Il sogno epico della memoria/ 2

Conversazione con Giuliano Scabia (seconda parte).

Sgnaolin: C’era il pericolo di cadere nello stereotipo.

Scabia: Se vai in Francia con la commedia dell’arte, i francesi dicono: “Italiani: spaghetti, commedia dell’arte”. Allora bisogna dargli delle gran botte sui denti. Perché quello che abbiamo fatto noi col nuovo teatro loro se lo sognano! Non esiste in Francia quello che abbiamo fatto noi: da Ronconi a Bussotti, ma anche la musica. Questo a partire dal 1960.  E se andiamo travestiti da comici dell’arte ti prendono per i Giovanni Poli. Bellissima, La commedia degli Zanni, ma è del 1500!

[legge]

Caro Gianni, purtroppo mi sento di fermare un poco questa tua gioia narrativa, ché di narrazione, racconto, inizio di romanzo, ma non credibile si tratta. Credi tu di assomigliare davvero a Zane e io a Julien? E siamo qui alla fase dopo due scene di metterci a formare la compagnia, ma tu quasi ti comporti come l’assoldatore di un teatro di guitti, con lo scopo di portare in Francia a Parigi dove già nostri antenati con gloria e malinconia salirono: Dominique, Angelini, Riccoboni, Goldoni,
Dario Fo , le maschere che ti vanno bene. Io mi chiedo: tu hai descritto me e hai descritto te, cioè la mia maschera di Julien, secondo un’idea teatrale che tu ti sei fatto del nostro viaggio e sei andato all’indietro nel tempo e hai trovato l’immagine del capocomico barocco che intendi usare, ma qui si affaccian due questioni: l’una è che fin dalle prime battute si esprime un’idea di teatro, la tua, come totalitaria: ti fai la tua e la mia maschera e la sovrapponi all’idea di viaggio, il teatro come viaggio, che è mia, senza ascoltare ciò che può venire dal profondo, l’idea che io mi faccio della tua e della mia maschera. È questo il limite della tua scrittura romanzesca: che vuol dare tutta la descrizione di tutta la realtà, in tal modo, mi sembra, non lascia più spazio al muoversi, al far teatro, all’improvvisare… vogliamo fare un romanzo, Comedie des italiens, o una commedia? Mi vuoi lasciare agire usando tutte le arti che sai o vuoi impormi una maschera che è tua, un po’ sogno, ma in cui non posso che fare gesti stucchevoli, morti, tuoi e non miei. Questo bel poema epico che insieme abbiamo progettato vogliamo mostrarlo solo dalla parte davanti o anche dalla parte di retro, con tutte le cerniere gli spezzati le cantinelle i fondali i fondalini le quinte i panorami le botole i praticabili eccetera eccetera… Io Julien lo vedo diverso dal tuo. E tu dici che questo riguarda il rapporto fra noi e noi e il romanzo, ma io ti invito al teatro, alla ricerca nella diversità perché l’eros che costituisce il teatro nasce da questa diversità e dunque, prima di andare avanti, ecco come ti vedo io, Gianni Zane, servo senza storia.

Ma poi non andammo a conquistare Parigi, forse bastava averlo sognato quel viaggio, aver raccontato a noi e ad altri uno spettacolo possibile. Subito abbiamo avuto una grande intesa, ne abbiamo dette e pensate un sacco e una sporta. Celati aveva voglia che partissimo insieme per scrivere qualcosa. Mi diceva sempre: andiamo via, andiamo via. Questo andrebbe pubblicato così, perché è un laboratorio fra due scrittori scatenati. E poi c’è questo, che è un capolavoro secondo me. L’abbiamo scritto a quattro mani, ma è soprattutto di Gianni. Ed è sulle visioni [legge il titolo del fascicolo]: Dialogo vero di Gianni Celati e Giulia no Scabia sulle visioni terrene e altre cose dello spettacolo del mondo. Questo andrebbe pubblicato, lui è restio, però qui mettiamo delle cose grosse. È stato fatto proprio a Bologna con la macchina da scrivere.

