Il coraggio di fare ammenda

Anche sul piano letterario, come già su quello biografico, Lajolo è stato dunque in grado di ripensare ad una posizione grettamente ideologica e con onestà fare ammenda, a testimonianza della serrata lotta tra schemi sovraimposti e riflessione individuale che ha caratterizzato gran parte del Novecento e di cui egli è stato protagonista con alterne riuscite.

di in: Captaplano

Calvino, nella sua introduzione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, scrive: “Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutto a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile.” E decide di rendere protagonista del romanzo un bambino, che poco capisce delle questioni politiche nelle quali è immerso, risultando quindi soggetto alla casualità della scelta; per di più il primo tra gli amici a cui mostra la pistola rubata al tedesco ed il luogo magico dei suoi giochi infantili passa dall’altra parte.

– Uno dei nostri ha tradito, – dice Kim. Allora l’aria si fa tesa come per un vento che tiri nelle ossa, l’aria del tradimento fredda e umida come un vento di palude che si sente ogni volta che giunge agli accampamenti una notizia come questa.

– Chi è stato?

– Pelle. S’è presentato alla brigata nera. Così, da sé, senz’esser stato preso. Ha già fatto fucilare quattro dei nostri che erano nelle prigioni. Assiste agli interrogatori di ognuno che vien preso e denuncia tutti.

A noi interessa tuttavia il transito opposto, che spesso negli scrittori di Salò diventa tema utile a evidenziare per contrasto la propria indefettibile coerenza. Carlo Mazzantini, il più brillante tra gli scrittori dell’altra parte, stila in C’eravamo tanto odiati un lungo elenco di intellettuali e no che sono stati prima fascisti e poi partigiani, operando una denuncia che per altro era già stata fatta, con ovvio maggior scandalo, dalla parte dei vincitori; per esempio da Ruggero Zangrandi, il cui ponderoso volume dei prim anni Sessanta, specie nelle Appendici relative alle responsabilità delle classi dirigenti, alla diffusa partecipazione ai Littoriali e ai Combattenti eroi e martiri della guerra di Liberazione che provenivano dal fascismo, creò accese polemiche. “Tutti… C’eravamo tutti in piazza o incollati alla radio quel pomeriggio del 10 giugno del ’40 in attesa delle decisioni irrevocabili che Lui doveva proclamare. Tutti.”, afferma reciso Mazzantini: gente comune, il suo narratore, il padre, Giorgio Bocca, “gerarchetto di partito, esaminatore della cultura fascista dei giovani aspiranti a un posto e brillante speranza del giornalismo sui temi della razza”, Edgardo Sogno, Arrigo Boldrini, “volontario nelle Camicie nere, quindi Capo manipolo della Milizia, scampato all’invio sul fronte libico del suo battaglione «Romagna» per una malattia che lo costrinse in ospedale”, Franco Moranino “tenente della Gioventù Italiana del Littorio che insegnava ai suoi balilla e avanguardisti” , Romano Bilenchi, Vitaliano Brancati, Elio Vittorini “ex squadrista e marcia su Roma a quindici anni, premiato nel ’39 con le duemila lire elargite a tutti gli squadristi per aver ben meritato dalla Patria e rappresentante della cultura fascista al convegno degli scrittori dell’Europa nazista a Weimar nel 1942 […] e artisti, scienziati, architetti, preti monsignori. Insomma c’eravamo tutti.” Al contrario il 25 aprile divenne “il giorno in cui fu offerta agli italiani, invece della opportunità di riconoscere, con un sano e virile esame di coscienza, i loro errori, le colpe, le viltà (e quindi di dare veramente inizio a una nuova storia), la scappatoia di scaricare su quella minoranza la responsabilità che spettava a tutta la Nazione.”

