Se Dio non è morto

di in: Inattualità

Oggi l’economia è diventata una fede,
una religione. Quindi bisogna diventare
degli ateisti dell’economia”

Serge Latouche

È come se avessimo perduto alcune capacità. La capacità di profanare, ad esempio, che è legata direttamente all’esperienza. Si arriva a profanare quando si ha una chiara percezione, e quindi è possibile una esperienza, di ciò che è sacro, quando si sa come e dove stanno le cose, certe cose.

Allora è come se noi non sapessimo più come e dove stanno certe cose, perché il sacro è come senon esistesse più nella nostra vita. È forte la sensazione che addirittura il funerale del Papa trasmesso in mondovisione o la decisione del medesimo Papa morente di far esporre la propria salma davanti alle telecamere, non siano affatto espressioni di sacralità. Se il sacro ha a che fare con la religione, infatti, e se la religione è ciò che per definizione è separato dal mondo umano, allora funerale ed esposizione non sono più eventi sacri, ma qualcos’altro di molto più prossimo alla nostra vita, e anche di più inquietante.

Di questo qualcos’altro è palesemente chiaro che non è possibile parlare in termini di profanazione, perché se non lo riconosciamo come sacro, non abbiamo nemmeno bisogno di profanarlo, ma al limite di capirlo e di pensarci su. Pertanto se qualcuno accusasse me, ad esempio, di stare facendo qui discorsi blasfemi, io potrei mettermi a ridere. Oppure tentare di spiegare così come segue le mie idee, magari partendo da questa frase di Walter Benjamin: “Dio non è morto, ma è semplicemente stato assorbito nel destino dell’uomo”.

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Profanare, nell’antichità classica, era un atto significativo che perfino i giuristi romani conoscevano e riconoscevano. Colui che profanava restituiva all’uso comune degli uomini, cioè all’ordinarietà, ciò che in precedenza era stato separato nella sfera eccezionale del sacro. L’aspetto più importante da cogliere in questo meccanismo, spiega Giorgio Agamben in Elogio della profanazione (in Profanazioni, Nottetempo, 2005), è una specie di dialettica perpetua, in cui era immersa la vita degli antichi, tra sfera del sacro e sfera del profano – dialettica attualizzata nella pratica rituale del sacrificio. La religione, da questo punto di vista, “non è ciò che unisce uomini e dèi, ma ciò che veglia a mantenerli distinti”: religio viene piuttosto da “rileggere” che da “raccogliere”, in quanto allude all’ansia che sorge nel momento in cui bisogna porre estrema attenzione nel rispettare e osservare anche a livello cerimoniale la separazione tra sacro e profano. Tale separazione funziona dunque come un sistema a due poli, “in cui un significante fluttuante transita da un ambito all’altro senza cessare di riferirsi al medesimo oggetto”. Proprio grazie a un sistema del genere, necessariamente ambiguo, la convivenza tra uomini e dèi è assicurata. L’animale sacrificato, ad esempio, può essere spartito equamente: una parte sacra per la divinazione, una parte profana per essere mangiata. Distinti e separati, potremmo dire che uomini e dèi nel mondo pagano convivono e comunicano scambiandosi oggetti e comportamenti.

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 “Pura, profana, libera dai nomi sacri”, sarà dunque la cosa restituita all’uso comune umano. Ma come si fa a profanare una cosa sacra? Nella cerimonialità religiosa, anche semplicemente toccandola. Nel momento in cui una cosa sacra viene “toccata” è come se si mettesse in gioco un particolare comportamento negligente, perché è come se ci si dimenticasse che quella cosa è sacra, cioè che èseparata nella sfera del sacro. È lo stesso meccanismo del gioco. Il gioco è il principale “organo della profanazione” perché giocando noi tocchiamo tutto ciò che è sacro o serio, dimenticandoci della sua sacralità o serietà separata, e lo utilizziamo in maniera nuova e sorprendete, capovolgendo così l’ordine stabilito. Quando c’è mito senza rito, o rito senza mito, allora c’è gioco, spiegava Benveniste: quando, cioè, il sacro viene “salvato” – non semplicemente abolito – nella sfera del gioco. Con il gioco noi facciamo un “nuovo uso” dei contesti e dei racconti sacri perché li profaniamo, cioè profaniamo la loro sacralità separata. Non a caso i bambini sono i più abili ed agili profanatori di ogni sacralità e di ogni separazione: nelle loro mani tutto viene riusato in maniera sempre sorprendente, divenendo gioco.