[legge]

Gianni: Fai una cosa per il teatro, per il cinema, per una collana di romanzi, quello che ti chiedono di fare è una macchinetta, che va avanti tac tac da sola e va avanti bene, tutta liscia. Gliel’ho chiesto anche a Calvino come si fa a scrivere romanzi, ma lui non mi ha detto niente, perché mi lascia sempre parlare, ma per non scoprirsi. Io li ho capiti come fanno i professionisti professional, loro stanno lì a fare la loro vita di disperazione poi a un tratto ci hanno l’idea, idea! Ci hanno l’idea della macchinetta, come quei macchinotti frutteri e lucentino, poi gli frega solo della macchinetta, la loro vita disperata non la vedono più, basta che la macchinetta funzioni e tac tac fatto il libro, fatta la pièce di teatro, fatto il film, ma io dico che a me piacciono solo le macchinette scardinate, dove c’è si il macchinario il pistone la frizione ma per esempio c’è un pistone che gratta, non sai dove si blocca la macchinetta, come finisce il viaggio, insomma dove vai a parare e così vengono le visioni, come un viaggio che ti blocchi nel deserto e ci hai la visione. Beh , la tua commedia è bella perché è una macchinetta scardinata, non so proprio come andrà avanti nella vita, ma io le voglio bene e la portiamo avanti noi a mano.
Giuliano: Io sono proprio contento come uno scemo che si possa portarla avanti a mano una storia, perché c’è questa grande istituzione della forma commedia, si fa per dire, e ci siamo noi come davanti a una serie di cattedrali, palazzi grandi dove non sai come entrare dove non sai se ci sarà posto per te. Ora senti cosa ti dico: che il fatto a mano è un po’ come il bastone che si vede che tiene su un tetto meravigliante. Non mi dispiace, mi fa vedere quanto sono fuori da quei palazzi e cattedrali e in fondo mi fa vedere meglio cosa sono io. Di commedie ne ho fatto un ciclo, non più di cinque finora, e mi mette sempre in crisi l’idea di averle scritte, e mi domando: ma che cosa sto a  fare? Per che teatro sto a lavorare? E allora scappo via, sgattaiolo dalle mie commedie, per sentieri che mi invento, vado in viaggio, e ho l’invidia per Pirandello, Shakespeare & Company, chissà cosa penseranno, e a volte mi viene da pensare: e i miei contemporanei cosa penseranno? Sarò nella forma che gli va bene? E allora mi dico: speriamo che la forma vada bene almeno a me, alla mia mano, e sono contento che vada bene anche alla mano tua.

Perché lui si era innamorato pazzamente della Fantastica Visione!

Sgnaolin: Giustamente! Quindi l’entusiasmo per Fantastica Visione è anche all’origine del Dialogo Vero?

Scabia: Me l’ha proprio tirata fuori! Diceva che era il testo più bello del ‘900. Einuadi è stato cretino perché Gianni gli ha detto: “Ripubblicate Fantastica visione, no?!”. Tra l’altro adesso la metterebbero anche in scena. Non capiscono più il teatro all’Einaudi! Infatti mi sono spostato col teatro su Ubu, dove c’è Quadri che capisce. Loro hanno perso l’occhio.

Sgnaolin: Fantastica visione è uscito per la Feltrinelli, no?

Scabia: Sì. C’era il fratello di Occhetto che aveva l’occhio, e Gianni gliene ha parlato.

[continua a leggere dal Dialogo Vero]

Qui, caro Zane ci vuole un intermezzino comico:

Fruttero e Lucentini
cacano topolini
mentre Squarzina invece
in teatro caca pece:
di Italo Calvino diremo ch’è un bambino
molto preoccupato
d’essere già nato:
tale Moravia Alberto
è un Fa Vo Lì Sta Cer To
che dopo letto il Propp
ha scritto un poco tropp.
Al Piccolo Teatro
mille si fanno in quatro (sic!)
per fare una Tempesta
di gravità funesta.
Di
Dario Fo le balle
riempiono le stalle
e i mille laboratori
fanno felici i cuori. Dell’Enciclopedia?
Ebbene, che ci sia,
insieme con la Storia
a Einaudi porti gloria.
Oh, quanto ma quanto insane
son le passioni umane!

