Je suis Charlie

di in: Filosofia portatile

Ho aspettato a occuparmi di questa frase, e non perché sperassi di cambiare idea. Posso imbrogliare, ma l’idea che mi sono fatto intorno a quella vicenda sta già scritta su un mio moleskine di tre o quattro anni fa e la ricopio: Charlie-Hebdo, la fine ingloriosa dell’illuminismo. La frase risale all’epoca delle prime vignette su Maometto, quando l’Al Qaeda allora in auge aveva minacciato di far fuori mi pare cinque ostaggi e di scatenare una guerra se non le avessero ritirate, e la risposta della redazione fu, più o meno: non ritiriamo un bel niente, in ossequio alla libertà d’espressione. La paralisi logica insita in un’affermazione del genere mi era parsa evidente: le vite umane contano meno della libertà d’espressione, la mia, beninteso, che abito nel VI arrondissement, ma pure di tutti quelli che se la possono permettere. Cosa vuoi che sia una vita umana se paragonata a un Principio Fondante?

Se non ne ho scritto prima è solo perché non volevo lucrare sui morti, come hanno fatto in milioni, grazie alla libertà d’espressione appunto e ai potenti mezzi forniti dai tycoon americani, anche loro del resto menti assai libere, nonostante l’uso di droghe. Grazie alla loro sapienza e bontà, a poco prezzo la libertà d’espressione si è diffusa in maniera capillare, e importa quasi niente se debba trascinare con sé anche sciatteria, obbrobrio, parecchia vigliaccheria e, necessariamente, odio.

Che formula accattivante la libertà d’espressione! Soprattutto se segue quell’altra che necessariamente viene prima, la libertà di pensiero e di opinione! La diade è senza alcun dubbio una conquista della civiltà moderna e occidentale, sinonimo di democrazia e di predominio della ragione, e figlia diletta oltretutto della triade di Valori che la governa e accudisce, quel Libertè, Egalitè, Fraternitè che abbiamo incisa nella pelle del cervello da due secoli e passa. Vale, la libertà d’espressione, più o meno che ognuno dev’essere libero di dire ciò che vuole, beninteso dopo aver pensato quello che vuole.

Peccato a questo punto metterci una citazione che sembra inceppare il meccanismo salvifico, una frase di un pensatore anarchico accuratamente dimenticato e facilmente derubricato a Gramsci anarchico, Camillo Berneri che già nel 1935 scriveva: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa”. Non è il ‘cosa’ si pensa quindi a costituire la libertà, ma il ‘come’ la si pensa, secondo tale visionario. Pensare ad esempio che al giorno d’oggi sia possibile pensare in modo che qualsiasi soluzione al pensiero non venga determinata a partire da come il programma è stato impostato, in maniera dunque divergente rispetto a quel programma, è un modo di pensare necessariamente determinato da come il programma è stato impostato, e quindi presuntuosa e fastidiosa tautologia. Nessun Copernico oggi sarebbe possibile, non c’è niente da fare, e chi crede il contrario va compatito. Nelle mutate condizioni cognitive e percettive nessun pensiero ce la fa più a ribaltare i termini del problema, può solo presumerlo, con dosi di arroganza sempre maggiore visto il serbatoio di paralisi logica a sua disposizione. Se la libertà di pensiero stesse dunque sul serio nel ‘come’ si pensa, come aveva intuito l’anarchico dimenticato (ma anche altri, Einstein per esempio, per il quale tutto era cambiato, già ai suoi tempi, tranne il nostro ‘modo’ di pensare), oggi non se ne avrebbe la facoltà, mentre il ‘cosa’ è merce inflazionata a tal punto che sono spariti gli ignoranti, vale a dire coloro che ammettevano di esserlo e magari e socraticamente potevano da tale stato affrancarsi.

Esiste sì quindi la libertà di farsi un’opinione, nella vasta disponibilità di quelle che ti hanno già preparato, con molte coloriture e varianti certo, ma solo in quell’ambito. La verità più vera è che nessuno vuole veramente ripensarsi, ridimensionarsi, nessuno vuole cambiare neanche di quel poco e per una semplice ragione: non può farlo, può solo pensarlo, ergo presumerlo. La parola d’ordine è non accorgersi di quanto l’ambiente mentale e umano sia profondamente e definitivamente mutato da rendere a dir poco inattuali e inadatti principi consolidati, che ora sono esausti o in stato preagonico, ed è per questo che la geremiade giornaliera delle lamentazioni e delle proteste, sulla perdita di valori ad esempio assume al massimo l’importanza di quella sulla scomparsa delle mezze stagioni.

