I frammenti politici di Lapin

Presentiamo qui di seguito alcuni estratti dallo “ZiBook” di Lapin “In cuniculum”, edito da “Zibaldoni e altre meraviglie”.

I frammenti politici di In cuniculum testimoniano di un Lapin insospettato, un Lapin rivoluzionario, persino con sfumature quasi terroristiche. Da sottolineare la bizzarria dell’ultimo frammento, con la gita al luna park di Lapin e il pupazzo per ventriloqui Sancho, nel quale noi riscontriamo ben poca politica, ma che Lapin ha insistito perché fosse inserito qui.

 

Osservazioni sul comando

 

Il comando è indistruttibile non se l’uomo che lo detiene è invincibile (ciò non può essere) ma se l’uomo che lo detiene può immediatamente liberarsene e spostarlo su di un altro come nei giochi dei bambini. Nessuno è invincibile, quindi il comando sarà indistruttibile quando nessuno ne è il proprietario definitivo; invincibile sarà quindi ciò che è inafferrabile.

Parlando del potere, occorrerebbe porre attenzione al fatto che non si sta parlando di una cosa buona e giusta, ma di un abominio. Perciò dove manca l’abominio manca il potere; se la classe politica non esegue atrocità, significa che il potere è altrove. Sebbene per mantenere il comando, per esempio, sia assolutamente necessario eliminare gli avversari più pericolosi, nessuno più accetta che tale eliminazione sia pubblica; ma la sala di tortura e il cortile per le esecuzioni sono strumenti assolutamente necessari per il mantenimento dell’ordine, perciò anche oggi, da qualche parte, ci devono essere, solo che ormai l’esecuzione e la pubblica gogna non sono più un’occasione di festa. Vogliamo che il potere sia visibile solo per frammenti, cenni paurosi, minacce, metamorfosi, allegorie, parodie.

Meglio allora un ordine di potere in cui le forme della tortura siano specificate e precisate, piuttosto di uno in cui, dando per debellate tali forme, le si abbandoni all’arbitrio dell’aguzzino di turno?

 

In margine a Pirandello

 

La novella di Pirandello in cui un notaio rispettabilissimo si chiude nel proprio studio per far fare la carriola al proprio barboncino è la mitologia dell’uomo di oggi. La sfiducia in chi comanda è arrivata a tal punto, ovvero è scesa in zone dell’animo tanto lontane dalla volontà, che sentiamo di poter credere realmente solo alle parole scritte in segreto e tenute celate a tutti. Per un diario privato di Buddha, sarei disposto a mandare in cenere la sua intera impraticabile dottrina. Eppure, proprio come per quel notaio, il segreto in fondo non è che un luogo in cui si ha la libertà di essere stupidi. Tutto ciò che è contenuto nei documenti top secret non è ciò che è troppo complesso perché i più lo sappiano, ma ciò che è troppo stupido per farlo sapere a chicchessia. Per una serata insieme a Buddha ubriachi fradici, non so nemmeno dire cosa sarei disposto a dare.

 

Romulus

 

Un destino come quello del primo re di Roma può essere stato possibile o (che poi è lo stesso) può considerarsi possibile non tanto a causa della maggiore vocazione fantastica dei primitivi rispetto a noi, quanto piuttosto per la disponibilità, in quei tempi remoti, di un potere tale da reggere la pressione di un mito. Oggi, un uomo allevato da un lupo non potrebbe mai, semplicemente in nome delle circostanze straordinarie della sua educazione, essere eletto presidente della repubblica o presidente del consiglio, e non perché questo sembrerebbe stupido o ingiusto, ma più precisamente perché cariche come “presidente della repubblica” o “presidente del consiglio” riuscirebbero certamente troppo insulse per un uomo del genere. Per conquistare un impero degno del suo rango di orfano selvaggio, egli non avrebbe altra strada che il comando di quelle antichissime genti che perpetuano i costumi preistorici, dove il potere continua a respirare nelle sue lingue di fuoco: antichi ordini monastici nepalesi, tribù amazzoniche o masai, consigli d’amministrazione di multinazionali, clan mafiosi, caffè letterari.

