Gino/ 21

Riprendiamo, a partire da oggi e dal Capitolo Ventunesimo, la pubblicazione di Gino, il romanzo inedito di Francesca Andreini. Chi volesse leggere i capitoli precedenti, può cercare negli archivi della prima serie di Zibaldoni e altre meraviglie.

di in: Gino

Belli neri

I fascisti correvano su un’auto scoperta. Un grappolo nero che cantava a squarciagola. Tutti giovani, tutti contenti, esaltati dalle parole e dalla velocità che li portava a spasso per il paese. E a tutti i pedoni gridavano: “saluto al duce!”, e quelli si irrigidivano col braccio teso.

Anche Gino, ben disciplinato, balilla perfetto. A qualcosa saranno servite le mattinate in cortile a passare e ripassare i saluti e le marce, i canti, gli alt! Lui il balilla più scalcagnato, col fez fatto dalla mamma con la stoffa di una tenda rigirata e che c’aveva un colore diverso da quello di tutti gli altri. E la nappa della tenda penzoloni, troppo lunga, giù sulla faccia. Non c’era verso di marciare virilmente, conciato così, e l’insegnante gli urlava: “vergogna!” .

A questo pensava Gino mentre con la coda dell’occhio vide Franz sollevare maestosamente il cappello e fare il più profondo dei suoi inchini.

Rigido, ancora più impettito e duro si mise impalato con lo sguardo fiero verso il cielo e un maschio destino. Avrebbe voluto essere alto due metri, largo come un armadio e nero come la pece per coprire quell’imbecille che se ne stava quasi prostrato a terra a sventolare le tese verso le ruote.

Che stridettero e si bloccarono.

Gino chiuse gli occhi, ancora col braccio teso. Sentì i tonfi dei piedi e una voce beffarda: “non si saluta il Duce?”

Gino trattenne il respiro, si tese ancora più.

“Ma io saluto…”.

“E fai lo spiritoso”.

“No, gentile signore…”.

“Gentile, io? E chi te l’ha detto che sono gentile?”

“Io attore, saltimbanco…”.

“E quel cretino, che fa?”.

A Gino arrivò una pacca sulla nuca.

“Basta, te ne puoi andare”.

Gino dette uno strattone leggero all’asino e quello lo seguì per la strada.

Accanto, in silenzio. Tutti e due a capo chino.

In fondo alla via ebbero il coraggio di voltarsi e di vedere cinque camicie nere intorno a Franz. Che, più alto di tutti, provava a sbracciarsi e improvvisare, come sempre.

Nella strada cominciava a soffermarsi qualche curioso.

“Che c’è? Non c’è niente da vedere!”.

Li scacciavano le camicie nere.

Poi si caricarono Franz sulla macchina e ripartirono a tutto gas.

Il rumore rimase a lungo fra i muri delle case. Solo il rumore. Perché dopo pochi secondi era come se non ci fosse mai nemmeno passato, uno che si chiamava Franz e che faceva l’attore e saltimbanco, prestigiatore e mago.

Ai passanti non gli sarebbe mai venuto in mente che lì, pochi istanti prima, una macchina s’era ingoiata un uomo. E il respiro di Gino.

Come vivere senza battiti. Fermo nel tempo, con un niente in testa e un nulla davanti agli occhi.

Se non fosse stato per l’asino, chissà quanto ci sarebbe stato, lì a fare il tonto in mezzo alla strada.

Ma poi quello si mise a tirar la corda, col collo basso, per cercare l’erbetta alla base dei muri.

E Gino lo seguì verso la periferia e verso i propri pensieri.

Non ci poteva credere, che fosse cambiato di colpo tutto, per quella stupidaggine del saluto…

Era cominciata così bene, quella giornata. In una raggiera infinita di riflessi dorati, all’alba di un giorno radioso, tiepido e profumato.

Con la primavera che spruzzava colori dappertutto e gli animali e gli uomini in armonia col creato e in lotta solo coi loro istinti bassi e grevi, che non gli facevano venire voglia altro che di stare sull’erba a far l’amore tutto il giorno.