La veemente protesta di Mazzantini vuole insomma scrollarsi di dosso l’etichetta che valeva per tutti (“Ragazzi di sedici, diciassette, diciotto anni che del fascismo hanno vissuto soltanto i primi infantili gradini di balilla e avanguardista. Da un certo momento in poi, cioè quello della loro adesione alla Rsi, diventano loro i fascisti.”). L’enumerazione tanto focosa ha una sua forza retorica, ma nasconde le differenze che consistono nelle responsabilità diverse e nei diversi momenti della svolta: tra chi, dopo aver scritto su riviste del Regime, comincia per esempio a prendere la distanze dal fascismo all’altezza della guerra di Spagna, e chi la combatte insieme ai franchisti, si può operare qualche distinzione. Ed anche i più tardi ravvedimenti non avranno sempre avuto le medesime motivazioni, cosicché contrapporre in senso assoluto il disinteresse ideale dei vinti all’opportunismo dei vincitori, come fanno buona parte delle testimonianze di Salò, equivale alla generalizzazione opposta, cioè quella degli uomini e no, che tanto essi hanno denunciato. Certo i casi dei cosiddetti partigiani dell’ultima ora sono indifendibili e Mazzantini ha quindi buon gioco a rivelare che alcuni di coloro con cui si è scontrato per le strade di Milano il 25 aprile gli riveleranno poi di essere stati fino a poco tempo prima militi della Decima Mas.

Evidentemente, per gli altri, è avvenuto qualcosa di così importante da trasformarne la vita; a me, invece, cresce dentro lo sgomento e pare che tutta la sventura d’Italia mi pesi addosso. […]

Lungo le valli, lungo le colline, ai bordi delle strade, la primavera riempie di speranza.

Arrivano già i canti dei partigiani. Ormai le file sono ingrossate. […] E sui fronti di guerra i sovietici avanzano. […] Siamo in aprile. I parati si sono riempiti di margherite, i presìdi di partigiani. […] Comunisti vuol dire essere i primi nel combattimento, i primi nel rispetto della dignità umana, i più bravi italiani, i più strenui assertori dell’unità tra i partiti, tra le formazioni.

Dal 25 luglio della prima citazione, che segnala l’abbattimento morale di un fascista ormai isolato nel giubilo generale mentre il mondo gli crolla addosso, alla bucolica discesa dalle montagne dei partigiani comunisti mossi dai più puri ideali nella seconda citazione, è sempre la medesima voce, quella di uno dei nomi presenti nell’elenco probatorio di Mazzantini, Davide Lajolo. La sua esemplare curva politico-militare, viene da lui stesso presa di petto e ne struttura i due testi autobiografici: A conquistare la rossa primavera, stampato in una tipografia di Asti nel 1945 e, in una più profonda linea ripensamento, l’inequivocabile Il voltagabbana (edito nel 1981 al tempo della sua direzione de «L’Unità»), che si sofferma molto di più sul periodo dell’adesione al fascismo. Lajolo nasce a Vinchio d’Asti nel 1912 da una famiglia contadina, che conosce “la politica della zappa” e “i conti di casa”; sporadicamente orecchia frammenti di discorsi che parlano di “castigamatti”, “fine dei rossi” e degli scioperi dei tram. Il ragazzo mostra un carattere rissoso, testimoniato dal cambio di tre collegi, ma anche buoni risultati scolastici, perché conscio dei sacrifici che la famiglia, spesso in difficoltà economiche per i cattivi raccolti, sostiene per farlo diplomare al liceo classico. Fino ai sedici, diciassette anni non ha alcun interesse politico, se non una vaga irritazione per le differenze sociali che constata soprattutto vivendo da studente in città. Sarà un amico avanguardista a rinfocolare tali sentimenti con parole quali “scuotere il giogo dei ricchi”, togliere “la muffa al paese”, arrivare alla “vera giustizia sociale”, ovvero, come già aveva scritto in A conquistare la rossa primavera, “farla finita con i ricchi, con i raccomandati, con i vili”.

Ascoltando poi conferenze sull’ideologia fascista, percependo il sostegno degli intellettuali e della Chiesa, frequentando il Guf, approda in ritardo all’idea che “il fascismo era eccitante”, ovvero a quella versione cosiddetta di sinistra sempre guardata con sospetto dalle Federazioni. Di qui la scuola ufficiali, frequentata più per mettere a posto la famiglia che per desiderio di lotta: “uno stipendio e la fuga dalla noia”. Ed ancora la domanda nel 1935 per l’Africa orientale, tramutata nell’invio in Spagna dove resterà a combattere per due anni; a questo periodo risalgono le prime riflessioni sul suo essere fascista, benché resti l’attrazione per il discorso sociale ed estremistico incarnato per esempio da Ettore Muti incontrato in quella guerra. A questo periodo risale anche la stesura del romanzo Bocche di donne bocche di fucili.