Ora non si dimentichi che la profanazione ha senso soltanto se messa in relazione con il suo opposto, con la consacrazione.

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La dialettica sacro-profano comincia a esser messa in discussione nella sua struttura separata, ambigua e “a due poli”, dal cristianesimo, che la farà propria in maniera particolarissima, attraverso l’elaborazione dei dogmi della transustanziazione e dell’incarnazione, con cui si provvederà a inserire dio nell’umano e l’umano in dio. Da questo momento in poi le sfere del sacro e del profano sono come sottoposte a una sintesi, ma forse sarebbe meglio dire che sono condannate a una perenne confusione. Confusione che, “con l’ingresso di Dio come vittima nel sacrificio”, mentre mette in crisi appunto la separazione tra sacro e profano, in quanto “la sfera divina è sempre in atto di collassate in quella umana e l’uomo trapassa già sempre nel divino”, afferma un altro tipo di religiosità e una nuova idea di sacro e diseparazione.

A questo punto, Agamben ci chiede di seguire una sorprendente riflessione di Benjamin in un frammento del 1921. Secondo Benjamin, il capitalismo si sviluppa come un parassita del cristianesimo, per cui la modernissima ideologia funzionalistica e mercantile del consumismo di massa altro non sarebbe che una attuazione del più puro spirito cristiano. Inoltre, i grandi profeti della modernità – Nietzsche, Marx, Freud -, che in apparenza sembrano i più severi critici del sistema capitalista, non sono altro che i suoi profeti, cospirano in profondità con le sue dinamiche e condividono con esso la “religione della disperazione” che impedisce qualsiasi tipo di vita estraneo a quello della logica mercantile.

Il capitalismo, secondo la tesi di Benjamin, funziona innanzitutto come una grande religione, fondata su un culto perenne: il culto del lavoro – o della produttività, come diremmo oggi. La particolarità di questo culto è che esso non è espiante, bensì, paradossalmente, colpevolizzante. “Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa”. Esattamente come nei dogmi dell’incarnazione e della transustanziazione, di cui il cristianesimo si armò per assorbire e annullare le ambiguità del paganesimo.

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E proprio come nei dogmi della religione cristiana, così anche nella religione capitalista la confusione delle sfere – in funzione di un rinnovamento e in vista di una nuova sacralità -, raggiunge il suo culmine nell’annullamento mercantile delle differenze tra giorni lavorativi e giorni di festa. Il vorace capitalismo ha bisogno infatti che il suo culto non si interrompa mai, e che il Tempo sia unico e completamente alienato: esiste l’industria del tempo libero perché anche quando siamo “liberi” dobbiamo produrre e consumare. Ogni cosa, attività, azione deve essere separata da se stessa e trasferita nella cupa e asettica sfera del profitto e del consumo, dove ogni uso durevole è impossibile (le merci non durano) e dove tutto ha un aspetto serio, fisso e perfetto, come l’immagine di un prodotto in un depliant pubblicitario.

Nella sfera del consumo le cose devono essere possedute perché sono soggette a distruzione. Se l’uso, infatti, ha una relazione precisa con l’inappropriabilità, il consumo (abusus) non “è che l’impossibilità o la negazione dell’uso”, e quindi l’affermazione più recisa dell’idea di possesso.

Ma il prezzo che si paga per aver ridotto tutto a consumo, è ormai chiaro a tutti. La “mostruosa coscienza colpevole” che abita nel profondo della nostra anima è definita dalla disperata consapevolezza di non avere più un tempo per viaggiare, di non avere più un tempo per far festa, di non avere più un tempo per giocare, per scrivere, per parlare. La vita sembra che stia sempre da un’altra parte, qui c’è solo un lavoro da fare o una funzione da svolgere. Questa consapevolezza è disperata perché non ci salva, perché la confusione o scissione che si è creata serve solo a farci sentire colpevoli e inadeguati, o al limite a metterci in esposizione per qualche minuto come fenomeni da baraccone. Il mondo è pieno di disperati, ma ormai anche la disperazione fa spettacolo e si vende bene.