 

Colpo di stato in 5 mosse

 

-Mossa n. 0. Il re che cede alla tentazione di esistere, ha già compiuto il primo passo verso la propria caduta. La mossa numero zero del colpo di stato spetta al re in carica.

-Mossa n. 1. L’inizio. All’inizio, la posizione del servo è la più vantaggiosa, oltre che la più pericolosa. È anche tra le posizioni più difficili da raggiungere, poiché il vero servo è colui che è sempre accanto al re. Durante questa fase, bisogna agire solo quando il re lo ordina.

-Mossa n. 2. La transizione. Nella fase di transizione, quando ci si prepara a diventare a propria volta re, è tutto un continuo viavai di messaggeri, spie, amanti e traditori; è il momento della potatura, durante il quale la propria identità viene cancellata dal contatto abrasivo con la corte e con l’intrigo. La potatura è infinitamente più importante della corte o dell’intrigo che pure l’hanno provocata.

-Mossa n. 3. La descrizione. Non c’è modo più sicuro per far precipitare un re, che quello di descriverne con lucidità la tecnica di potere. Tentato da questa descrizione, il re vorrà talvolta correggerla, talaltra invece, come se fossero i fili che legano una marionetta, si atterrà alle parole che descrivono la sua potenza, giudicandole esatte. In tutti e due i casi, finirà comunque con il rivelare il proprio segreto, diventando vulnerabile.

Sembra che allo stesso modo le tigri, se poste di fronte ad uno specchio, restino paralizzate.

-Mossa n. 4. L’eliminazione. L’eliminazione del re deve avvenire per mano altrui, e per motivi del tutto estranei ai propri. (Del resto, dopo la mossa numero due qualsiasi motivo o fine deve per forza di cose diventare estraneo e indifferente.)

-Mossa n. 5. La fine. Una volta preso il posto del re, ogni attività deve cessare; ogni decisione, ogni azione, ogni esibizione, ogni macchinazione, ogni pensiero, ogni ordine, devono essere aboliti, perché ora sono diventati dannosi.

Quest’ultima è la parte più ardua, quella dove quasi tutti si perdono.

 

(Appendice alla mossa n. 4 del Colpo di stato: Lettera di un padre amorevole al proprio figlio.

“Molte volte, nell’arco della vita, l’uomo è colto dalla fantasia di sterminare un proprio simile, ma sono molto pochi, rispetto a quanti provano tale desiderio, coloro che in effetti lo portano a termine, e ancora meno sono quelli che vi si preparano con pensieri e ragionamenti, qualunque cosa possano significare, in simili turpi tempeste, parole come “pensiero” o “ragione”. Eccoti dunque, figlio amatissimo, dopo la lettera sui tacchi delle scarpe e quella sulla gomma da masticare, una nuova lettera, dove troverai riflessioni e indicazioni attorno all’assassinio, quando tu voglia commetterne uno.

Si può voler uccidere la persona che in un dato momento è stata o è oggetto di odio, tale che la si giudica meritevole di morte; anche chi prova odio per noi, lo vorremmo assassinare per timore che possa nuocerci in futuro; a volte, d’altro canto, vogliamo uccidere anche coloro che sono oggetto non dell’odio ma del nostro amore, o coloro del cui amore siamo noi l’oggetto; volentieri, pure, si immagina di uccidere chi ci appare del tutto indifeso, come un vecchio o uno storpio; infine, può succedere di voler uccidere chi ci è del tutto indifferente.

Enumerate le vittime, passo a descrivere le specie dell’assassinio, e mi sembra che tali specie potranno essere solo due: e della prima specie saranno tutti gli assassinii la cui esecuzione sia di un qualche vantaggio a chi li compie, mentre alla seconda specie appartengono quelli che, portati a termine, non ne procurano nessuno; avrai cioè una specie di assassini che hanno un fine, e un’altra, in cui gli assassini eseguono il loro delitto senza un preciso scopo.

Delle uccisioni sacrificali praticate durante i riti religiosi, non terrai alcun conto, considerandole estranee alla natura del nostro oggetto, anche se uno potrebbe dire che ogni assassinio è in realtà un sacrificio eseguito per placare l’ira di un qualche dio.