Al ritorno, dopo aver rifiutato la carriera nell’esercito, gli viene affidata la direzione del nuovo settimanale della federazione di Ancona, che gli permette contatti con ambienti operai e con il malcontento diffuso contro i profittatori, tanto che un suo articolo, appoggiandosi su idee del per lui sconosciuto Eugenio Curiel, verrà citato anche dagli esiliati di Francia e Russia e gli procurerà qualche grattacapo con le gerarchie. Nel frattempo si avvicinava la Seconda guerra mondiale, a cui Lajolo parteciperà come capitano sul fronte balcanico. La situazione appare diversa, più dura e venata di disillusione: “Di politica non si parlava molto. Quando lo facevamo, erano colloqui disperati. Ci mettevamo a letto augurandoci la malaria. Almeno questa dava la febbre e non lasciava più pensare. Eravamo invecchiati di colpo.” Dopo il 25 luglio, che lo vede in congedo per malattia ad Ancona, e soprattutto a seguito dello sfacelo dell’8 settembre, in cui si rifiuta da graduato di far sparare sulla folla e vede gli ufficiali che “sono stati i primi a buttare la pistola e ad andarsene”, torna al paese. Inoperoso, angosciato e come in prigione, per diversi mesi sente “la disperazione di aver sprecato la giovinezza e l’amore ad un’idea che si era dissolta alle prime luci della realtà”. In questo periodo non ascolta gli inviti degli ex-camerati ad aderire alla Rsi, continuando così il suo percorso nel fascismo, perché ripensa in modo diverso la “vigliaccheria dei caporioni”, verificata nel Secondo conflitto mondiale e nel 1943, e valuta che ora un “gruppo di uomini e loschi interessi”  si mettono ora al servizio della causa nazista; viene maturando il distacco.

Il cambio di parte, come successo a molti, seppur tardivo, segue ad un decisivo incontro con una figura magistrale; in questo caso si tratta dello zio della moglie, sfollato, ex-ferroviere cacciato molti anni prima dal lavoro perché comunista. Curiosamente al centro dei colloqui è ancora il motivo del tradimento, non tuttavia quello di chi virtuosamente cambia partito, bensì quello subito ad opera del governo: “anche i giovani come te sono stati traditi da Mussolini, avete però ancora tutta la vita davanti per rifarvi, dovete anche voi saldare i conti con i responsabili del vostro inganno.” Al nipote, che ripropone la scelta consapevolmente autodistruttiva della guerra, lo zio ribatte: “è ancora una risposta fascista. La morte non si cerca, la morte non cancella gli errori, cancella soltanto la vita.” Con sincerità Lajolo scrive che poi la spinta decisiva, allo stesso modo che per gran parte dei partigiani della seconda ondata, venne dal bando di reclutamento di Graziani con annessa pena di morte; in quel frangente egli diviene il punto di riferimento dei giovani del suo paese e con diciannove di essi organizza nella primavera del 1944 una banda. Da allora comincia la vicenda partigiana di “Ulisse”, che deve però in primo luogo destreggiarsi tra le opposte ostilità e le profonde diffidenze dovute al proprio recente passato, finendo in un sostanziale isolamento: “Più cercavo di stringere rapporti, più questi si allentavano. Incominciò allora il periodo più oscuro della mia vita. Ero diffidato dai partigiani, pedinato per i miei precedenti fascisti. Anche gli amici più stretti, che da tempo mi conoscevano e che sapevano quali idee mi animavano ora, cercavano di non farsi vedere, di non farsi trovare, di non parlarmi.”

