Per Sganarello o la critica totale

Quello della critica letteraria ad opera dei romanzieri è forse uno dei rami più rigogliosi del grande albero rappresentato dall’arte del saggio. Se, da un lato, l’affinità tra il romanzo e il saggio è assicurata dalla comune attitudine anti-sistematica, dall’altro, spesso, sono proprio i romanzieri a rivelarsi i migliori saggisti di romanzo. In quest’ottica, la rivista francese «L’atelier du roman», a partire dagli anni Novanta, ha dedicato quattro numeri al tema «La critica ha bisogno di romanzieri?», l’ultimo dei quali è stato pubblicato nel settembre 2015. Per l’occasione, è stato chiesto ad un gruppo di otto scrittori e critici letterari di scrivere un articolo su un’opera saggistica composta da un romanziere, scelta sulla base di un sorteggio. A me è toccato Per Sganarello (Pour Sganarelle) di Romain Gary, un’occasione per riflettere sul romanzo e sulla pratica del saggio come arte. Qui la versione in italiano del mio saggio già pubblicato in francese su «L’atelier du roman». [S. C.]

Un incontro casuale

 

Cominciamo dalle circostanze perché i veri incontri, più che della volontà, sono sempre il frutto del caso. Quando il direttore de «L’atelier du roman» ci ha invitato ad affidare ad un sorteggio, stavolta, la scelta dei libri di cui scrivere, inizialmente avevo sperato che a toccarmi in sorte fosse uno di quelli che conoscevo meglio: nella lista, ce n’erano diversi che amavo e la cui lettura aveva, in alcuni casi, in passato, perfino cambiato il corso della mia esistenza. Per Sganarello (Pour Sganarelle) di Romain Gary, quello alla fine capitatomi, era invece nuovo per me; ne avevo sentito parlare, certo, ma non mi ci ero mai imbattuta personalmente. Tuttavia, proprio l’estraneità che, fino a quel momento, me ne aveva separato poteva forse costituire una risorsa in più nel mio approccio, incrementandone le possibilità di scoperta.

Se mi intrattengo sul racconto di questo episodio è perché penso che le circostanze che intervengono affinché, in un certo momento, diventiamo lettori di un libro in particolare, e non di un altro, concorrono sempre all’idea che poi ne conserviamo. Una lettura ci investe sempre totalmente; il tempo che le dedichiamo non è mai concepibile come separato da quello in cui spendiamo la nostra vita materiale: tutto concorre a nutrire il romanzo che sapremo ricavare dalla nostra esistenza.

Questo tipo di lettura, frutto della necessità profonda, che avvertiamo, e inestinguibile, a meno di amputare una parte preziosa di noi stessi, di interpretare ogni opera alla luce della nostra intera esperienza, è ciò che contraddistingue la critica di tipo saggistico – praticata da scrittori e romanzieri – da quella universitaria o giornalistica, che rispetta invece parametri rispettivamente scientifici e pubblicitari e genera dunque una lettura sempre parziale.

Per questo, solo dalla prima, dalla lettura totale, può nascere davvero qualcosa: questo è il primo dei segreti che, per il tramite casuale del nostro incontro, mi aveva suggerito, sin da subito, Sganarelle, il picaro al centro del saggio di Romain Gary.

 

Eros e Thanatos del romanzo

 

Per Sganarello è un’opera di circa 550 pagine, presentata dall’autore come una lunga «prefazione» ad un romanzo in via di compimento; dunque, più che un saggio sul romanzo, un saggio preparatorio al romanzo: «Ricerca di un personaggio e di un romanzo[1]», come recita il sottotitolo.

Quando lo scrive, nel periodo dal dicembre 1964 al giugno 1965, Romain Gary è già autore del premio Goncourt Les racines du ciel. Egli è allora un romanziere affermato che, a caccia di nuova ispirazione, trova l’occasione di dedicarsi ad una riflessione sul romanzo, da lui pienamente riconosciuta come un’arte indipendente.