Zane: Orcodio, adesso cosa dico? Mi sono sputtanato da solo, è chiaro. Perché si fa così a sputtanarsi, no parla parla; dice: “la visione”, seeh, io che ce l’ho la visione, che ti giuro che ce l’ho, Quasi quasi è meglio che non gliela dico a nessuno: ti prendono per ebete, se ci hai la visione; stai attento anche te, Julien, che finché facevi il bravo animatore sociale dei disanimati di strada, beh quelli dell’Arci e del Circi e del Curci ti badavano; ma secondo me adesso va a finire che ti sputtani anche te con l’ARCI, con ‘sta visione, che per giunta è fantastica; vagliela a spiegare all’ARCI la visione! No, anzi, gliela devi spiegare per bene all’ARCI; allora adesso ti intervisto, così la capiscono un po’. Te hai detto che questa commedia della carne è una cosa che ti è venuta dall’esperienza di Milano e quando ci stavi, a Milano; esperienza metropolitana, come si dice oggi.

Dimmi dimmi…

Julien: Son qua che te rispondo, caro Zane, in lingua materna perché cussì me vien mejo ea serietà.

Poi lui si mette a parlare in francese.

[legge]

Zane: Monsieur Julien, c’est très interessant ce que vous venez de dire; mais, dans votre comèdie de la chair, la region où les rottamatt se situent, est une region sociolocique très nette: il s’agit du marge; eh, bien, pourrait-on interpreter cette pièce comme une allegorie du marge, et du cycle necessaire, cycle de consommation, cycle des déchets,  entre le marge et le centre?

Julien: Qua, caro Zancelat, me vien voja de nar travestirjme da Capitan Spavento della Valle Inferna che dixe: “ Son capo di banda io capace di colpi dello spadon mio trifolare e spezzattare una compagnia, una brigata, uno squadrone o un esercito intero, aprendomi il varco e terrorizzando chiunque le sue malcapitate membra nell’area del mio sguardo pararsi potesse e volesse provare potersi parare. Dopo tanta carneficina aver compiuto e tanti travestiti e rappresentativi mostri e fantasmi e dragoni e cavalli aver sgominato e umiliato, che con la mia compagnia mi trovai, più solo che mai, in quelli che voi con termine proprio della lingua dei re di Francia chiamate Le Marge. Insoma, dopo ver provà  a’ndare in centro a sbraossare, cancaro, me so trovà co ‘sto caretìn del teatro in mexo a tutti sti rifiuti e ghò ciapà paura de essare magnà anca mì. E ancora ghò paura. E ti no, malgrè ton francais?

Zane: Je m’excuse, mais, en effet, vous n’avez pas repondu aux question que j’ai vous posé, e se va meglio un’altra lingua, andiamo pure; dicevo, cosa dicevo?

Julien: Dicevi, mio Zane, una cosa molto seria: mi ponevi, nella lingua giusta (A Parigi! A Parigi!) le domande giuste. Ma perché?

C’è una storia che ti voglio contare,
e tu la stai ad ascoltare.
C’è una storia che mi vuoi contare
e io mi metto ad ascoltare.
Ti conto una storia ti faccio godere
le visioni ti faccio vedere.
Mi
conti una storia che fa godere
cento visioni mi par di vedere.
Vedo che salti e fai l’Arlecchino
per tutta la notte fino al mattino.
Poi dal mattino a tutta
la notte
Capitan Spavento ti mena le botte.
È il carnevale vissuto perduto
o un sogno malnato che t’ha fottuto?
Se della commedia ti svelo il trucco
qualche babbione ne berrà il succo:
e quale sia il succo io poi non lo
so perciò qualcos’altro stasera berrò.

Zane: Eh cazzo, non mi segui! Fai sempre il pagliaccio, fai le rime! Ma cosa ti credi?!

