Due prose

di in: Paesologia

Scipione, Cardinale decano (1930)

ROMA, SCIPIONE

 

Era lavica rossa pittura Piazza Navona quei secoli lunghissimi e brevissimi in cui Scipione divorò la vita. Anche sulla Piazza ellittica e colonnata del Bernini e sulle mani rattrappite del Cardinal Decano turbinava il porpora della rivolta. Roma sotto una colata densissima di lavico colore e il pittore al lavoro t’invito ad immaginare oppure considera un suo disegno: Pomona nuda in piedi a suscitare la foia dei maschi, natiche di bianca dea, pube di folta notte, pesanti seni contro la Luna luminaia e Roma a cavalcioni sul dorso del Fiume: vedeva Scipione la torre in Cosmedin ferma al passaggio dell’eclissi mentre sul Ponte gli angeli segnavento specchiavano l’alba sopravveniente nelle pupillle.

Così, nello sguardo e nel desiderio, fondò la città stratificata e migrante che taglia il vento e non dimentica nessuna luna né sabbia né conchiglie né rossi laterizi, ché il pittore discendeva nella sabbia nelle conchiglie e nei laterizi di San Clemente traversando i furori delle ere, di mitreo in mitreo e di basilica in basilica.

Lì, con soprassalto, forse udì il Nolano nobilmente gridare e vide i suoi aguzzini concepirne terrore, per cui stese di colori di merisiana visionarietà e di densissima scipionarietà turbinavano nel cielo e sulle verdure di Campo de’ Fiori. Rogo che ancora non s’estingue e andirivieni continuo tra ieri ed oggi, tra oggi e ieri, cosicché di nuovo Roma aveva cieli violaporpora mentre il Ponte angeloforo livido riverberava come la Toledo del Greco.

Peculiarità di Roma è che essa viene di nuovo fondata ogni volta che menti dagli sguardi avidi di bellezza la guardano. Menti accese di pensiero quelle di Mario Mafai e di Antonietta Raphael e di Scipione, vedevano Roma e la violenza incombente, Roma e l’orlo commosso delle demolizioni.

Un balcone di Via Cavour scavalcava se stesso capriolando sui tetti proprio come accade nelle poesie di Cristina Annino.

Scipione scriveva che

 

il giorno è andato lontano
e io mi sento un uomo di grande statura:
non c’è ombra attorno al mio corpo,
io vedo i monti, io sento il fiume.

 

Se una femmina cantasse…
Gli odori colpiscono le narici,
le mani s’alzano a cercare
per toccare le cose create.

 

Fiammeggiavano le cose create se contemplate da quel balcone pellegrino, poteva essere una sirena in esilio sul fondo oceanico dell’aria canicolare la femmina dalla voce materica come l’argilla e l’artista giganteggiava nell’estate inarcata sopra la campagna romana.

 

La terra è secca, ha sete

e si spezza.

Sui labbri dei crepacci

le lucertole arroventate

corrono in fiamme.

Le stelle cadono accese

per bruciare il mondo,

ma nessuno tende le mani per abbracciarle

e si smorzano,

tuffandosi nel buio

 

aggiunse nel suo taccuino. Poi nella notte densa di menta selvatica al Portico d’Ottavia il fantasma di Catullo, quel beffardo giovinastro rosso di capelli, graffiò sberleffi con un coccio d’orcio contro Cesare, ma le camicie nere, ubriache di pessimo vino, non videro nulla. E divorava la vita il giovane Scipione respirandola con la bocca, usando l’anima come fosse una tela, disegnandosi sui polsi accelerati dall’emozione di vivere i nomi degli amici, ben sapendo che non bastano i giorni, né gli anni (in un soffio già passati e c’è ancora così tanto da scrivere, da dipingere); Antonietta e Mario leggevano Breton ed Éluard, compivano sopralluoghi nei cantieri dove il regime sventrava ed abbatteva vecchi edifici per far posto al Nuovo Ambiguo, al Propagandato Nuovo, al Magnifico e Progressivo.

 

LECCE, BODINI

 

E il poeta visionario cercò l’ombra dell’olivo nella calura dell’ora meridiana. Attorno era pietra bianca affiorante, conche di terra rossa, radi olivi o fichi.

L’aria rovente.

Seduto contro il tronco della pianta, dalla veglia meridiana generò il sogno di una città simile ad una macchina di teatro o scatole di tenerissima pietra e luce. Appoggiò la città sopra la pianura calcinata dal sole e cominciò a costruirla a percorrerla edificio dopo edificio.

Bodini si sapeva prigioniero in quell’universo copernicano e galileiano, costruì un labirinto di sogni, o poema infinito, in un giuoco a perdersi nella selva d’invenzioni, nella gratuità delle sue invenzioni, in catene o sequenze od ondate di ghirlande di pietra colonne tortili mascheroni volute balaustrate aggetti arcate doccioni figurati cornici putti alati scaloni torciglioni colonne d’angolo edicole merlature bugnati anditi e  –  –

Il poeta visionario soffriva, quel sonno gli procurava fitte orribili al capo. Forse era malato: malinconia o lontananza.

Poi nel sogno si sognò seduto sulla scalinata della Chiesa del Rosario, quella con le colonne tortili sulla facciata e da lì sognava la Scatolacattedrale dentro la quale accendere un teatro labirintico di specchi cortine e veli. Fece una luna di tufo (quella pietra porosa emersa dal mare, ancora intrisa di salino assieme a fossili marini) e la sospese nella Scatolacattedrale, poi la sdoppiò in un astro nero e lasciò salire, salire, salire i due globi nello spazio delle incantagioni.

E Bodini accese in sequenza nell’oscura trasparenza dell’astronero la mappa labirintica del mare e dei naufragi come l’aveva immaginata, chiamandola Solitudini, don Luis de Góngora y Argote, la Venere nello specchio di Velázquez, i vastissimi patios dentro i quali si tengono a seccare le foglie del tabacco, i sogni e le magie di Rafael Alberti, le visioni d’amore di Pedro Salinas

 

( . . . . . . . . . )

 

Come in una bottega d’architettore il poeta visionario accese in sequenza nella luminosa trasparenza dell’astrobianco i progetti assonometrici, gli spaccati, le piante, le proiezioni ortogonali di Santa Croce e di Palazzo Adorni, di San Matteo e del Convento degli Olivetani

 

( . . . . . . . . . )

 

Scrisse:

livello di un’assenza a cui sole si sporgono capre o spettri di capre morte da secoli che brucano le amare giade dell’insonnia.

La luna dei Borboni era una spugna intrisa della distanza incolmabile tra la storia e il Salento, un tenace amore spagnolo, una città di giardini nascosti alla vista, piazzette con un palmizio altissimo ad impigliare la chioma nelle nuvole.

 

Scrisse:

viviamo in un incantesimo tra palazzi di tufo in una grande pianura.

E:

sulle soglie, in ascolto, antiche donne sedute – o macchie che la luna ripercuote nell’aria – socchiudono pupille d’una astratta durezza dai palmi delle mani aperte pietre sui grembi.

 

Rialzatosi in piedi, detergendosi il collo con un fazzoletto contadino, s’incamminò verso la città, il suo destino, lo sapeva bene. Molto bene.

Un commento su “Due prose

  1. marco ercolani

    Questa tua attenzione per le vite degli artisti – in questo caso la densità del colore affiora con forza – non può che farmi solidale con le tue idee e i tuoi ritmi di scrittura. Marco