Grembo

Una filosofia esistenziale scritta da una donna che ha partorito sarebbe tutt’altra cosa. Non c’è un essere gettati nel mondo senza quel legame e quella sfera che comprende due esseri fino alla scomparsa di uno. Non c’è volontà e progetto di sé senza quell’ostacolo su cui si inciampa continuamente e da cui continuamente si prende respiro.

Lucien Freud

                                                    A mia madre

                                                    A Lidia Giancola

                                                    A Chiarina Cucchi,

                                                    in memoriam

 

Le madri finiscono di partorire i figli solo quando muoiono.

Per questo ogni essere umano è veramente nato solo alla morte della madre. A quel punto ha i contorni ben definiti, è a tutto tondo, è completo e concluso. Si regge sulle sue gambe. Non si appoggia più. Ha inghiottito il suo cordone ombelicale. Ha preso su di sé il suo baricentro proprio.

Una filosofia esistenziale scritta da una donna che ha partorito sarebbe tutt’altra cosa. Non c’è un essere gettati nel mondo senza quel legame e quella sfera che comprende due esseri fino alla scomparsa di uno.  Non c’è volontà e progetto di sé senza quell’ostacolo su cui si inciampa continuamente e da cui continuamente si prende respiro. Non si può dire l’esistenza che si dispone all’imprevedibile senza quella pre-definizione, quell’atmosfera che colora il mondo per il figlio. E dalla parte della madre, non c’è esistenza senza quello sporgersi verso il figlio, che le fa perdere i confini di sé e le rende impossibile scavalcarlo per conquistarsi. Ci sono madri assolute e madri che tentano la doppia identità, e madri bambine che eludono quel compito, ma comunque quel compito resta in dotazione alla loro pelle.

Fin lì non arriva nessuna emancipazione, che fa di tutto per negare questa doppiezza: come si può descriverla senza tradire lo sforzo di uguaglianza tra uomo e donna?

Il desiderio costante di cedere infinitamente al figlio – desiderio irrealizzabile, e nemmeno auspicabile, perché farebbe dei danni sociali – impedisce alla madre di essere del tutto ‘umana’ e ‘uguale’, dà a tutto quello che la circonda la tinta di quel ritrarsi costante, lasciare spazio, dando al figlio quel vuoto che deve riempire lui. E quando le donne esigono e rivendicano quello spazio, negano il parto continuo, l’aprirsi e svuotarsi continuo. Si muovono secondo identità non lineari, l’una che tradisce l’altra.

Ed essendo anche figlia, la madre cerca la soluzione nella carezza e nel tenersi bambina, ma non c’è scampo. L’analisi fenomenologica dell’esistenza della donna-madre includerebbe il paradosso che i filosofi ignoravano: il bilanciamento tra afferrare la propria razione di vita e lasciare la presa, tenere una parte di sé affamata e al buio, per dare luce. Il prezzo del contrario è troppo alto, cioè lasciare il figlio al buio e affamato.

In questo modo del vivere, l’esistenza di un altro è più ‘propria’ della propria. E non è questione di abnegazione. È questione fisiologica, di quella nascita che deve concludersi, di quella placenta che non si asciuga mai. È il grembo che circonda il mondo e gli dà senso, è dove si resta sempre un po’ dentro finché lei non muore.

 

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Forse nelle arti, o nel cucito. O alla scrivania. Su una sedia in un angolo, o nella stanza propria che si è presa con ostinazione, lei solleva quel peso, perché non danneggia nessuno e non costa molto. Si sottrae restando ferma. Si sa sempre dove trovarla, anche se lì può permettersi di essere figlia, che nasce.