INTROIBO
La casa di campagna
con il suo ragno
da non molestare
mai lassù nell’angolo
e le guinee a pavoneggiarsi in vaso:
appena entrati in punta di piedi
tu tiri lo zaino
giù dalle spalle e il fiato sospeso
per tutto il verno che ogni cosa attende
rinnovando quel sogno
che durerà
vent’anni
o trenta giorni appena
Hai visto come giocano le figlie
tra i fiori? Ruzzano come caprette,
inscenano l’istante perfetto;
come quella volta sotto i lampioni
con i fiocchi e i compagni di scuola
a turbinare.
La quercia ai limitari del nostro
da lassù in alto snella le protegge
con le foglie intercetta il vento
come con tante orecchiette di Ermes
che le mezze parole di sconforto
ischerza e nella luce dissolve
Piace diventar lirici ai cittadini
tra quattro zolle d’erba,
osservare che balugina sghembo
il filo del ragno ogni tanto
e si fa metafora serva
di quanto c’è non c’è e appena afferro,
la banalità increspata del tempo
Credevamo che questo pezzo d’erba
perfettamente liscio e privo di periglio
fosse come lo racconta Orazio,
piccolo Eden senza serpente
che strisci avanti verso il nulla;
ma quando in guanti bianchi con unghie
il gattino balza sul caco
mentre la madre inciampa
sulla canna
viscida e verde come una biscia
anche il tempo vacilla
Insomma per la casa avita
non si tratta soltanto di durata
ma anche di quanto la vacanza tenga
fede al suo nome bianco;
guarda ad esempio i tre tigli immobili
gialli e neri come grandi turbanti
di matrone negre non sentono il tempo
non sognano la fuga
non sembrano nemmeno umani
come invece sono nell’enorme
dimenticanza
Qualcosa tra noi non va
ci dice, nel tempo andante, la casa
di campagna poiché è nel ripetersi
che spicca la variazione delle cose:
una lingua d’ombra o falsa lucentezza,
tra le foglie una manciata di prugne
per esempio mi porti
come pietre livide nella corrente
con il gesto scotitore
dell’estate
arido e fragrante
che ha però tra noi qualcosa di sospetto.
Vedi, la piccola natura
dell’orto e del giardino è infida
come uno specchio andrebbe oscurata
la nostra piccola anima
Si gira in tondo cercando la brezza
mentre stecchita al sole una vespa
pare il sarcofago d’oro ticchettante
verso l’oltremondo. Ma se ti guardo
dentro l’estate lunghissima e pigra,
in cui si rimanda a chi sa quando
l’impetuoso sfrenare di nubi
come fregi sullo scudo del cielo,
anche i segni si lasciano cadere
e questo vieto sentore montaliano
e il tu tra le labbra rimpicciolito
che come doppiofondo suona vuoto
Strane e pesanti placente
le zucche
pesano sulla terra;
diventeranno spettri cavi
per la festa estranea cappelli, sottovasi
e comunque ricordi
per ciò che ci resta in comune:
lo scherzo la morte, la generazione
Anche le palline magiche
induriscono con l’età come arterie
ed è forse meglio che inseguire
i loro schizzi impazziti:
ne ho trovata una nel prato,
residuo di qualche figlia piccola
incenerita nella luce degli ibiscus;
se la interrassi crescerebbe
buttando
verso l’alto come fagioli
e un nugolo di bimbi-folletti
sguazzando sotto il rubinetto
animerà tenera l’insalata
per noi vecchi di denti
CONGEDO
Non si legge non si scrive:
assolutamente arresi alla stagione
e a una dermatite atipica
che sfoga sulle copertine
di marocchino rossa.
La letteratura è la malattia
e la cura
e ancora la ricaduta.
Del resto si viene qui per difendersi
dal caldo, dai rimorsi
di non amare la casa dei vecchi,
finché in fondo al crepuscolo
brilla il ritorno al negotium;
per lasciarsi alle spalle come talpa
un mucchietto di pensieri e versi
smottati sulla terra
con la tarda
consapevolezza che niente
nemmeno tra noi resta indenne