Sono rimasto me stesso

di in: Filosofia portatile

Una delle poche cose confortevoli che mi sono successe nell’anno in corso è che non ho mai sentito, neanche una volta o a brandelli, la canzone vincitrice di Sanremo. Conosco il titolo, so più o meno di cosa parla, ma non l’ho mai sentita. Forse era meglio che non lo dicessi, potrebbe essere avvertita dai responsabili come una falla nella comunicazione, perché non credo sia mai successo a memoria d’uomo cioè mia che la canzone vincitrice non mi arrivasse in qualche modo, efficiente, furbo o subdolo non lo so. Forse è stata solo una fortuna, di piccolo calibro beninteso e come del resto mi si addice.

Naturalmente sapevo il nome del cantante, Francesco Gabbani, e avevo visto com’era fatto sui giornali e in tv. Questo mi ha aiutato a riconoscere di chi si trattava l’altro giorno, quando passando davanti a una libreria del centro ho visto muoversi un assembramento agitato, una specie di serpente che si mangia la coda e non sa perché, o meglio sa solo che c’è qualcosa lì al centro degno di grande interesse. Dato che ci tengo a credere di controllare tutto quello che avviene nella mia città (e visto che sotto sotto la considero abitata da usurpatori al titolo di abitanti di cui io e pochi altri siamo detentori), o perlomeno quello che trovo sulla strada quando non ho niente di meglio da fare mi sono avvicinato. C’era all’esterno uno strato enorme di ragazzine perlopiù, poi a fatica si distinguevano gli ‘operatori dell’informazione’ che occupavano il cerchio più interno e infine, dinoccolandomi parecchio sono riuscito a vedere lui, che usciva dalla libreria dove evidentemente aveva presentato non so cosa. Lui, Francesco Gabbani.

È sempre bello vedere qualcuno che in quel momento ha fortuna, quindi ho sbirciato a fatica, mentre lo intervistavano in dieci contemporaneamente, ma certo non sentivo nulla, anche per gli urletti delle fans. Non sapevo niente di lui tranne che era un vincitore, ne sapevo quanto ne so adesso del resto, l’unica impressione che sono riuscito a rubare è che non pareva ancora ben formato come strafortunato. Mi ha fatto l’impressione di uno in balia totale della sorte che gli stava capitando, euforico non è la parola esatta, gasato non basta, intronato nemmeno, partito sicuramente e non di ritorno fra breve. Uno che di botto si sente tanto amato, ancora più o meno incomprensibilmente. Sprizzava energia da tutti i pori, si sentiva benissimo come mai in vita sua, non sapendo che quell’energia non era la sua.

Queste lapidarie dichiarazioni moralistiche me le sono fatte mentre mi allontanavo, non c’era altro da cavarci fuori. Solo che il giorno dopo sul giornale ho letto il resoconto di una delle interviste che gli stavano facendo, l’ho letta perché l’avevo vista pur senza sentirne nulla, e a un certo punto calava dall’alto come una mannaia la domanda principe, forse la più importante del mondo: Pensi che il successo ti cambierà?

Cosa pensate che abbia risposto il ragazzo, perché pur sempre di un ragazzo si tratta? Sono rimasto me stesso, ha risposto è ovvio, il successo non mi cambierà…, è stata la risposta data con tutta l’ingenuità raccattabile. Ora, non essendoci il pericolo che il ragazzo in questione arrivi a leggere questa nota, posso dichiarare con tranquillità che non credo che nel vastissimo panorama delle frasi fatte ne esista una più cretina, oltre che palesemente falsa. Ma è altrettanto ovvio che il gradiente di verità non interessa a nessuno, e uno che ha successo può dire qualsiasi facezia, essenziale è solo che non se ne renda conto lui e quelli che pongono la domanda, ma di questo non c’è pericolo.

Che il successo, o la fama come si diceva una volta, sia una droga lo si sa fin da quando c’è aria. Di esempi ce ne sono a bizzeffe. Che come tutte le droghe faccia danni a lungo andare nella stragrande maggioranza dei casi è altresì stranoto, anche se si tende a non farci caso, forse perché tutti avremmo bisogno di un qualche aiutino per sopportare questa vita. Si potrebbero azzardare i termini di una definizione para-scientifica nel sentimento di onnipotenza sempre crescente (a patto che duri), addirittura in una percezione dello spazio e del tempo della vita ordinaria che vi vengono come sospesi. E, come per ogni altra droga ha effetti collaterali non da poco, l’assuefazione indotta prima di tutto (lunga sarebbe la sequenza dei ‘morti per fama’, vale a dire chi perde il favore di coloro che gliel’assicurano e finisce male), e poi, così dicono, una crescente condizione di esacerbata e profonda solitudine, cui si reagisce aggiungendo altri additivi, più concreti in questo caso. A volte, spesso, oggi si può dire sempre nel regime spettacolare nel quale viviamo alla fama si aggiunge un’altra droga chiamata Potere e le due diventano indissolubili proprio come all’uso della cocaina si unisce l’eroina, una fa supporto all’altra, e allora le cose si complicano ancora di più.