Il principale ostacolo che Gary individua, come romanziere in cerca di ispirazione, è rappresentato da ciò che egli chiama la «Potenza»; con questo termine, Gary si riferisce alla presa che la realtà contingente è in grado di esercitare sull’immaginazione e al conseguente rischio, insidioso per tutti e particolarmente per gli artisti, di farsene completamente dominare.

Una delle conseguenze più nefaste provocate dalla pressione della Potenza sull’arte è costituita, ad esempio, dalla diffusione del «romanzo totalitario», come egli chiama quel tipo di romanzo basato su una concezione univoca della realtà. La prospettiva attraverso la quale questo tipo di romanzo guarda la realtà può essere politica, filosofica (come il romanzo esistenzialista di Sartre) o culturale (il «romanzo della morte del romanzo» di Alain Robbe-Grillet); in ogni caso, questa è presentata sempre come l’unica realmente rappresentativa delle sorti della cosiddetta «condizione umana» e, per questo, come l’unico soggetto romanzesco di cui ci si deve occupare se si vuole dare luogo ad un romanzo che sia utile al mondo.

Ne deriva che, in questi romanzi, la rappresentazione dell’uomo è ridotta sempre ad uno solo dei suoi aspetti possibili che spesso consiste nella proiezione di un ristretto «Regno dell’Io», corrispondente allo spettro delle idiosincrasie personali dell’autore.

La sostituzione del valore estetico con quello etico, che definisce lo status tipico dei romanzi totalitari, è spesso alla base dell’impressione di sterilità che essi producono: «L’etica, nel romanziere, equivale alle lacrime di coccodrillo dell’estetica».

Al romanzo totalitario, Gary preferisce un romanzo che punti invece ad essere «totale»; che abbracci la varietà dei possibili punti di vista sul mondo, senza confinarsi in una tesi.

L’unica etica che un romanzo deve rispettare consiste allora in uno sforzo di innovazione estetica. Allo stesso modo di Hermann Broch, l’autore di Per Sganarello trova che il romanzo non debba limitarsi a riflettere la concezione della realtà già proposta dai mezzi di informazione, ossia una realtà considerata appurata una volta per tutte e quindi già «morta», ma inventarne una: sviluppare una visione del mondo originale, che non neghi ma sintetizzi le contraddizioni, mediante uno sforzo di condensazione formale.

Mentre Broch rintraccia nel modello polistorico – capace di includere e fondere armoniosamente nella forma romanzo strumenti intellettuali e generi diversi –  l’espediente ideale al fine realizzare la «sintassi» delle diverse visioni del mondo possibili e pervenire così a ottenere «un’immagine totale della conoscenza», Gary si propone di realizzare un obiettivo simile attraverso un recupero del modello picaresco.

Quello immaginato da Gary è, però, un picaro che, oltre a passare da un’avventura all’altra, si incarni in una serie di identità diverse; questo espediente, che Gary mette in pratica nei suoi romanzi successivi, offre la possibilità di ricondurre l’esplorazione di molteplici possibilità esistenziali intorno ad un unico tema.

Sganarelle, personaggio simbolo della tradizione picaresca e a cui il titolo del saggio è dedicato, è così ripetutamente evocato e anche interpellato direttamente da Gary come custode della sua ispirazione.

Del picaro, Gary recupera anche l’attitudine comica. Questo perché l’unico modo di non soccombere alla «Potenza», ma di padroneggiarla è quello di contrapporre alla seriosità che contraddistingue il comune discorso sulla realtà l’ironia della tradizione picaresca; ciò che Gary chiama il «godere», quel desiderio di vita che, al di là di tutte le astrazioni, costituisce la prima vera esperienza basilare di tutti gli uomini e quindi la più essenziale.

Non esiste creazione che non sia generata dal desiderio; se il romanzo vuole presentarsi come «totale», quindi come un’invenzione dotata di senso autonomo, esso allora non può che rintracciare nel principio del godimento la sua matrice unitaria e assumerlo come cifra stilistica.