Negli assassinii compiuti tenendo di mira un vantaggio, poi, occorrerà distinguere tre generi: quelli in cui il vantaggio è proprio, come in un assassinio per vendetta di un torto che tu abbia subito; quelli in cui il vantaggio è altrui, come in un assassinio che tu debba eseguire per conto di qualcun altro; e infine quelli compiuti contro uomini di comando, e in cui il vantaggio, dicono, andrà ai più: appartiene a quest’ultima specie l’assassinio politico. Tuttavia, tale sistemazione delle specie dell’assassinio dovrà tenere conto di un fatto che le rende in realtà tutte molto simili tra loro, ed è che, a quanto sembra, i più non possono eseguire alcuna azione senza che gliene venga un qualche premio: perciò vedrai che un uomo che uccida per conto di qualcun altro, vorrà sempre ricevere una ricompensa per il suo delitto, e d’altra parte l’omicidio politico è sempre eseguito o fatto eseguire dalla fazione che ne trarrà, o crede di trarne, il più immediato e consistente vantaggio. Pertanto, negli assassinii eseguiti con un preciso scopo, non si può dare che quello che compie materialmente l’assassinio non speri di ottenerne un qualche sia pur minimo vantaggio.

Un’altra distinzione andrà fatta riguardo la natura di questo vantaggio, che potrà essere materiale, come nel caso che tu uccida un uomo per impossessarti dei suoi averi, o spirituale, come chi decida di assassinare un infante per trarre piacere dal terrore di quello, o di assassinare un tiranno per salvare la propria patria.

Di tale genere spirituale dovette essere, per esempio, il vantaggio che venne dall’accoltellamento di Cesare da parte dei senatori, quale ci viene tramandato nelle storie della Roma antica. Di tali accoltellamenti probabilmente non se ne vedrebbero mai nelle odierne camere del senato, sebbene i loro componenti continuino a fregiarsi del titolo di senatori. Anche se i nostri senatori avessero il timore che il governo della repubblica stia scivolando verso la tirannide, infatti, sarebbero mai capaci di una congiura che avesse come scopo il pugnalamento pubblico del tiranno, nella camera del governo, davanti a telecamere e riflettori? credo di no, figlio mio, sebbene certo tali senatori odierni potrebbero, o forse già hanno potuto, organizzare una simile congiura, e provocare la morte del tiranno o di altri avversari: ma se ciò avvenne o avviene o avverrà, è sempre attraverso vie celate, e non pubblicamente. In tempi non lontani, si organizzarono le fucilazioni, che possono essere considerate un assassinio politico, ma che tuttavia non venivano quasi mai eseguite da quegli stessi che le avevano ordinate, e che pertanto sono anch’esse differenti dall’accoltellamento di Cesare.

Per venire al secondo punto della divisione che ti ho indicato, cioè quello dell’assassinio la cui esecuzione non provoca alcun vantaggio, né materiale né spirituale, si può dire che esso avviene, nella maggior parte dei casi, per un puro accidente, come può essere il caso dell’omicidio che gli uomini di legge chiamano colposo, o di un assassinio che, pur dovendo procurare un qualsiasi vantaggio, non ne ha procurato alcuno, come avviene di molti assassinii politici: e ti confesso di ritenere che l’assassinio politico vada posto a metà strada tra gli assassinii che procurano un vantaggio, e quelli che non ne procurano alcuno. Similmente, dirai che ogni assassinio, anche il più apparentemente distante dai luoghi del potere, può, sotto un certo aspetto, essere considerato un assassinio politico.

Sebbene la maggior parte degli assassinii privi di vantaggio sia dunque costituita da assassinii colposi o il cui scopo non è stato conseguito, all’interno della nostra divisione questi due generi sono da considerarsi di un tipo impuro, per così dire, inquantoché, sebbene effettivamente non abbiano prodotto vantaggi, tuttavia o furono eseguiti per un semplice errore, o furono concepiti per uno scopo, e se non l’hanno poi conseguito, ciò non significa che un tempo non l’abbiano avuto.

