Olimpiadi letterarie 2/ La serpentina

La serpentina permette, in senso metaforico, di eludere qualcosa di spiacevole (la richiesta della brigata, la bastonatura del signore) o di difficile. Non è detto che i due termini non coincidano e che quanto pone difficoltà e impegno diventi presto sgradito. Allora un risvolto più problematico della serpentina elegante e liberatoria avrà a che fare con la responsabilità.

di in: Captaplano

Il serpente, privo di zampe, si trascina ventre a terra; forse tale umile fatica rappresenta uno dei fattori della sua condanna a simbolo del peccato. “La mala striscia”, che in mezzo all’erba volge “ad ora ad ora or la testa e ‘l dosso” (Purgatorio, VIII, vv. 100-01) dà luogo a una forma cauta e attorta che giustifica la maledizione. Tanto più che all’improvviso può scattare micidiale. Il serpente per la verità può anche essere veloce nel movimento di transito. Le vipere dei deserti africani e nord americani, o del sud est asiatico, si spostano con un curioso e rapido movimento di contorsione laterale, poggiando solo alcuni punti del corpo, e lasciano sulla sabbia le tracce ondulate del loro passaggio. I serpenti di mare, invece, che manovrano la coda come un timone, ci regalano per un attimo le serpentine a fior d’acqua; le stesse spire dei rettili, quasi fossili multicolori, vengono offerte con la muta quali testimonianze d’una forma vivente da cui sono usciti con stagionale gioco di curve.

La serpentina si traduce nel calcio come dribbling ripetuto, nello sci come slalom. Il primo sport pare più interessante perché ha a che fare con ostacoli vivi, pensanti e reagenti, che solo grazie all’abilità del giocatore con la palla al piede si possono trasformare in paletti. Ciò determina un andamento più irregolare e imprevedibile, meno euclideo ed elegante forse, ma arricchito da quelle finte e controfinte piuttosto adatte a connotare il carattere del serpente.

Chi si occupa di disegnare serpentine in campo ricopre sempre un ruolo d’attacco; è un brevilineo che deve avere grande padronanza della tecnica, coordinazione ed equilibrio; in più un’enorme dose di spregiudicatezza e fantasia. Si tratta dell’antico numero sette, che preferisce i territori angusti e laterali del rettangolo di gioco, oppure del mitico numero dieci, quel guastatore che dal centro fa saltare in aria schemi e difese puntando sinuosamente alla porta. Spregiudicatezza anche perché la sua azione è sottoposta ad un elevato fattore di rischio. Se riesce a “saltare l’uomo”, come dicono gli allenatori, può creare una preziosissima “superiorità numerica”, ma se fallisce lascia la squadra esposta al contropiede avversario, attirandosi le ire della panchina e il dileggio dagli spalti.

Questa variabile impazzita della tattica in fondo infastidisce gli allenatori, che prediligono piuttosto ordine e organizzazione complessiva, come l’idiosincrasia della parole rispetto al sistema della langue, essa si accosta con naturalezza all’individualità dell’artista. Ecco perché la massa del pubblico delira per lui ma è pronta a serrare i ranghi e farlo a pezzi nel sacrificio in cui l’applauso copre le grida della vittima straziata.

Il rapporto contrastato che ogni diverso ha con l’autorità e la socialità, ma, si direbbe fin dall’inizio, con la natura stessa, madre e matrigna dotatrice di talenti maledetti. Un qualcosa di sadomasochistico lega il giocatore serpentino agli spettatori: un’attesa spropositata perché accada l’impossibile, che di per sé è ansia venata di sofferenza. Sì, dài, dài, e poi il primo dribbling, il secondo, la soddisfazione del desiderio, attraverso qualcosa di sviato, perché il serpente l’ha fatta ancora sporchetta, e c’è un po’ da vergognarsi per  essergli stati così addosso e insieme.