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Si capisce, allora, perché “profanare” è diventato oggi quasi del tutto impossibile. Perché se tutto – anche i funerali dei Papi e i loro corpi morti – viene separato nella sfera unica del consumo e dello spettacolo pubblicitario (l’altra faccia ineludibile del capitalismo odierno), allora niente si può più “restituire all’uso comune”, semplicemente perché non si dà più alcun “uso comune” della vita. Le cose, le azioni, i comportamenti, nel momento stesso in cui vengono separati nella sfera del consumo, diventano qualcos’altro: diventano degli Improfanabili. E “la religione capitalista nella sua fase estrema”, dice Agamben, “mira alla creazione di un assolutamente Improfanabile”, cioè di qualcosa che ha l’aspetto innocuo di una pubblicità o di una canzoncina, ma in realtà è una mostruosa Chimera. Per quale motivo? Perché l’Improfanabile consiste nell’abolizione dei ponti tra visibile e invisibile, tra sacro e profano – abolizione che consente la sopravvivenza soltanto a ciò che è incasellabile in uno spot televisivo o nei discorsi preordinati dai mezzi di comunicazione di massa.

“Assolutamente Improfanabile” vuol dire separato dalla vita come in un sistema religioso qualsiasi oggetto o comportamento sacro viene separato dalla sfera mondana e profana; sottoposto quindi alle regole di una religione – le regole del mercato -, ma allo stesso tempo reso intoccabile perché quelle stesse regole non ammettono profanazioni, cioè non hanno una sponda dialettica – ad esempio non hanno un altrove (“l’occidente è dappertutto”, Serge Latouche) -, né prevedono una usabilità comune, in quanto regole fisse e immutabili.

Perciò se oggi si prova anche solo a mettere in discussione le regole del mercato e dell’economia, si viene presi per pazzi molto più che se si mettesse in discussione l’esistenza di dio.

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Si potrebbe fare una rassegna degli Improfanabili che abitano ormai stabilmente nella nostra vita. Una rassegna, cioè, di modalità e costumi attraverso i quali la vita viene separata sempre più da se stessa, dai suo usi comuni, dal senso comune, per essere trasferita nei territori della pubblicità e dell’apparenza consumistica.

“L’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel Museo”, nota Agamben. Ma quello che è ancora più importante è la mueseificazione del mondo che ci circonda, cioè la riduzione a Improfanabile di sempre più oggetti, luoghi, comportamenti. Il turismo di massa, ad esempio, ha reso impossibile qualsiasi uso comune dei luoghi, percepiti ormai sempre più attraverso le vedute Improfanabili trasmesse dalla società dei consumi e dello spettacolo. Basta recarsi in una qualsiasi città europea (ma anche in Africa, oramai) per capire che “l’occidente è ormai dappertutto”. Cioè l’occidente con i suoi Improfanabili, con la sua ansia di creare delle gabbie visuali o degli schermi, la cui funzione principale è quella di impedire qualsiasi profanazione, cioè qualsiasi esperienza diretta e non pilotata. Tutti sappiamo infatti quanto sia faticoso e arduo ormai “vedere” a Parigi qualcosa di diverso dai suoi monumenti, o in Africa qualcosa di diverso dalle maschere rituali e dalla povertà – o qui nel mio paese qualcosa di diverso da “un paese del Sud”. Per questo il semplice esercizio dello “sguardo comune” appare come una delle azioni profanatorie più significative da praticare oggi. Lo “sguardo comune” è una specie di grimaldello utile per sfuggire alle prigioni consumistiche, per “profanare l’Improfanabile”, che infine, come sostiene Agamben con inconsueto pragmatismo, “è il compito politico della generazione che viene”.