Dovendo comunque stabilire quale tra questi due tipi di assassinio sia da ritenere più puro, e cioè quale sia maggiormente privo di scopo, credo che sceglierei quello che, pur avendo uno scopo, non lo conseguì. Sembra infatti che all’uomo non sia concesso di agire contro la propria volontà, e pertanto gli assassini involontari vanno considerati alla stregua di chi, pur senza avvedersene, aveva una celata volontà di uccidere. E se tale segreta volontà è di certo presente in coloro che assassinano qualcuno in preda ad una qualche insanità mentale che li colga improvvisa o che li vinca dopo un lungo assedio, lo può anche essere in coloro che, in preda a un qualche genere di distrazione, compiono un gesto che finisce con il provocare la morte di uno o più, quando non di loro stessi.

Posta in tal modo la questione, è verosimile che l’assassinio che, una volta eseguito, non conseguì lo scopo per il quale era concepito, fosse stato, nel più profondo intimo di chi lo progettò, privo per l’appunto di tale scopo, e sia pertanto da giudicare più vicino al secondo punto della nostra divisione.

Per quel che riguarda le armi da usare in un assassinio, e coloro che le fabbricano, poi, attendi quella, delle mie prossime lettere, dedicata alle chitarre.

Rimane però ancora da stabilire cosa sia in effetti l’ultima specie di assassinio, quella cioè cui non è mai stato legato, fin dalla sua ideazione, non solamente nelle profondità dell’animo, ma anche alla sua superficie, alcuno scopo.

Un assassinio senza uno scopo appartiene a quel tipo di atti i quali vengono compiuti senza volontà, e la cui esecuzione, se hai ben meditato sul contenuto di questa e altre mie lettere, è preclusa alla moltitudine; quest’ultimo tipo di assassinio, pertanto, è quello che più raccomando a te, figlio amatissimo, come il più difficile da conseguire, e il più necessario di una profonda disciplina spirituale.

Gli alberi sanno forse delle loro foglie quando cadono? eppure tutti i giorni moltissime ne lasciano andare morte. Ecco, tu stesso sul flusso del tuo sangue non hai maggior controllo che sulla corrente di un fiume, e allo stesso modo dovrai regolarti nell’esecuzione dell’assassinio: dovrà accadere come ad un fiume che precipiti in una cascata, e, come il fiume non sa nulla del proprio percorso, né il fiore alcunché della propria bellezza, così anche tu dovrai compiere l’assassinio senza sapere nulla del tuo cammino verso di esso, come se in ogni momento il pugnale che tieni in mano dovesse servire semplicemente per forzare un barattolo troppo serrato, piuttosto che piantarsi nel cuore della tua vittima. Per far questo considera in ogni momento, figlio mio, che la via che porta all’assassinio è ritorta e piena di false svolte, e che dunque ogni tuo passo, ogni tuo più piccolo gesto, anche quando tu non ci poni mente, possono essere passi e gesti che ti avvicinano all’esecuzione dell’assassinio senza che tu lo sappia o ne abbia memoria, o anche essere passi e gesti che al contrario ti faranno sboccare in uno di quei falsi sentieri che, in apparenza, non conducono a nulla.

Solamente Dio, infatti, conosce la vera Via; tuo padre ti saluta e ti abbraccia.”)

 

Con il cuore in bocca

 

A volte viene e mi porta delle fotografie. Le tiene dentro una scatola per le scarpe. Gli piace fotografare i portoni delle case e gli uccelli quando si posano sulle gru. Me le fa vedere una per una e per ognuna mi spiega come l’ha scattata, e dove. Quando c’è n’è una che gli piace più delle altre, picchia uno contro l’altro i suoi denti di legno e mi dice “Ti piace questa, mamma?”.

Lui mi chiama mamma perché è pazzo, ma a me va bene, e a quel punto di solito me lo prendo in braccio. Per poter piegare la schiena ha una specie di mantice di cartone, e quando lo tiro su fa un suono da fisarmonica scassata. È spettrale.