La parte più tormentata, dopo il lungo ripensamento interiore, consiste appunto nel farsi accettare da un comando partigiano che minacciava addirittura di farlo prelevare e sopprimere, mentre ex-camerati continuavano a cercarlo “con l’ansia di un fratello”. Chi cambia casacca, ed è considerato un traditore, presso coloro che l’hanno accolto resta infatti sempre avvolto dal dubbio che la scelta sia reversibile: “Si sparse infatti la voce che, siccome ero stato fascista, avrei fatto il doppio gioco [… ] Bisognava saper essere severi con se stessi: solo così si sarebbe superata la prova.” In effetti Lajolo in queste sue autobiografie narrative racconta senza eccessi di autoflagellazione, ma con chiare argomentazioni, un percorso di molti; e la parte più interessante dei testi risulta proprio quella introduttiva al partigianato: il resto è uno scorrevole resoconto di incontri e d’azione, come visto con qualche punta di retorica e di schematismo ideologico, specie nel primo romanzo. Si veda ancora quale esempio il postulato e storiograficamente fortunato legame con il la nostra epica ottocentesca, sulla base della clandestinità combattente e di un comune, spontaneo spirito patriottico che erompe in primis nel canto: “Davvero quella notte, con quei patrioti, nella valle nascosta, mi ritornò il ricordo delle congiure del Risorgimento […] L’entusiasmo rompe forzatamente il silenzio. Si alza un canto, un canto vecchio: il canto che dice la leggenda e la gloria dei volontari del Risorgimento: – Giuriam tutti, noi fratelli, noi fratelli, sì! Giunta quell’ora l’Italia a salvar, giunta quell’ora l’Italia a salvar”. Oppure la centralità del martirio, che mobilita le energie popolari, a partire da quelle della maternità dolorante ed indomabile (“Vuol mettere due fiori sul corpo di Gino. Il comandante la butta indietro, ma quella si fa avanti più decisa. – Sono la madre di un patriota che belve come voi hanno fucilato sulla montagna. Voglio portare questi fiori al caduto. Mi parrà di metterli su mio figlio.”) e dei compagni stretti nel patto di vendetta: “Pochi istanti prima di cadere m’aveva rinsaldata la sua fiducia, contava sulla mia azione. Contro il suo viso bianco di ragazzo morto avevo fatto il mio giuramento.” O ancora l’ode alla campagna natia, che sembra certificare, attraverso la fedeltà ad essa, quella al movimento che in essa soltanto può sopravvivere, alimentarsi ed infine prosperare: “Cara terra astigiana, così coltivata e così buona, con lo stesso colore del mio viso, profumata nei suoi fiori, candida nelle notti di luna quando i grilli intonano con voce stridula la loro canzone monotona. I ruscelli tra i boschi scendono ancora leggeri. La mia terra! Non potevo tradirla perché la sentivo dentro come la mia carne. Non potevo tradirla ed essa mi dava la speranza che tutto questo turbamento sarebbe finito.”

La stessa terra narrata da Fenoglio, contro cui Lajolo, con lo zelo del neofita e dell’ortodosso di partito che deve sempre dimostrare la propria fedeltà, duramente polemizzò negli anni Cinquanta. Così scriveva a proposito de I ventitré giorni della città di Alba (f.to Il libraio, in «l’Unità», ed. Milano, 29 ottobre 1952), già censurato dal Togliatti critico letterario: “Beppe Fenoglio […] esercita ad Alba il mestiere di procuratore presso una ditta vinicola. Noi non sappiamo se questo mestiere egli lo esercita onestamente, oppure vende vino annacquato. Certo è che in fatto di racconti non possiamo parlare di onestà, e questo libro lo dimostra.” Il giudizio sul nostro più grande scrittore di Resistenza fu più tardi sinceramente rivisto in Fenoglio. Un guerriero di Cromwell nelle colline delle Langhe (Milano, Rizzoli, 1978); anche sul piano letterario, come già su quello biografico, Lajolo è stato dunque in grado di ripensare ad una posizione grettamente ideologica e con onestà fare ammenda, a testimonianza della serrata lotta tra schemi sovraimposti e riflessione individuale che ha caratterizzato gran parte del Novecento e di cui egli è stato protagonista con alterne riuscite.