La percezione dell’armonia formale del romanzo ottiene l’esito di liberare i lettori dalla costrizione del contingente, spingendoli al cambiamento.

Il solo modo in cui il romanzo può essere utile al mondo è allora di tipo indiretto: esso consiste nell’impatto esercitato sugli uomini dalla bellezza, intesa come l’impressione di senso che il romanzo sviluppa attraverso la forma.

 

La critica totale

 

All’epoca della sua prima pubblicazione, Per Sganarello non riscuote un grande consenso. I critici lo interpretano come una sorta di pamphlet fuori tempo massimo: un j’accuse rivolto, in gran parte, contro altri scrittori della generazione di Gary (gli esponenti del cosiddetto nouveau roman, ad esempio, sono quasi tutti annoverati dall’autore tra i romanzieri «totalitari»), in difesa di una concezione di romanzo più tradizionale.

Per Sganarello si rivela, così, l’ennesimo dei «testamenti traditi»: interpretarlo esclusivamente come un pamphlet equivale infatti a fraintenderne la natura saggistica, quindi aperta e ipotetica, che lo caratterizza.

Nelle ultime pagine, l’autore lo spiega chiaramente: sua intenzione è stata quella di condividere «la speranza che nutro nell’immaginare l’avvenire infinito del romanzo e nel circoscrivere meglio le condizioni più propizie alla mia personale impresa»; l’oggetto di Per Sganarello coincide allora con un’«esplorazione di quello che penso e quello che sono»: obiettivo che definisce, lo si ricorderà, fin dai suoi esordi, l’arte di Montaigne («Sono io stesso la materia del mio libro»).

Se l’attitudine di Per Sganarello è quella propria di chi è in cerca di ispirazione, al contrario che conflittuale, quindi esclusiva, essa non può che essere la più comprensiva possibile.

L’esito di questa ricerca confluisce nei romanzi che Gary compone negli anni immediatamente successivi, La danse de Gengis Cohn (1967) e La tête coupable (1968); l’autore li raccoglie in una trilogia, dal titolo Frère Océan, il cui primo volume è Per Sganarello.

Un insolito accorpamento questo, che riunisce un saggio e due romanzi, a segnalare la continuità che Gary individua tra i processi di critica e creazione.

Da un lato, la consapevolezza della loro coesistenza non rappresenta una novità: le due parole, «critica» e «creazione», derivano dalla stessa radice indoeuropea «kar», che vuol dire, letteralmente, «fare».

Ogni romanzo lascia sempre trasparire la visione critica su cui si fonda; nei casi più espliciti, questa può assumere la forma del romanzo che riflette apertamente sulla raison d’être della sua arte (in Fielding, per esempio) oppure quella di opere, come La Ricerca di Proust che, inizialmente concepite come saggi, ne hanno conservato l’originaria componente meditativa.

Rispetto a questi esempi, Frère Océan rappresenta un caso singolare perché, nel portare allo scoperto l’interazione tra critica e creazione, ne rivela direttamente il rapporto di complementarietà.

L’oceano a cui allude il titolo della trilogia è probabilmente un riferimento alla metafora di cui Gary si serve per esprimere la sua idea della cultura. In Per Sganarello, questa è concepita come una sorta di grande bacino in cui confluiscono i capolavori dei diversi ambiti artistici ed è paragonata, in tal senso, ad un oceano. In tal modo, costituirebbe il filtro attraverso il quale la bellezza delle opere viene assimilata e restituita al mondo reale sotto la forma di impulso al cambiamento. Nella metafora dell’oceano si può cogliere forse anche un ulteriore riferimento alla continuità del processo ispirativo, inteso come slancio del pensiero che viene direttamente generato dalla riflessione critica.