Una mattina che il cielo era indaco e i fiori sgocciolavano essenze giù dalle siepi. Le api ronzavano e i pollini volteggiavano leggiadri.

Franz si era stirato sorridendo.

“Stasera andiamo a prendere ragazza”.

Gino si era sentito girare la testa e visioni rosa, tenere, panciute e rugiadose di giovani schiave l’avevano preso come crampi alle cosce.

Quasi non osava parlare, tanto era bello quel momento d’attesa. E fra i denti sibilava appena domande vaghe, mentre gli sfilavano nella testa corpi d’ebano e corpi d’avorio, capelli biondi e rossi e i suoi preferiti, belli neri.

“Non manca tanto”, rispose Franz a una domanda che Gino non si era nemmeno accorto di fare.

“Dovremmo esserci fra poco, a Arezzo. E lì cerchiamo di una bettola… ‘Dalla Gegia’… dove ci dicono della ragazza”.

Poi in silenzio, o fischiettando, coll’asinello a pesticciare il selciato e i loro piedi leggeri come pensieri avevano camminato fino alla città. La prima, dopo quasi un anno.

A Gino non gli sembrava nemmeno più di saperci camminare. Fra la gente, tutta insieme, tutta di corsa e il vociare; canti e ruote, fruste, cavalli, camionette e carrozze. I bambini, correvano sempre così, tutti insieme, un grido acuto e compatto che si avventa nel primo mattino?

Lui si muoveva piano, come potesse rompere qualcosa. E nonostante questo tutti gli sbattevano addosso, lo chiamavano, gli fischiavano. “E sta’ attento, ‘io diavolo!”.

L’asino di colpo un impiccio tremendo e Franz troppo grosso, troppo alto, troppo vestito come un bandito dei monti.

Un ingombro, una macchia, un intralcio nei rivoli spumanti della città. Ecco cos’erano loro tre.

Fino all’osteria della Gegia.

Lì tutto era fermo e stantìo, piccolo, un po’ scuro. Un seminterrato umido coi tavoli e le sedie ammuffiti.

Non c’era nessuno e avevano mangiato in pace, serviti dalla Gegia che sorrideva a Franz.

“E voi che ci fate, da queste parti?”

Con la durezza più dura dell’accento aretino. Ma si capiva che era contenta.

Franz che parlava e beveva caffè. Parlava e parlava e inventava tante di quelle avventure che avrebbero passato loro, insieme al ciuco, che anche Gino si mise a ascoltare e ridere, battendo una mano sul tavolo dall’eccitazione, da come si divertiva.

La Gegia ascoltava e rideva contegnosa. Forse perché c’aveva i denti gialli e sfatti, più i pezzi che mancavano di quelli ch’erano rimasti.

Però li fece mangiare bene e dopo mangiato gli offrì anche un po’ di tabacco a Franz, che si poté accendere la sua pipetta e spandere finalmente un po’ di buon odore aromatico intorno, invece degli sbuffi sterili di sempre.

“E ragazze? Ce ne sono?”.

La Gegia stava asciugando un po’ d’umido dai tavoli intorno. Ma davanti agli affari seri si sedette, si fece una sigaretta e l’accese guardando Franz negli occhi.

“Ma la vuoi, una davvero brava?”.

Franz ci pensò su.

“Per me, più brava è meglio è… basta che si adatta…”

Gino la ragazza la vedeva nuda, davanti ai loro occhi esaminatori, a testa china in un profluvio di capelli neri e lunghissimi.

“No, perché una brava io la conosco. Una con esperienza”.

Nuda davanti a loro a testa alta, e uno sguardo di sfida negli occhi, un’altera prostituta araba coi bracci ricoperti di argento.

“Sì. Ma sa starci, sulla strada?”.

Una gitana ribelle, legata per i polsi e le bizzarre vesti colorate mezze strappate.

“C’è vissuta, per la strada. Saranno trent’anni che viaggia. Ma sempre sola”.