Ma dove volevo arrivare, se pure volevo arrivare da qualche parte, è proprio al regime spettacolare nel quale viviamo. Così come il potere, la fama in questo regime sembra avere ben altre caratteristiche, dovute alla folle moltiplicazione e alla frammentazione che tale regime comporta. Intanto ha ben altra caratura, mostra ancor più il carattere effimero, poi soprattutto sembra assumere tutte le caratteristiche di un percorso salvifico. Mi spiego. A me pare di intuire che la corsa al successo o almeno alla visibilità, le ventimila persone in coda per ore per essere ammessi ai talent o ai provini televisivi ad esempio, possa nascondere a sua volta una brutale intuizione, vale a dire che nel futuro prossimo venturo si riuscirà a vivere solo se ricchi oppure protetti dalla visibilità, condizioni che rilevano da molte di quelle incombenze che per la gente normale diciamo così diverranno insopportabili. La vita diventerà talmente difficile e complicata che solo chi è libero da molti dei gravami della vita quotidiana ce la potrà fare. Questa potrebbe essere l’intuizione che gli incolti, i brutalizzati potrebbero avere proprio perché incolti e brutalizzati.

Inoltre, si potrebbe aggiungere un altro effetto collaterale importante, vale a dire che nell’incertezza e nello straniamento identitario odierno il fatto di essere visti e riprodotti, e solo quello, può provarci continuamente di essere vivi al di là di ogni ragionevole dubbio. Si tratta però di un tipo di personalità che abbisogna di essere continuamente eccitata, e solo una breve pausa può metterla in crisi.

Ma c’è anche un altro aspetto della droga in questione che la distingue dalla stessa ma in epoche precedenti: la folle riproducibilità della propria immagine. È qui che la droga si fa dura e di quasi impossibile gestione. È ben diverso che tutti più o meno sapessero chi era Giuseppe Verdi ma quasi nessuno l’avesse visto. Per Giuseppe Verdi era molto diverso, intendo. Avere milioni di riproduzioni della propria faccia, del proprio aspetto esteriore, quali che ne siano le ragioni, non può essere indolore e lasciarti ‘te stesso’, non può non avere effetti devastanti, e non c’entra tanto l’opinione di te che inevitabilmente ti crea.

La cosa che sconcerta di più infatti è per esempio la progressiva e inarrestabile perdita delle proprie forze, delle caratteristiche peculiari, dei talenti individuali, sostituiti però dalle loro riproduzioni vuote che continuano a essere riprodotte e a riprodursi in altri successi. Che so, esistono delle cose al mondo che non si insegnano e non si imparano, metti ad esempio la vis comica. Se ce l’hai ce l’hai e nessuno te la può togliere, si potrebbe immaginare, e invece ci sono esempi su esempi di gente che non fa più ridere, mi viene in mente il trio Aldo, Giovanni e Giacomo che ha pagato la sovraesposizione della propria immagine con la perdita della capacità di far ridere che avevano, ma che viene agilmente riproposta e riproposta continuando a suscitare risate senza più senso.

Abbiamo tutti una mente in balia dell’esterno, che deve rispondere per forza, in maniera coatta quando non compulsiva a quello che le proviene dai continui stimoli, anche se non se ne rende conto quasi mai, anzi presume di avere un certo controllo su di sé. Non può fare altrimenti. È la cosiddetta mente-servile. Quando gli stimoli sono nostre riproduzioni che ci arrivano senza soste, come nel caso dei famosi, e tutta l’attenzione sembra coinvolta in questa centralità del mondo che siamo noi, noi finiamo per crederci, per dividerci, spezzettarci, sminuzzarci, e alla fine ciò che ci tiene uniti è solo l’esterno. Siamo ormai estranei alla vita, anzi è la vita che ci è estranea anche se tutto il mondo conosce il nostro nome e la nostra faccia e anzi proprio per quello, non esistiamo più, gusci vuoti, larve o, come pare dicessero fino a non molto tempo fa i primitivi ai quali volevi fare una foto, ci hanno rubato l’anima (e i primitivi al riguardo secondo me la sapevano lunga). E sono proprio quelle immagini ad aver spento ogni ardore.

Eppure la risposta alla domanda, Pensi che il successo ti cambierà?, continua a presentarsi imprescindibile, unica, inamovibile, dall’aspetto eterno. Cose esistesse un ‘me stesso’ altrettanto inamovibile vita natural durante. Come se avesse la nostra faccia uguale vita natural durante. Ma questo è ben altro discorso.