Sgnaolin: Questa è molto bella, questa!
       Scabia: È bellissima! Secondo me è da pubblicare. Va contestualizzata, con un saggio. Marchiori la vuole, ha scritto a Celati, ma lui era in un momento tragico. Non ho scritto io a Gianni, perché bisogna che gli eventi accadano. Se non accadono non sono eventi, no? Anche i libri sono degli accadimenti. Ci vuole il suo tempo, il suo momento. Bisogna anche stare attenti a quelli che vogliono fare i centenari, i compleanni. È tutto un rimescolare di cadaveri l’Italia, no? Di compleanni, di cadaveri che tornano fuori. Bisogna fare le cose con necessità, non perché è il centesimo della nascita, o della morte. Invece purtroppo sono tutti pretesti per avere i soldi per fare un convegno, altrimenti l’assessore non finanzia. Ma la poesia non va dietro a queste cose, non va dietro ai cadaveri. Il primo convegno su Calvino lo abbiamo fatto noi, gli amici veri di Italo, a Sassuolo. C’era Gianni, Agamben, Magrelli, Ginevra Bompiani , Del Giudice. Un allievo nostro del Dams era assessore alla cultura di Sassuolo. Abbiamo passato giorni deliziosi, senza accademici, en poète. Lo spirito di Calvino è in quel convegno. Ci sono degli interventi che non erano neanche raccontabili perché erano colloqui improvvisi. Era una cosa molto affettuosa. Poi non siamo andati a nessuno degli altri convegni, nessuno.

Sgnaolin: E ne hanno fatti molti!

Scabia: Ma sì! Perché poi diventa una macchina industriale. Ma lì, nei primi mesi, c’eravamo noi, i suoi amici.

Sgnaolin: Anche all’università Calvino è un mostro sacro. Prima di poter esprimere una critica liberamente sembrano obbligati una serie di passaggi, quasi burocratici, attraverso questo o quello studioso, che smorzano l’intuizione che proveniva dal contatto diretto col testo. Come nel Cavaliere inesistente, dove Rambaldo di Rossiglione vuole vendicare il padre Gherardo, un generale, ucciso dal pagano Isoarre in battaglia. L’ardore del ragazzo è progressivamente sedato da una serie di passaggi burocratici a cui viene costretto. Prima deve fare domanda alla Sovrintendenza ai Duelli. Poi i due funzionari propongono a Rambaldo di uccidere tre maggiori, che sarebbero l’equivalente di un generale, oppure quattro capitani. Ma Rambaldo vuole uccidere Isoarre! Infine, attraverso uno stratagemma burocratico, i due informano Rambaldo che, a termini di legge, suo padre risulta già vendicato! Alla fine il nucleo di verità  presente nell’intuizione o nella passione scompare, disperso in mille rivoli.

Scabia: Finisce. Purtroppo avviene che quando un critico si impadronisce di un settore o di un autore, poi in quel settore bisogna stare attenti ad addentrarsi. Ci ha già pensato lui. Questa è l’accademia. E… tornando alla “foresta”, la differenza con quella di Calvino è che la mia è una foresta vivente in espansione continua, una foresta che si attraversa, da cui si torna indietro. Ce n’è una però che si chiama, nelle foreste sorelle, “Foresta non attraversanda”. E Nane Oca e il Conte Chiarastella accettano di non attraversarla, per lasciare il mistero. Almeno una che rimanga un mistero, perché se non c’è mistero, non c’è più voglia di vivere. Dalle altre foreste, invece, si torna indietro perché sono nutritive, sono nutrienti. Sotto sotto Foreste sorelle significa logos. Il logos è nutritivo, il linguaggio. Questo è il significato vero profondo di foresta per me. Non per Calvino e neanche per Gianni. Io lo identifico così. E questo è il mistero che verrà rivelato in Nane Oca rivelato. Quindi adesso non bisogna rivelarlo…

Sgnaolin: Il logos. Infatti nel suo ultimo libro, nel racconto La vasca di Tarkovskji, dice: “Ecco il senso dell’epica ieri e oggi: nominare gli amici, i conoscenti, gli dèi, gli eroi, le persone di cui la comunità ha bisogno per nutrirsene – per chiamarli un po’ a veglia e nutrirli col fiato che soffiando dentro le parole le fa germogliare”. Questa è l’epica di Scabia, vero?

Scabia: Eh, sì. Ma guardi, sotto sotto, questa è la vera e unica lettura dell’epica. Perché cosa c’è ogni tanto? C’è l’eroe morto e si dicono le storie. In fondo quando raccontano la storia di Troia son tutti morti, no? Anche in tutta la letteratura ciclica: tutti morti. Cosa fanno? Raccontando li chiamano in presenza. Perché li chiamano in presenza? Perché devono servire da modelli. Sono modelli etici. Diventano modelli di comportamento, no? Kereny dice che gli antichi prima di far qualunque azione, facevano un passo indietro, guardavano il dio di riferimento, l’eroe di riferimento, e agivano come lui. Questa è la modellistica che sta dietro tutti i comportamenti… e l’epica è sempre religiosa poi… anche quando è ironica.