Una barbona vecchia e sfatta. Coi capelli stinti e arruffati sulla faccia di cartapesta…

Franz fumava e valutava, puffava sempre più in alto lunghe scie bianche e leggere.

A Franz gli si era chiuso lo stomaco. C’aveva quasi voglia di vomitare.

“A me va bene. Quando la posso conoscere?”.

No! La barbona! Ma che se ne facevano?!

Gino s’era ammutolito e imbronciato per il resto della mattina. Aveva fatto le prove con Franz, nel cortile della Gegia, per preparare i numeri di quel giorno. Sempre in silenzio e a muso lungo.

S’era ripreso, poi, quando erano andati al mercato. Che era un bel mercato delle pulci con tante cianfrusaglie e pochi bellissimi antichi oggetti. Parecchia gente, pulciosa più della merce, a cercare pentole ancora buone, o tavoli scortecciati, sedie rimpagliate. E qualche rigattiere intorno ai mobili belli, con l’aria di chi c’è già tornato un paio di volte, a vedere e valutare, e che ci sarebbe tornato ancora.

Poi erano buoni gli odori. Perché c’erano le bancherelle coi panini di porchetta grassa e calda e cialde appena tolte dalla piastra che facevano girare la testa, dal profumo.

Anche il ghiaccio raspato nei bicchierini di carta, gli pareva che avesse un odore.

Troppa confusione, troppa distrazione per parlare di poesia. E anche per far ridere la gente.

Franz si spogliò a torso nudo e si sparse un po’ d’olio addosso. Fece anche due trecce alla barba e spettinò i capelli sulla testa e sul viso.

“AAAARRRGHHHHHHH”.

Al suo urlo i passanti sobbalzarono e anche Gino, che non se l’aspettava. Un barbaro incatenato con due giri di possente e lucido metallo. E un lucchettone scintillante in bella vista.

Portentoso, Franz, riusciva a strabuzzare gli occhi e sbavare come un prigioniero rabbioso.

Gino lo guardava ammirato e divertito da un po’, quando si ricordò la sua parte.

“Signore e signori, illustre pubblico!”.

Si sgolò con quanta più forza trovasse, sventolando in aria il cappello di Franz, che si dibatteva furiosamente fra le catene.

Gino strillò del grande germanico, fra gli uomini più forti al mondo, che oggi avrebbe tentato l’impossibile. Spezzare un doppio giro di solide, nuovissime catene.

E così fece, dopo che s’era radunata abbastanza folla intorno ai suoi spasimi e contorcimenti intrecciati di urla e imprecazioni in tedesco.

Poi con la faccia al cielo e le vene a rigare il collo gonfio, i denti digrignati in rabbia e sforzo estremo il grande germanico si inginocchiò e chiuse gli occhi alla folla iniettata di fatica.

Si spaccarono con un colpo secco e precipitarono sferragliando a terra.

“AAAAAAAAAAAAAARRRRRRRRRRRRRRRRRGGHHHHHHHHHH!”.

Un urlo ancora più disumano, di vittoria, si alzò dal grande germanico e quasi coprì gli applausi e i fischi d’entusiasmo degli spettatori.

Franz faceva larghi giri a passi lunghi, gridando e battendosi il petto, ringhiando in faccia alla gente che si spostava intimorita e rideva.

Gino lo seguiva col grande cappellone teso a raccogliere qualche spicciolo e un paio di sassolini.

La gente se ne stava per andare, quando Franz ruggì di nuovo e chiamò a sé tutti i passanti. Per farsi veder ingoiare tutta una lunghissima spada.

“Di ferro antico di Spagna, forgiato dai saraceni nelle acque del Guadalquivir!”, urlava Gino, mentre Franz gemeva e sbuffava nell’appoggiare la lama sulla lingua. Per poi immobilizzarsi, fisso e concentrato, mentre sfiorava le morbide pareti della gola.

