battiato, Pollution

Voglio odorare il sapore celeste del ferro
Voglio vedere il profumo sanguigno del fuoco
Esiste lo so!
Onoro il braccio che muove il telaio
Onoro la forza che muove l’acciaio”.

CCCP, Socialismo e barbarie

Non riesco ancora a distinguere Tempi moderni da Metropolis. Ricordo di aver visto uno dei due film quando ero molto giovane. L’ho assorbito senza capirlo, ovvero senza inserirlo in alcuna categoria, cosa che la scuola e l’università in particolare si sarebbero riservate di fornirmi in abbondanza in seguito (non si sa mai che sentissi davvero qualcosa!). Il minestrone di sensazioni ha tuttavia resistito nel tempo.

Allora Metropolis è quel film di Charlie Chaplin o Fritz Lang? C’è Charlie Chaplin imprigionato ad una ruota agli estremi della quale si accendono e spengono delle lampadine. L’insieme macchinino sfugge nella sua complessità, ingranaggi che si sviluppano e riproducono in profondità, all’interno dei quali il misero compito dell’operaio Chaplin appare folle e inutile. Borborigmi, rumori d’incerta natura, echi lontani di tonfi e il senso di un’industria-natura indifferente, estranea ma ambiguamente attraente.

La città luminosa, donne-robot, il fascino di una luce che si perde e propaga fra grattacieli industrial-avveneristici e taxi spaziali: il sogno di un folle meccanico. Quei sogni che si fanno quando si è molto stanchi, dove tutto il possibile e di più cerca di entrare, si accalca e schiaccia e soffoca lo sciogliersi della narratività in nome di un’affastellata e farraginosa rappresentatività simbolica spinta sino alla saturazione, al collasso del senso a favore del puro proliferarsi delle immagini.

Prima, dunque, la confusione. La fabbrica è dimensione aliena, connotata eticamente: maligna perché estranea

e dannosa peri ritmi naturali dell’uomo.

Poi vennero le stagioni in catena di montaggio a zincare carrelli della spesa, poi nelle lavanderie industriali. Ricordo la ditta Sbav del Marcovaldo calviniano. Sbav: diceva già tutto. Sarei mai riuscito ad andare oltre lo stereotipo cinematografico e letterario? Oppure l’ho cercato, ho cercato la conferma, come un turista aspetta l’immagine dal reale da ritagliare e sovrapporre al depliant turistico?

Ma in fabbrica non ci si può entrare – entrare concettualmente, intendo – senza provare l’esperienza del rumore. Di fronte ad esso tutto il corollario di immagini e saggistica varia se ne va nella latrina.

Il silenzio del rumore delle valvole a pressione…

 

Rombi di lavatrici grandi come il pugno di un gigante che tremano ( tramano), scosse da interne impellenti necessità, fumi bianchi densi come il gesso strutturati da interni rimandi di bave e liane , diamanti appena un po’ meno solidi, blob d’acqua saturata, collassata.

BRRRNNNNNNN!! Il tessuto sonoro della fabbrica è un muro di polvere impenetrabile. Come entri – VRRNNN – si alza immediatamente, è la fabbrica stessa. Ecco, il rumore della lavanderia industriale nella quale ho speso più di cinque mesi di lavoro, è la sostanza stessa dell’atmosfera nella quale sei immerso. Rumore e odore coincidono, duplice dimensione sinestestica.

Voglio odorare il sapore celeste del ferro

Voglio vedere il profumo sanguigno del fuoco

Esiste lo so!

L’odore del rumore esiste, è vero!

Quasi ogni ora, ricordo ora – vedo da lontano la lavatrice scalpitare – un’esplosione, una secca scalfittura d’osso che si rompe… È la vecchia lavatrice da cambiare. La cambieranno quasi a fine stagione (esplosioni addio).

La musica industriale non è solo alienazione, almeno per me. È uno stato mentale. La sintesi produce astrazione.

Penso alla lentezza metafisica dello sbuffo filamentoso della segheria di Twin Peaks. La dolcezza estenuante del taglio della frese, immerso in una fotografia calda e straniante. E ancora Hopkins in Elephant Man cammina in un vicolo della Londra d’Ottocento invaso dagli effluvi fumosi di fabbriche di cui non sappiamo utilità e funzione. Più umane dell’umano nel loro dolce e categorico trascorrere sonoro.

Un uomo dal corpo di scaglie solleva una leva resistente nell’angolo di un edificio abbandonato: sentiamo stridii, scatti freddi e duri, supponiamo l’avviarsi di un ingranaggio di cui ignoriamo la localizzazione. Quella leva che “organo” avrà attivato? Cosa hanno fatto nascere quel rumore, quei rumori? In Eraserhead è il cinema stesso la natura aliena, il meccanismo dalle logiche sfuggenti e autoreferenziali.

Ecco dunque tornare al punto di partenza: dal cinema al cinema.

Se in Tempi moderni/Metropolis era Charlie Chaplin il prigioniero della macchina-fabbrica di cui si denunciava l’inumanità, ora è il cinema stesso la macchina, l’estraneo. Paranchi e carrucole vengono portati in scena e mostrati come spettacolo in sé, lo spettacolo di un meccanismo che si riproduce indipendentemente da noi.

Allora se vogliamo aprire una fabbrica, è indispensabile innanzitutto acquistare il rumore. Lo danno in una scatola speciale con aromi di detersivo e acidi.

Una fabbrica senza rumore per me non è niente. È la porta d’accesso, l’unica brutale mediazione fra l’uomo e la macchina. Serve ad un immediato orientamento dei sensi, alla riduzione di ogni ulteriore distrazione, all’assorbimento nella dinamica lineare del processo. Ti dice dove sei, quel che devi fare e, naturalmente, chi o che cosa sei in funzione del grande orologio.