Sgnaolin: E i moderni a quali modelli si possono ispirare?
       Scabia: I moderni hanno un bel problema con
la memoria. Tutta questa immensa ricchezza che sta nel linguaggio – nel linguaggio c’è la natura ma noi possiamo parlare solo di quello che ci portiamo dietro descrivendolo, no? – dai numeri alle scienze alle storie e tutto quello che si chiama poesia, dalla matematica alla poesia per me è un unico linguaggio, unico, come aveva capito Galileo nel Saggiatore. Unico linguaggio, unico logos. E tutta questa immensa foresta di parole, queste ipotesi, descrizioni, questa immensa rete fantastica – fantastica nel senso che è immaginativa – qual è l’atteggiamento dell’uomo che verrà nei confronti di tutto questo? È un atteggiamento che stiamo cercando di capire, di forgiare, non è che lo so. Però sicuramente l’atteggiamento è completamente cambiato: pensiamo cos’è l’archeologia oggi, cos’è la filologia, cos’è la scienza delle lingue, cos’è l’accumulazione di dati nelle strade elettroniche. È sempre memoria questa. Questo è il grande compito che abbiamo davanti. Le persone dove le mettiamo? Persone, quelli che hanno fiato, che hanno fiatato questo logos. Ci pensiamo, ci pensa un po’ anche lei, però eh… E sempre però questa grande questione che riguarda la madre delle muse, sempre lei. Questa memoria che adesso ha un aspetto talmente straordinario, stupendo. Qui c’è un pensatore che mi ha affascinato, che io non ho ancora nominato ma un giorno lo nominerò… beh, questo l’ho nominato e si sa chi è, no? Padre Giovanni Pozzi, La parola dipinta. È un benedettino, un allievo di Contini. È morto due anni fa. Ticinese. Uno dei grandi filologi. Insegnava a Losanna, mi pare. E c’è nelle Foreste sorelle, è nominato. Ha studiato tutto: dai calligrammi ai tecnopaegnia.

Sgnaolin: Infatti nelle Foreste sorelle ci sono i calligrammi…

Scabia: Ci sono indipendentemente da lui. Li ho sempre fatti. Ma lui li ha studiati e io gli faccio un omaggio perché lo metto come personaggio. È questo il calligramma che io riprendo [è il calligramma di una rosa, la stessa posta sulla copertina di Foreste sorelle, n.d.r.]. È un omaggio a lui e anche al poeta che l’ha fatto. Io l’ho ridisegnato e riscritto. Ho inserito altre parole: gli elementi dell’indagine. Ho lavorato sei mesi per fare il disegno, con le carte, i lucidi, perché poi, cambiando versione continuamente, cambiavano le parole, mi dovevo rifare tutta la rosa.

Sgnaolin: Un lavoro certosino.

Scabia: Credevo di morire!

Sgnaolin: E chi è l’autore di questa rosa?

Scabia: È citato nelle Foreste sorelle. È Pascasio di San Giovanni, un poeta barocco che nessuno conosce tranne Giovanni Pozzi. Metto anche lui, con altro nome, Giovanni del Pozzo Palù, naturalmente.

Sgnaolin: Insomma Apollinaire non ha inventato niente?

Scabia: Questa è roba che ha millenni. È solo la tradizione stupida della lettura della poesia ottocentesca che l’ha ignorata. Io ho conosciuto Pozzi poco prima che morisse, ad un seminario che ha fatto qui a Firenze, il 13 giugno 2002. Avevo già fatto il libro. È stato per me uno dei maestri. L’altro è Teilhard de Chardin, paleoantropologo, gesuita, molto emarginato dalla Chiesa. Nel suo pensiero è l’uomo che costruisce Dio, che va costruendolo. Lui dice che al centro ci mette Cristo, ma per un non credente può essere altro. Parla di noosfera, ovvero il sistema di tutto il pensiero che avvolge la terra e che è frutto dell’evoluzione. Lui è evoluzionista totale. Ha scritto dei libri straordinari. L’Unesco li ha pubblicati, con una commissione di scienziati internazionali, diversi premi Nobel. Per me Chardin ha visto il futuro possibile del pensiero, della specie, come specie in evoluzione. Io non lo nomino ancora, ma se faccio la tetralogia di Nane Oca verrà fuori. La tetralogia, per ora Trilogia…

Sgnaolin: Lei è ancora più avanti!