Anche con gli avversari la pacificata lealtà sportiva sembra lontana. Una cosa è difendersi da una manovra corale, prendere un gol in una confusa mischia, altra cosa è trovarsi trasformati in birilli nella parte di campo più aperta agli sguardi, dove è impossibile mimetizzarsi o collaborare con i compagni. Dopo un attimo di ottundimento ci si risveglia rabbiosi come per una prolungata e pesante pennichella o per una sbronza cattiva. La serpentina è stata “ubriacante”, dicono spesso i cronisti, riferendosi all’ebbrezza che ha preso il pubblico e alla sbandata dei difensori. Si tratta dunque d’una forma d’incantagione, simile a quella della spirale volante, sennonché basata su una rapidità vertiginosa del gioco di gambe, che fa ruotare in nausea l’installazione di optical art. Restare lì, magari seduti, o comunque scomposti, mentre il refolo di vento è già girato oltre fa sentire fessi, cosa che non piace a nessuno e tanto meno agli eroi degli stadi.

In più pare che la serpentina elettrizzi in eccesso il suo stesso autore, costringendolo alla ripetizione narcisistica. Padrone dello spazio, mago che cosifica gli uomini, domatore assoluto della sfera, la serpentina diviene la sua droga e come pista di coca ne insegue le ipotesi per il campo:

Reclusa tra le gambe e gli scarpini,

la palla te la porti fino al fondo:

finti il tiro, abboccano i terzini,

e senti le bestemmie in sottofondo.

E non finisce qui la tua invenzione!

Col piede liberato puoi crossare,

cerchi l’effetto, il tiro da campione,

ma di nuovo il terzino vuoi “umiliare”.

Queste quartine, tratte da La solitudine dell’ala destra sono dedicate da Fernando Acitelli a Claudio Sala, ala intravista nei ribelli anni Settanta, che passa per me il testimone al Bruno Conti del mondiale di Spagna e poi al Donadoni meno che ventenne amato in provincia, nonché ai cosiddetti fantasisti quali quel Maradona che offusca la sua semina d’inglesi con il secondo gol aiutato dalla mano de dios, o quell’incompiuto Roberto Baggio dell’estate 1994. Nella citazione si coglie bene l’insistenza gratuita e un po’ demente di fare e rifare la serpentina in modo intollerabilmente pleonastico; il dribbling “insistito”, secondo espressione leggermente infastidita degli addetti ai lavori, che tende a umiliare, con più o meno consapevolezza, gli avversari, irridere la tifoseria nemica. E quando sbaglia, o invecchia, s’incaponisce a vuoto, scatena la vendetta degli eterni sbertucciati e dei compagni di giardinetto che s’erano sgolati in “passa! Passa!”.

Insomma quando il fantasista, palla tra i piedi, improvviso cambia direzione, mandando a vuoto comico il mondo sul brusio del pubblico, non stiamo nemmeno nel campo dell’estetico. Certo, barocca come un ricciolo è la veronica, irridente la norma, ma vile sarebbe l’esibizione per gloria di una meraviglia, mentre qui si mette in palio patetico il possibile, tra il matematicamente necessario e il gesto del singolo. Da una parte si applaude questo eretico, dall’altro si condanna per la iattanza di chi capovolge la scacchiera e fa saltare il mazzo, scaricando a morte i fratelli. Con preci e sacrifici al Signore del giusto meccanismo s’invoca fedeltà ai passi del rito, alle sillabe dello scongiuro, perché non vada in pezzi un altrimenti inconcepibile cosmo.

Abilità, spregiudicatezza, fantasia irregolare, capacità di stupire e di incantare con l’imprevisto vanno a comporre la forma della serpentina. Nei film e telefilm americani degli anni Ottanta si produceva un gran spreco di lamiere con numerose auto inseguitrici finite fuori strada, incocciantesi tra loro, soffianti dal radiatore come balene infilzate dalla fiocina a causa dello spericolato zigzagare dei fuggitivi nel fitto traffico metropolitano. Al topos dell’inseguimento catastrofico-meccanico può corrispondere la fuga a piedi tra i passanti; già i piccoli borseggiatori alla Oliver Twist, sfruttando l’elasticità dei tendini e la figura minuta, sgusciavano alle prese di negozianti, scippati e poliziotti. L’attaccante che punta alla meta schivando i placcaggi dei difensori conferisce dignità sportiva a questo trafelato scartare. Più ponderati e dilatati nel tempo sono i tentativi dei fuggitivi nello western, quando girano e rigirano tra i deserti, rotte e fiumi con percorsi tortuosi che evitano i centri abitati, testardamente inseguiti dagli scopritori di tracce.