Ogni volta che lo prendo in braccio succede che mi taglio contro una scheggia: chi l’ha costruito non era un bravo falegname. Poi lui chiude la scatola delle fotografie e stiamo un po’ in silenzio, a giocare alla mamma e al figlio, proprio una cosa da manicomio. Secondo lui sto anche cominciando ad avere quell’odore da malattia mentale, come di biscotti vecchi, e un giorno, semplicemente per mandarmi in bestia, mi ha regalato le pantofole nere che secondo lui fanno indossare a tutti quelli che hanno malattie nervose. “Sono per i tuoi nervi; scaldano i piedi”, mi ha spiegato proprio come se parlasse a un idiota, e io non riuscivo a capire come avesse fatto a risparmiare tutti i soldi per le pantofole, e non facevo che dirgli che il pazzo era lui, lui e basta, e andavo su e giù per la stanza come una tigre finché non ho picchiato in uno spigolo col mignolo del piede, e allora dalla rabbia l’ho preso e l’ho gettato nel fuoco, così adesso da una parte della faccia è tutto bruciacchiato, ma non l’ha presa troppo male; quando è di umore romantico, dice che il suo nome d’arte è Sancho Mezzaluna.

Dopo un po’ che lo tengo in braccio lui gira gli occhi di vetro (fanno un rumore come di piatti appena lavati) e mi dice “Fischia la berceuse!” e io gli fischio la berceuse e inizio a sentirmi di buonumore perché di solito dopo la berceuse andiamo al luna park.

Al luna park è sempre così:

All’ingresso incontriamo un tizio con un bastone da passeggio; non ho mai capito bene chi è, ma è un uomo del luna park; Sancho lo guarda e gli dice: “Questo luna park puzza di piscio”, e l’uomo senza nemmeno guardarlo alza il bastone e glielo picchia sulla testa. Poi entriamo. Dopo pochi passi, Sancho mi ferma tirandomi per i pantaloni e mi dice “Stai bene attento, Conejo”, e io inizio a tenere le risa; “stai bene attento, abbiamo pochissimi soldi. Pochissimi. Lo sai.” Se c’è una cosa bella, è proprio avere pochissimi soldi al luna park. Quando da piccolo andavo al luna park e avevo tutti i soldi che servivano mi veniva sempre da piangere. “Dobbiamo scegliere con attenzione, possiamo andare solo su una giostra. Solo una, capisci? Non possiamo sbagliare.” Così le guardiamo tutte, con calma, masticando le quattro monete che abbiamo e fischiando la berceuse, e siamo così calmi e attenti e abbiamo così pochi soldi che ci sentiamo più belli che mai. Arriviamo al carretto dei dolci. “Allora; per prima cosa il gelato, soldi o non soldi quello non deve mancare; eccoci; allora, voglio pistacchio e cioccolato; grazie; infilaci anche una di quelle bandierine di carta; no, questa è della Francia, non va bene; dammi quella lì; sì, quella; andiamo”.

Dopo il gelato inizia a tirare, perché siamo vicini alle montagne russe, e io devo mordermi le labbra per non ridere, perché alla fine scegliamo sempre le montagne russe. “Il gelato non si può portare”, gli dice il ragazzo delle montagne russe, e allora Sancho va dal primo bambino che capita e gli regala il gelato, intatto, ma si tiene la bandierina. Sancho non piace molto ai bambini, e non so perché accettino un gelato da lui, però lo accettano quasi sempre, e i loro genitori non hanno mai niente da obiettare. Sono cose che non capirò mai.

Partiamo.

Partiamo e dopo la salita quando il treno inizia a precipitare e ti senti con il cuore in bocca Sancho batte i denti in quel suo modo come nacchere e tutti urlano intorno a noi e io sono talmente rimbambito dal buonumore che mi vengono le lacrime e ogni volta penso che anche le lacrime fanno il giro della morte dietro la mia testa e Sancho alla mia destra è sempre più eccitato e agita la bandierina di qua e di là e batte i denti e anche se non ha senso ogni volta mi fa ridere quando nel punto più pericoloso della corsa strilla ridendo anche lui disperatamente: “Viva la repubblica italiana!”.

 

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