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Impedire l’uso comune, ostacolare le azioni disinteressate, annullare i giochi (non i quiz televisivi, ma i “mezzi puri”, cioè i comportamenti umani senza un fine utilitaristico) è l’obiettivo principale dei dispositivi capitalistici tesi alla “cattura dei comportamenti profanatori”. I dispositivi mediatici, tra gli altri, hanno come obiettivo nientemeno che la cattura dell’uso comune del linguaggio (il “mezzo puro per eccellenza”, secondo Agamben), e forse non c’è bisogno di tanti esempi per constatare una cosa del genere. È sotto gli occhi di tutti quanto sia diventato difficoltoso e inessenziale lo scambio linguistico, sempre più rinchiuso negli alvei dell’utilitarismo e della spettacolarizzazione. Il mondo ridotto a prosaiche rappresentazioni giornalistiche concettose e senza fantasia, è un perfetto Improfanabile, forse il più perfetto di tutti. Un mondo che non rimanda ad altro che a se stesso, autoreferenziale e avulso dalle immaginazioni individuali, ma perfettamente inserito in quello che il mercato richiede all’occorrenza: un po’ di speranza, un po’ di impegno, un po’ di sogni risciacquati, un po’… di tutto. È come se la tendenza all’Improfanabile condizionasse ormai anche il pensiero, al punto che le opere letterarie più “riuscite” non riescono a competere con il più scialbo dei quotidiani che ci riferisce “notizie” sempre nuove e ci avvince molto più e meglio di un abile romanziere. Se una volta i giornalisti modellavano la loro prosa su quella degli scrittori, è indubbio che oggi avviene l’esatto contrario, perché è la prosa dei giornali a fornire sempre più spesso a quelli che ancora chiamiamo scrittori, modelli linguistici e spunti narrativi.

Ma non è solo nella lingua dei giornali che viene catturato il linguaggio in quanto “mezzo puro”: anche in tanti libri più o meno di successo, in manifestazioni scientifiche più o meno ordinarie – così come nella scuola modellata su astruse teorie tecnico-aziendali piuttosto che sull’esperienza. “A scuola si insegna la lingua ai bambini come se si mettessero degli attrezzi in mano agli operai”, diceva Deleuze.

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Adesso forse capiamo meglio anche la frase di Benjamin – “Dio non è morto, ma è semplicemente stato assorbito nel destino dell’uomo” -, che sembra quasi un ribaltamento della famosa sentenza nietzscheana. Dio non è morto perché è l’uomo occidentale stesso che ormai si identifica con dio: questa identificazione ha dato luogo agli Improfanabili, cioè ha reso nulla l’operazione del profanare secondo l’antica logica “a due poli”, giacché non si può restituire all’uomo ciò che già gli appartiene.

“Profanare l’Improfanabile” è allora un’azione paradossale o estrema: essa fa riferimento alla capacità di restituire all’uso comune la nostra stessa soggettività divinizzata con tutti i suoi ammennicoli, se così si può dire. La sensazione è che questa sia l’ultima possibilità per continuare a immaginarsi la vita. Non è vero che viviamo in un mondo liberato dalla paura e dalla religione, privo di separazioni: il modello di religione capitalista oggi in vigore è sostenuto da altri tipi di separazione, tutti interni all’uomo e alle sue propaggini produttive, e quello che una volta chiamavamo sacro ora è un affare solo umano.

Sono la tv e il sistema dei media e della pubblicità che sanciscono la sottrazione alla sfera comune e quotidiana di persone, oggetti e comportamenti, e il loro spostamento nell’ambito mercificato degli assolutamente Improfanabili. Apparso in tv, definitivamente separato da se stesso: come il corpo morto del Papa, che, nel momento stesso in cui viene esposto alla visione globale come un qualsiasi oggetto televisivo, in un sol colpo mette in atto la separazione della morte da se stessa e dal suo fondo di inquietudine, e del corpo sacro dalla sua vecchia, debole e arcaica sacralità.

In quest’ottica, è facile comprendere che la scissione consumistica e spettacolare si spinge ormai a lambire gli stessi contorni biologici dell’esistenza umana, ridotta sempre più a Sommo Improfanabile. Così l’assolutizzazione dei propri falsi bisogni da soddisfare con intensa produttività consumistica, l’ascesa al trono dell’ego e delle sue bassezze, l’immunità perseguita con pertinacia in ogni ambito pubblico e privato, chiamano in causa direttamente il corpo dell’uomo, costretto, in cambio di effimeri godimenti o di illusorie consapevolezze, alla perdita, prima che del suo fine, del bene forse più prezioso: la vita comune e normale.