Insomma se dovessimo tradurre in parole il movimento a serpentina potremmo dire aggirare l’ostacolo, uscire brillantemente dalle strette come l’ala richiusa da due avversari nello spigolo tra linea laterale e linea di fondo. Dunque riuscire a sfuggire a chi già ti tiene tra le mani assume il carattere inequivocabile della beffa. Guido Cavalcanti, nella novella a lui dedicata da Boccaccio, si trova stretto tra le arche del cimitero e la brigata che lo vuole dei suoi, e se la cava con un motto: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”, a significare che lui dotto non si mescola con gli ignoranti, assimilabili ai morti. E un gesto aereo (“Posta la mano sopra una di quelle arche […] prese un salto e fussi gittato dall’altra parte […]”), che non a caso ha attirato l’attenzione del Calvino delle Lezioni americane quale epitome della leggerezza, va in parallelo alla parola. Conclusione: “sviluppatosi da loro se ne andò”.

Il disciogliersi con il singolo movimento nella nona novella della quarta giornata, sottolinea quanto sia possibile anche la serpentina della parola. Chichibio, il cuoco veneziano protagonista della quarta novella, si esibisce in un vero e proprio slalom. Offerta a Donna Brunetta come pegno d’amore una coscia della gru che stava cucinando, una volta servito in tavola Chichibio afferma, su domanda del padrone perplesso, avere quei volatili una sola “gamba”. E quindi che lo mostrerà dal vivo. Currado Gianfigliazzi lo prende in parola promettendo una solenne bastonatura se domani all’alba, recatosi alla palude, non ne avrà la prova impossibile. Il cuoco ha inizialmente buon gioco, mentre le gru stanno in riposo, a darsi ragione. Quando con una voce Currado le fa alzare in volo e mostrano perciò l’altra zampa, risponde – Messer sì, ma voi non gridaste “hohò!” a quella d’iersera: ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata come hanno fatto queste. – Currado, come un qualsiasi spettatore di calcio si stupisce e diverte del terzo, istintivo e più inventivo, dribbling del veneziano (tra l’altro termine un po’ datato per definire negativamente l’innamorato del pallone); la serpentina sfocia in libertà.

La serpentina permette, in senso metaforico, di eludere qualcosa di spiacevole (la richiesta della brigata, la bastonatura del signore) o di difficile. Non è detto che i due termini non coincidano e che quanto pone difficoltà e impegno diventi presto sgradito. Allora un risvolto più problematico della serpentina elegante e liberatoria avrà a che fare con la responsabilità. Klaus, il maggiore dei Fratelli Tanner di Robert Walser, abbozza così una lettera al giovane Simon: “Caro fratello, sembra che tu non voglia proprio mandare tue notizie. Forse le cose non ti vanno bene, e perciò non scrivi. Sei di nuovo, come già tante volte, senza un’attività fissa e regolare, l’ho dovuto apprendere con mio dispiacere e, per di più, da persone estranee. Da te, a quanto pare, non posso più aspettarmi informazioni sincere.”

Sembra però che il fratello minore con scuse, reticenze, bugie – insomma tutto l’armamentario a disposizione del dribblatore – non abbia alcuna intenzione di corrispondere alle attese di Klaus e piuttosto voglia far perdere le sue tracce. Nella prima pagina del romanzo lo abbiamo visto presentarsi in un negozio dichiarando solennemente: ”Voglio fare il libraio.” Sette pagine dopo, corrispondenti a otto giorni di lavoro, il giovane principiante svolge allo stesso, esterrefatto proprietario, un contro-monologo sull’angustia delle attività compiute, che trovano il loro deprecato simbolo nel piccolo scrittoio che gli ingobbisce la schiena. Ecco dunque Simon rifarsi vivo dal funzionario dell’ufficio di collocamento, che così lo apostrofa: “Lei ha cercato ripetutamente un posto da noi, si sarebbe tentati di dire che lei cerca posti con una rapidità inquietante”.