Giunto alla fine della sua «esplorazione», Gary trova ciò che cercava: un tema, un personaggio e un romanzo da scrivere; gli sono venuti fuori direttamente «da questo movimento del pensiero inarrestabile da cinque mesi (…) ed è adesso verso il mio romanzo che mi dirigo».

Il genere di critica espresso da Per Sganarello è dunque quello della critica totale: una critica che non mira a comprimere l’oggetto della sua indagine (in questo caso, corrispondente al romanzo) in una definizione, ma a liberarlo, cioè ad esplorarne le varie possibilità; in tal senso, essa rappresenta lo stadio immediatamente antecedente alla creazione vera e propria.

Una critica, dunque, che non si chiude in se stessa e non si cristallizza in una teoria, ma si apre il più possibile. Se la teoria uccide (come scrive Gary, «non c’è mai stata nella storia della letteratura un’opera romanzesca che sia venuta fuori da una teoria del romanzo», dal momento che le scoperte teoriche sono sempre delle meditazioni sul «compiuto»), la vera critica crea.

Nel suo insieme, l’esame compositivo della trilogia Frère Océan (un saggio e due romanzi) rivela, da un lato, che un romanzo ha sempre una vocazione critica, la quale può essere manifesta, come in questo caso, o più nascosta; che un romanzo, dunque, non è «totale» se non è integrato dalla critica. Dall’altro, che la critica non teorica, quella saggistica, ha sempre una componente romanzesca.

Nel suo contributo al numero 50 de «L’atelier du roman» (Romanzo, saggio: affinità elettive), François Ricard ipotizzava che, oggi, la migliore scrittura saggistica è quella che si pone «nell’orbita o sotto la protezione del romanzo»; che è scritta come se fosse un romanzo.

Ogni romanzo – scrive Gary –, se potesse sognare, «si immaginerebbe realtà»; aggiungerei, la critica saggistica è allora quella che, mentre si interroga sul romanzo, si sogna già romanzo.

Poco importa se, alla fine, il romanzo a cui l’attività critica dà luogo si discosta dal progetto iniziale (è il caso de La danse de Gengis Cohn e La tête coupable, che corrispondono solo in parte alle idee esposte nel saggio).

Nell’immagine di un romanziere che va alla ricerca del suo romanzo mi sembra quasi di poter individuare un aspetto basilare dell’attività critica: il critico è un romanziere alla ricerca del suo romanzo, un attimo prima di arrivarci.  

 

Nascita di Afrodite

 

Di tutti i miti dedicati alla dea che rappresenta la bellezza, l’amore e l’arte, quello che preferisco è il racconto riferito da Esiodo: per vendicarsi del padre Urano, Cronos gli taglia i genitali, che finiscono nel mare. Dalla schiuma che si forma in acqua sorge una bellissima fanciulla, che prende il nome di Afrodite. Questa dea si conquista subito un posto speciale rispetto agli altri dei dell’Olimpo. Alla morale dominante, sostituisce infatti la sua propria morale: il perseguimento del piacere, come valore in sé. Per questo, è anche l’unica non veramente necessaria: a differenza degli altri dei, ciascuno preposto, in maniera diversa, al mantenimento dell’ordine stabilito, Afrodite se ne va ad instillare desideri negli uomini, il cui esaudimento genera spesso scompiglio ma senza i quali il mondo non presenterebbe l’aspetto interessante che ha.

Se il mondo non è ancora diventato completamente una trappola, lo dobbiamo ad Afrodite, principale baluardo a difesa della libertà, contro l’inferno della «Potenza».

La forza di Afrodite dipende, almeno in parte, dalla sua originaria componente caotica: il membro di Urano, che finisce per caso nel mare. Ma la dea è, al tempo stesso, figlia del mare, simbolo sempiterno dell’attività immaginativa in cui, per Gary, consiste il cuore di una critica vivente.

L’unione del caos con la ricerca di un senso: ciò che crea la Bellezza.

 


[1] Dal momento che il saggio non è tradotto in italiano, le traduzioni delle citazioni sono mie.