Scabia: No, per ora va bene così. Adesso devo fare Lorenzo e Cecilia, il terzo tempo. Se no me desmentego tuto!

Sgnaolin: Immagino che dovrà rileggere, riprendere in mano il filo del racconto per entrare in quel tipo di musica, in quel mondo.

Scabia: Terribile! Bisogna ricordarsi anche i piccoli fatti. Ad esempio, quando ho scritto In capo al mondo non avevo in mente di scrivere L’acqua di Cecilia. Poi è venuta l’idea. Allora ho dovuto ricucire, perché c’è una parte in cui viaggiano insieme. Ho dovuto fare i salti mortali per far rientrare il nuovo personaggio. Però c’era già: la scrittura lascia dei margini. Lo stesso vale per il terzo tempo di Nane Oca. È una fatica terribile legare i diversi piani. Ma se riesco a finirlo è un libro unico, non ce n’è un altro nella letteratura italiana. Se riesco a seguire il disegno che ho in testa e a tenere quella temperatura…

Sgnaolin: Sì, è un modo di narrare particolarmente complesso. Mi viene in mente Boiardo che alla fine si faceva trasportare dalle sue fantasie, e lasciava delle incongruenze…

Scabia: Infatti Gianni dice che la macchina traballa!

Sgnaolin: Boiardo mi piace molto per questo motivo, perché si lascia andare. Pulci si inebria nel gioco verbale, Ariosto ha un controllo straordinario. Boiardo invece si lascia trascinare dalle meravigliose fanfaluche che gli passano per il capo. Però mi sembra che la sua energia è servita anche ad Ariosto…

Scabia: Eh, ma non bisogna credere ai cavalieri, tutte fanfaluche! Guardi che io, alla fine, do ragione a Don Ettore il Parco, che si rivela uno dei poeti che stanno sul platano alto dei Ronchi Palù.

Sgnaolin: Don Ettore? Sempre così critico, razionale?

Scabia: Eh, ma si rivela pian piano che c’è sotto qualcos’altro. Due mesi fa a Venezia Sanguineti, in cinque minuti, ha fatto un disegno della letteratura italiana impressionante. Alla Guggenheim hanno presentato dieci minuti di un cartone disegnato da Mimmo Paladino su un testo, Don Chisciotte, scritto da Sanguineti quando aveva diciannove anni. Poi siamo rimasti insieme a parlare. Edoardo è straordinario, ha una chiarezza. Diceva: Don Chisciotte chiude il Medioevo, perché è un personaggio del Medioevo ed è un libro di derisione del personaggio cavaliere. È la fine perché viene la nuova borghesia, che non crede più ai cavalieri, quindi è destinato a sfasciarsi. Guardate però che questo è Ariosto! Ariosto aveva già fatto tutto, perché non crede a nulla di quello che racconta. Boiardo invece ci crede, tanto che Panzini in un libro racconta che quando Boiardo trovava un nome di cavaliere che gli piaceva faceva suonare le campane del castello, per la gioia di averlo trovato, perché ci credeva proprio ai cavalieri! Poi Sanguineti ha aggiunto: Ma guardate che la cosa già comincia con Dante. Già Dante è la fine del Medioevo.

La Divina Commedia è un capolavoro reazionario: aspetta il Veltro! Per lui il moderno fa schifo, solo il passato è bello. Anche la Firenze precedente, i mercanti: non li può vedere! Appena sente parlare di soldi gli vengono i capelli dritti. Aspetta il Veltro, cioè una cazzata! Il veltro non verrà
mai! Ha sistemato la letteratura italiana!