Presto si vedrà il protagonista cambiare vari mestieri, sempre però sensibile al mattino, al sole, alla campagna e alla notte che attraversa con vivace lena romantica. La flessibilità diviene in lui impalpabilità sempre sul punto di sciogliersi nel mobile paesaggio: “Che c’è di male a girovagare, anche se piove o addirittura nevica, quando si è in buona salute e non ci si preoccupa d’altro?”  Sembra in prima battuta un individuo particolarmente adatto ai nostri tempi di postmodernità equorea, con rapporti personali intensi ma effimeri, legami laschi con il lavoro, grande disponibilità a luoghi e situazioni differenti. Ciò sempre in impieghi da sottoposto, masochisticamente compiaciuto del comando che lo dirige e intrigato dalla dialettica servo-padrone: “A me fa piacere essere uno che dipende dalla benevolenza altrui, mi piace in genere dipendere da qualcuno, per voler bene a questo qualcuno e tender l’orecchio per sentire se non ho ancora demeritato la sua bontà. Bisogna assumere un atteggiamento particolare per questa condizione che è la più dolce delle servitù, un contegno che sta tra la sfacciataggine e la delicata, sommessa, naturale attenzione, e io lo conosco a meraviglia”.

Il rapporto con la scelta, la responsabilità è coscientemente sfuggito, costantemente lasciato sul posto con agile finta di corpo e di pensiero (“Lei non scorge nulla in me che indichi una determinata scelta nella vita. Io sono ancora sempre davanti alla sua porta, busso e busso, certo con scarsa irruenza, e tendo solo ansiosamente l’orecchio per sentire se viene qualcuno che voglia aprirmi il chiavistello”). Un atteggiamento che pare rientrare nelle categorie contemporanee tanto della sociologia del lavoro che della sociologia familiare, secondo la ben nota sindrome di Peter Pan, eterno adolescente che sposta sempre più in là, fluitando in una serie di forme serpentine, la collocazione definitiva. Certo che bisogna anche retrodatare questo primo, e tipico, romanzo di Walser del 1907 alla flânerie ottocentesca, metropolitana, o ancor meglio parigina, come la delineò più tardi Walter Benjamin. Lo spreco di talento, l’esaltazione del caso, l’orgoglio del gratuito fanno tutti quanti da corollario al sottrarsi di Simon alla dimensione sequenziale del lavoro. Del suo tempo, della sua morte. La serpentina si oppone appunto al dopo che, scontato e inesorabile, segue il prima in linea retta. Questo ondeggiare perpetuo mostra gli estremi confini della libertà personale: non avere niente, non essere niente:

No, no, Simon, per causa tua non piangerà nessuno. Quando te ne sei andato, te ne sei andato. Questo è tutto. Credi che per te si potrebbe piangere? Nemmeno per sogno. Non devi mettertelo in mente. Ci s’accorge che te ne sei andato, lo si nota, ma poi? Forse nostalgia, o qualcosa di simile? Di una persona del tuo stampo nessuna nostalgia. Tu non la susciti. Nessun cuore ti rincorrerà mai palpitante! Dedicarti un pensiero? Macché! Sì, con noncuranza, come si lascia cadere di mano una forcina, così, ogni tanto, si penserà a te. Del resto non meriti di più, anche se campassi cent’anni. Non hai il minimo talento per lasciare ricordi dietro a te. E non ti lasci dietro niente. Non saprei cosa potresti lasciare, perché non possiedi assolutamente niente.

La sottomissione in infimi incarichi, dove non c’è da pensare né da decidere, coincide con tale libertà nullificante: “Ma fare il servitore non è molto, non rappresenta proprio nulla, disse l’allegra ragazza. Lui non voleva rappresentare nulla, rispose Simon con dolcezza” (p. 169). Simon è un vero ideologo della serpentina che, in definitiva, si dimostra la forma più antiformale, perché è l’abbandono di tutte le forme date in un tempo e in uno spazio; così l’eleganza della serpentina che inebria il pubblico pare il mero profumo d’un calice di nulla bevuto per interposta persona dal più sregolato dei giocatori. Come nel coevo Pirandello dei romanzi e dei saggi, che ha fatto tesoro dell’élan vital di Bergson, la forma equivale alla morte e bisogna fingere di sottomettersi, ma nel contempo rimandare e rimandare grazie alla pseudoforma della serpentina:    

Non ho nessuna paura di prendere anche io una forma, ma formarmi definitivamente è una cosa che desidero fare il più tardi possibile. E poi sarebbe meglio che avvenisse da sé, senza dover averne proprio l’intenzione (p. 276).