Il dio dei miei figli

Sislej Xhafa, Misericordia

Un amico mi ha chiesto che cosa diventerà secondo me la religione in futuro.

Certo non sembra una cosa facile a sparire. Ma di certo si evolve, come ha sempre fatto. Ho pensato che sarà un credo da robot, non nel senso che i robot scriveranno la loro Bibbia o il loro Corano, ma nel senso che avremo perso quel rapporto di creatore-creatura che era poi una proiezione umana. Finito l’umano, finita l’idea della creazione. Ma visto che non si smetterà di credere, anzi, finito l’umano, credere diventerà importante, come lo è per i vecchi, per chi è sul punto o ha paura di morire, o per i bambini, che vedono muoversi le cose e dicono che è uno spirito, un angelo, un dio…

Dunque una religione-preghiera automatica, che serve per lenire e consolare. I credenti lo sanno, ma non ne possono fare a meno, anche perché non credere non è meno assurdo che credere.

 

Una religione automatica, sostenuta da pensiero ‘automatico’ senza un soggetto-ego-creatore-autore, senza prosopopea machista e guerriera.

Una religione che ride della meccanicità dell’universo, che non spiega perché qualcosa invece che nulla (Leibniz).  In fondo se una macchina pensa – tipo smart objects, ecc. – anche una divinità può essere meccanica e avere uno scopo nello stesso tempo. Che è poi quello che chiamiamo ‘automatico’, che cioè si muove da solo ‘come se’ avesse un’anima. Non ce l’ha? Ma sembra che ce l’abbia e poiché anche l’anima umana è una cosa che ‘sembra’ che ci sia, la attribuiremo anche all’universo, come facevano i Greci, o anche la biologa Lynn Margulis, quando dice che la terra è un organismo vivente. Un universo-divinità senza alto-basso, superiore-inferiore, vecchie metafore legate al corpo umano.

Il Dio trascendente è stata una battaglia vinta senza troppo sforzo. Ma credere resusciterà nei riti e nei morti, perché non siamo riusciti a distruggerne l’azione. I riti e i morti sono radicati nel corpo e nel corpo sociale. Sono i dettagli della nostra sopravvivenza. Non esisteremmo senza di loro. Accendere la candela, giungere le mani, abbassare la testa. Pratiche automatiche, senza interiorità. E i morti poi. Stanno in tutto quello che non capiamo ma che ‘sembra’ avere un senso.

Senza dio esistiamo. Cioè: esistiamo perché non abbiamo un dio. Un vero dio non permetterebbe la nostra esistenza. O anche: un dio esistente ci darebbe il privilegio del non essere, piuttosto che questo essere miserabile, dimezzato, tronco, patetico. A meno che non sia un dio cattivo… e via con i vecchi paradossi.

 

Penso che il robot religioso e forse i figli dei miei figli dialogheranno con una divinità non onnipotente, anzi tapeinòs, umile e abbandonata, come era definito il Cristo nei Vangeli, né paterna né buona né cattiva, ma alla pari, che si chiede, insieme ai robot, perché qualcosa piuttosto che nulla. Un’amicizia di mutuo soccorso, una debolezza ammessa. Una divinità né maschile né femminile, o che si chiama con nomi femminili e maschili. Magari nomi che ognuno gli dà, come si dà ai gatti, anche se non rispondono. Una divinità che vuole che gli entri dentro e gli dici chi è, sei il suo nemico e sei il suo complice. Ti chiede continuamente aiuto. Sarà una preghiera circolare tra l’essere robotico che saremo e lei che vuole che la chiami e le dici i confini del suo essere. Ti pregherà di darle il tuo alfabeto, perché sparga il suo balbettio tutt’intorno, per recinto e definizione. Vuole un soffio nel deserto per confessarsi.

Sei il figlio di un vecchio, balbetterà. Non ti appenderò a un legno, gli dirai.