Sgnaolin: A proposito di Dante. Mi sembra che il suo Teatro Notturno [testo incluso nel libro Teatro con bosco e animali, n.d.r.] evochi, almeno in parte, la struttura della Commedia. All’inizio l’io-narrante assiste alla recita degli anziani senza voce. È presente ma non può intervenire ed è ignorato. È come un morto fra altri morti. Potrebbe essere una sorta di Inferno. Poi, nella parte centrale del racconto, attraversa una bufera. Potrebbe essere la proiezione del turbamento dovuto alla recita, ma anche una forma di penitenza, di Purgatorio. Si passa poi alla parte finale, con
il Paradiso (se è Paradiso): la casa luminosa dove tutti hanno voce, dove saltano, ballano, la prendono in considerazione e l’io-narrante è un vivo fra altri vivi. Ma c’è una grande differenza, rispetto a Dante. Qui non c’è il Dio di Dante, al suo posto abbiamo Celeste. Celeste sembra un po’ Virgilio e un po’ Dio. È una figura di padre non statica, immobile, definita una volta per sempre, ma ambigua, metamorfica. È un divinità interiore. Il percorso del racconto conduce verso l’interno, non verso un traguardo esterno, verso un Dio rappresentato come in Dante.

Scabia: Mi sembra una bella lettura. E c’è anche un discorso sul teatro nella prima parte. Io elenco dei tipi di teatro: “teatro del tempo”, “teatro eterno”…

Sgnaolin: Dice, commentando lo spettacolo degli anziani, “che teatro è mai questo?”

Scabia: Lì sto discutendo con i miei amici del teatro, soprattutto con Giuseppe Bartolucci. Ora è morto. È stato uno dei cavalieri dell’avanguardia. Aveva le manie delle etichette. Allora gli faccio un po’ il verso, ma nello stesso tempo sto discutendo con lui sulle forme. E propongo una cosa che è fuori dalla sua possibilità di catalogazione. Teatro Notturno cos’è? È un racconto? È un monologo teatrale? È un’azione teatrale? Non è definibile. Ho voluto mettere “io” come se fosse un monologo teatrale, ma è sicuramente un racconto. È un racconto completamente inventato, ma la prima parte l’ho pubblicata nel Paese sera e tutti hanno creduto che io abbia descritto un’azione vera. Tutti, compreso il direttore del giornale, il redattore! Tutti mi hanno detto: “Uhh, ma che bella cosa che hai visto!”. Io non ho detto che non l’avevo mai vista. Al centro c’è un omaggio a Shakespeare, il maestro dei maestri, al Re Lear, e poi questa capanna nel bosco è quella delle fiabe di Propp. È il luogo dell’iniziazione, dove veniva celebrato il rito iniziatico dei giovani. Dunque è luogo di trapasso, un luogo di morte e risurrezione. Poi c’è il discorso, centrale, sul poema epico. Tutto è volto ad arrivare al punto in cui la guerriera estrae il poema La Selva ombrosa, ovvero la Selva oscura, il poema che avrei voluto scrivere. Invece ho scritto Teatro notturno, che è la selva ombrosa. Il dialogo con la figura luminosa di Celeste è un dialogo con la figura del padre. C’è l’incontro con Domenico Notari , muratore e capomaggio, col quale ho avuto una corrispondenza in ottava rima a partire dal 1974. “Minghin” era proprio luminoso. Lui aveva questa capacità di sognare… Poi c’è un testo che è il corrispettivo di Teatro notturno, il gemello. È la Camminata notturna da Santarcangelo al mare. Una camminata di 14 chilometri nella notte… poveretti, li ho ammazzati! 14 chilometri lungo il greto del fiume. Una strada fattibilissima, ma non c’era la possibilità di tornare, di deviare da una parte o dall’altra. Una volta incamminati bisognava andare fino a Rimini, altrimenti ci si perdeva nella notte. C’era molta gente in più. Io avevo dato un numero limitato. Erano centoventi, avevo dato un massimo di settanta. Ma sono stato onesto, ho detto: “Guardate, tornate indietro se non avete le scarpe buone, se non siete allenati, come è scritto nel programma”. Ci siamo incamminati. Fra l’altro, non è successo niente. Qui ho lavorato su una forma vuota. Ogni tanto leggevo una poesia di Opera della notte… in quattro punti… e basta! E poi c’erano 14 chilometri. Sono tanti per chi non è allenato, soprattutto di notte! Siamo partiti a mezzanotte e siamo arrivati al sorgere del sole. Erano disfatti! Mi ricordo dei volti! Poi ho chiesto a quelli che sono riuscito a reperire di scrivere qualcosa. Ho pubblicato tutto. C’è uno che mi dice delle cose tremende! Avevo solo un clarinettista, che non suonava quasi mai! Ma loro non vedevano niente. Portavano delle candele. Alcuni erano disperati, coi piedi che gli bruciavano. Uno si è rotto le scarpe, non sa più cosa fare, e un altro con il cartone di un pacchetto di  sigarette gli rimpiazza la suola! Li volevo mettere alla prova, svelargli che la forma non serve a nulla, è una pura illusione. La realtà è diversa! La rivelazione l’ho avuta alle quattro e mezza, quando ho visto l’alba: chi era allenato arrivava, e chi non era allenato non arrivava. Si poteva contare solo sul proprio corpo, non sulla forma.