Tutti fermi, tutti zitti. Non volava più una mosca. Occhi orecchi e bocche ammutoliti sulla scena seria e pericolosa.

Quando Franz la sfilò, sempre lento e accorto, una signora si sentì male, e due uomini l’accompagnarono controvoglia a rinfrescarsi.

La lama fuori, a scintillare al sole, uno scroscio d’applausi e i mormorii contenti di chi ha visto qualcuno rischiare la vita.

Il giro fu più fruttuoso questa volta e la gente non fece per andarsene aspettandosene una ancora meglio.

Che arrivò subito, il tempo di ingollare un po’ di benzina e di accendere una torcia. Gli sputi infiammarono l’aria in vampe lunghe e stridenti che sfioravano i cappelli della gente.

Ci furono un paio di urletti di paura e un bell’applauso ancora prima degli inchini.

Finirono lo spettacolo con una bella cappellata di soldi.

Così se ne andarono in una trattoria fresca e pulita e si cavarono un po’ di voglie dallo stomaco. Cacciagione e pane bianco, vino e dolce.

Poi a dormicchiare sotto un albero, mentre il ciuco si rotolava nell’erba tenera a gambe all’aria.

Ecco, era cominciata così, quella giornata. Sole e odori buoni e soldi a cappellate.

E ora all’improvviso c’era solo una gran confusione per le stradine strette e un po’ d’afa dopo la giornata di sole. Franz chissà a patire cosa. Il ciuco stanco che tirava sulla cavezza.

Adesso gli toccava anche cercare questa vecchia vissuta per strada, a lui da solo. E perché poi? Tanto, senza Franz non se ne faceva nulla, della barbona.

Ma la Gegia aveva proprio insistito.

“Io ho preso l’impegno per voi, a telefono. Non mancate e non arrivate tardi, lei non gli piace aspettare i comodi degli altri. Vi aspetta alla pensione ‘Cosetta’. Ci dovete per forza passare davanti per andare e riportare la roba”.

A un suo amico fabbro, che faceva le catene tagliate e che a loro, eccezionalmente, gliele aveva affittate invece che vendute.

La spada e le torce invece, erano della Gegia. Di un suo fidanzato di passaggio che l’aveva dovute lasciare lì perché lei l’aveva beccato con una sgualdrina in una delle stanze. E siccome lo inseguiva col coltello per le carni lui s’era buttato ruzzoloni per le scale e per la strada e aveva lasciato lì le sue cianfrusaglie.

Bene per loro, che avevano guadagnato in un giorno più di quanto ci faceva Franz con l’Ariosto in un anno.

“Ma io non faccio quelle cose. Non è artistico”.

Peccato, perché a pancia piena Gino si sentiva un artista e un signore.

Giornata lunga, faticosa. Anche l’asino era sfinito e lo guardava col grande occhio buono e gemente.

Ma non poteva tornare dalla Gegia senza quella barbona. La Gegia, in pegno, s’era tenuta la loro roba.

“Non faccio figuracce con la gente. Se trovo un ingaggio trovo un ingaggio. Sennò va a finire che da me non si ferma più nessuno. Vai e trova la ragazza, che ti aspetta. Poi la porti qui e se Franz non è ritornato ci parlo io, del lavoro. Tanto, massimo domani lo mettono fuori. E lascia questa roba!”.

L’urlo gli fece cadere di mano la spada ritraibile, che già da qualche minuto Gino si divertiva a far andare su e giù. Facendola scomparire fino al manico e poi di nuovo tutta in fuori.

La Gegia la raccolse dal tavolo e la portò via. Non la dava volentieri. Chissà, un ricordo.

Allora eccolo lì davanti alla pensione ‘Cosetta’, che era piccola piccola e un po’ scalcinata.

Gino con l’asino in mano, ma dove poteva metterlo? Si sentiva strano e ridicolo. Non poté nemmeno entrare a cercarla, la barbona; dovette far andare qualcuno a chiamarla.

E mentre aspettava c’aveva voglia di scappare. Tanto, di quella vecchia non gliene importava nulla.