Il principio numero 1 libertà-di-pensiero è quindi a brandelli, un residuo sfilacciato che solo la presunzione occidentale può ancora considerare operante ed efficace. Il principio 2 libertà-di-espressione invece è pienamente operante, ma senza la piena operatività del principio 1 è diventata espressione, anche accanita, di quello che in quel momento ti passa per la testa, e si porta appresso altre libertà correlate, quella di andare dove ti pare, di fare ciò che vuoi, di spensierarsi dalla vita e dal rispetto, di deresponsabilizzarsi, di non diventare adulti se non nell’ultima settimana di vita, nonostante le apparenze e nemmeno in tutti i casi. Quello infatti di cui mi pare ci si è accorti poco è che, non solo in questo caso, il principio si è astratto e distratto parecchio dalla sua primaria necessità, ora serve come scusa o giustificazione, come supporto alla presunzione di poter fare tutto e andare in ogni dove, rapportandosi al mondo unicamente in base a un altro principio ancora precedente, quello identitario che s’oppone al mondo e alla natura come meri oggetti al proprio servizio. L’idea base era infatti nata ben prima dell’illuminismo, quando Descartes dichiarava l’uomo padrone e dominatore della natura, e saranno in tanti poi a ribadirlo, Marx tanto per fare un esempio non a caso, per cui l’uomo civile “deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni”.

Alcuni esempi di tale paralisi logica? Di tale stato preagonico? Ce n’è bisogno? Ognuno ogni giorno ne può incontrare quanti ne vuole. Nello scorso anno in Trentino è stata uccisa l’orsa Daniza, giustiziata perché ha osato acciaccare la mano a un idiota che, incontratala nell’esercizio delle sue funzioni di mamma, invece di voltare i tacchi come sentenzia il buon senso da che mondo è mondo, voleva per forza fotografarla e postarla poi al mondo intero, in ossequio alla sua sacrosanta libertà d’espressione. Oppure, è stato calcolato che ogni anno arrivino alle case editrici italiane ben più di un milione di dattiloscritti di gente che non ha la seppur minima intenzione di leggere un libro, e se gli chiedete come mai hanno prodotto il loro romanzo ti rispondono che avevano bisogno di esprimersi; se poi gli chiedete come mai non suonano il violino per farlo, o dipingono ad esempio, vi guardano per quello che obiettivamente siete, un oscurantista, bieco oppositore della libertà di espressione.

Arriviamo quindi al tragico fatto, alla strage perpetrata dalla feccia umana nei riguardi della rivista che da cinquant’anni fa, o faceva, satira ‘stupida e cattiva’ come ci teneva a ribadire. Già in precedenti occasioni il grande disegnatore Wolinski, una delle vittime, aveva fatto notare come il direttore Stéphane Charbonnier sembrasse animato da un demone autolesionista e quasi suicidario, e come più volte il comitato di redazione di cui faceva parte lo avesse invitato a rivedere l’integralismo delle sue posizioni di fronte ai tagliagole, ai bevitori di sangue. È troppo facile collegare l’albagia, l’astrattismo dei principi della nostra post-democrazia, allargare il discorso al cupio dissolvi di una civiltà svilita e impoverita, come smaterializzata e privata ormai dalla possibilità perfino della più banale esperienza? C’è bisogno del papa per ricordare con la fisicità dell’esempio il valore, se non del rispetto, almeno del buon senso e della misura? Pensare che con un doberman rabbioso io mi possa comportare come con uno spinone sano e di buon carattere, in base al principio che come essere umano sono padrone del creato non appare forse come la spensieratezza dell’ebetudine? La verità è che i Lumi si sono spenti perché se non è ogni volta ricostruita sull’esperienza la logica si perde nell’assurdo, contraddicendo perfino il buon senso.

(Apprendo adesso che a Dallas c’è stato un tentativo d’attacco da parte di integralisti islamici a una organizzazione, di estrema destra, che predica esplicitamente la libertà d’espressione compulsiva, e per farlo aveva indetto un concorso per vignette su Maometto. Blasfeme, ça va sans dire).

Quello che è certo è che si fa presto a passare per reazionario a dire queste cose, lo richiede il protocollo, soprattutto perché ho volutamente tralasciato di parlare dei doberman malati e rabbiosi, della loro ferocia e neppure ho messo lingua sul carburante mitologico che ricevono dall’occidente. Però a me a sentir ripetere la pappardella del Voltaire del ‘non sono d’accordo ma difenderò fino alla morte la tua libertà di dirlo’ ormai mi stomaca un bel po’, soprattutto constatando lo stato mentale servile e derelitto di chi la dice. Neanche lì quindi ci si può più rifugiare. Ben lungi da quelli che vogliono distinguersi col Je suis pas Charlie, al massimo si potrebbe dire che Je suis Charlie oramai. O purtroppo.