Sgnaolin: Chi partecipa allo spettacolo è più o meno preparato di lei?

Scabia: C’era di tutto. Alcuni li conoscevo, altri no. È casuale.

Sgnaolin: Ma è anche per lei un’avventura?

Scabia: Certo, certo.

Sgnaolin: Non parte già pensando: “questo è un viaggio che faccio per dimostrare che…”?

Scabia: È un viaggio in cui non so cosa mi succederà. Ma avevo esplorato il cammino. C’ero stato un mese prima, sapevo dove arrivare. Avevo calcolato che arrivassimo in quattro ore, invece sono state sei e mezza. Non ho ancora capito perché. Comunque, volevo polemizzare contro lo spettacolarismo, proprio la società dello spettacolo di cui parla Debord. È un testo che ho fatto spesso leggere agli studenti. La società dove ognuno deve vendere e far spettacolo per vendere!

Volevo, proprio all’interno di un Festival, mostrare l’anti-spettacolo. Sono tutte palle quelle che ci raccontiamo! Non è vero niente! Quello che si vede in qualunque schermo, in qualunque cinema, in qualunque teatro è falso! Noi del teatro dobbiamo fare questo: togliere le maschere! Come faceva Brecht, poi si è abbellito anche lui. È difficilissimo! È troppo bello farsi trascinare dalla forma, ma è questo che dice Don Ettore il Parco, e lo dice Don Ettore il Parco, non lo dice il Puliero, che è un ingannatore, come l’autore.

Sgnaolin: Un’ultima domanda, un po’ prevedibile: quali libri hanno fatto nascere in lei la passione per la scrittura, o semplicemente, quali sono stati i primi libri che ha amato?

Scabia: Mah, Salgari. Da ragazzo non so, mi piacevano molto i romanzi. Poi in quarta ginnasio Flaubert.

Sgnaolin: L’Educazione sentimentale?

Scabia: No, Salambò. Aveva queste descrizioni dei prigionieri, della fame… La capacità di narrare con delle parole secche, la crudezza delle descrizioni… E poi Ariosto. A quindici anni sono sparito. I miei amici per qualche giorno non mi hanno più visto, né in parrocchia, né al Centro diocesano. Dove sei stato? Eh, mi son letto tutto l’Orlando Furioso. Mi ha preso la musica delle ottave e sono andato fino in fondo. Magari non capivo niente, ma andare avanti… andare avanti… La raffinatezza mi ha incantato.

Sgnaolin: È davvero una sinfonia.

Scabia: Questo risuonare, riprendere, le consonanze, le allitterazioni, ma all’epoca non sapevo neanche come si chiamavano… c’era questa musica che mi entrava in testa. E poi l’arrivare in un posto e poi spargersi e ritrovarsi e spargersi ancora…

Sgnaolin: Nell’Orlando Furioso c’è una grande disponibilità di spazio e di tempo. Mi viene in mente una cosa che ha detto Manganelli, parlando del romanzo. Diceva: il romanzo non è lungo, è largo.

Scabia: Bravo.

Sgnaolin: E secondo me il poema è la stessa cosa, si allarga come i cerchi dell’acqua.

Scabia: È largo sì, è largo. Anche l’Odissea è larga, vai di qua, di là, ti aggiri…

                                                                 Fin!

 

(QUI la prima parte)