Finale di stagione

Fotografia di Walter Nardon

Dicevano che avesse avuto in casa l’inferno – non si poteva neanche immaginare quello che aveva passato – per questo, nonostante l’opinione che si era fatto di lui, Albert cercava di mantenersi calmo. Certo, il colloquio non poteva durare.

«Ti credevo più alto» gli disse, rimestando documenti in una vecchia scatola di biscotti. «Ad ogni modo, non si può neanche sostenere che tu sia proprio nella media. Sei, per così dire, di poco sopra la media. Pensi che possa bastarti?».

Su una mensola campeggiava un vaso nero di porcellana da cui sporgeva un mazzo di fiori che sembrava incredibilmente fragile. Faceva caldo, Albert cominciava a sentirsi a disagio. Allungò la mano verso il vaso e ne seguì il profilo con un dito. In un’altra circostanza, chissà, forse avrebbe potuto reagire in modo meno controllato, ma in quel momento gli tornò davanti l’immagine di sua figlia Maria (Mary) che fra due giorni avrebbe compiuto tre anni e che quella mattina nel suo vestitino a fiori gli aveva chiesto come regalo la fattoria in miniatura con gli animali. Lasciare il lavoro a metà non era il modo migliore per preparare la sua festa di compleanno.

«Non credevo di essere qui per la mia statura», disse Albert, rimettendo la mano in tasca.

«Certo, ma dovresti sapere che la statura di un uomo conta sempre».

Dopo un momento di infatuazione giovanile per la scrittura spregiudicatamente disinvolta del maestro, Albert aveva preso un’altra strada. Quando si era trovato a lavorare in una cooperativa agricola ne aveva seguito i movimenti da lontano, leggendo gli articoli che man mano scriveva, le posizioni assunte per evidenti scopi strategici (il maestro considerava la convinzione personale una pura illusione). All’epoca, ogni sabato Albert girava nelle grandi stalle della regione e scriveva articoli per una rivista di allevatori. Aveva cercato di tener duro – Giulia era stata decisiva – si era sposato, era nata Mary. Arrivare a comprarsi una macchina era stato così difficile che per vari anni certe questioni ai suoi occhi avevano assunto un carattere incerto e del tutto ipotetico.

In quel periodo, il professore aveva vissuto le maggiori difficoltà della sua vita. La moglie se n’era andata di casa col dirigente di una società di certificazione di bilancio; la figlia era scappata con l’intenzione di diventare fotografa, anche se in realtà, in un secondo momento, risultò che si era unita a una compagnia teatrale che aveva occupato abusivamente un condominio in disarmo. La cosa saltò fuori all’epoca dello sgombero forzato.

«Io ti stimo, ma – lasciatelo dire – hai qualcosa che non va. Sai perché quelli come te mi dispiacciono? Perché nella loro condizione sono talmente frustrati dall’arrivare a odiare se stessi come unica ragione del loro insuccesso, come se la causa di ciò che accade – o, nel loro caso, di ciò che non accade – fosse da imputare esclusivamente al loro comportamento, alle loro decisioni. Non riescono a capire che non è così, che ci sono fenomeni collettivi in cui sono immersi e nei quali vengono trasportati semplicemente come un tronco dalla corrente».

Albert lo lasciò parlare. Aveva già preso posizione più di una volta su questi temi, perciò non sentiva il bisogno di rispondere a tutti i costi, soprattutto non voleva che il colloquio si trasformasse definitivamente in un test di autocontrollo. Guardava la sedia sopra la quale era appoggiata la scatola di latta. Cercava di pensare ai frollini di sua suocera, a Mary che correva dietro alla nonna. Alla fatica che aveva speso per farsi accettare in un settore non suo. Per non essere scortese, ma anche perché qualcosa in lui, nonostante tutto, esigeva una replica, disse:

«È davvero un peccato non essere in grado di interpretare il proprio tempo».

Il maestro rialzò la testa dalla scatola e per un istante guardò Albert:

«Dico sul serio. È inutile rifugiarsi nell’ironia, è un dato di fatto. Siamo tronchi nel fiume. Posso dirtelo per esperienza».

Cosa c’era in quella scatola, di tanto importante? D’un tratto, nella foga con cui il maestro continuava a cercare, Albert credette di intuire le ragioni di un gesto incontrollato. In un giorno d’estate di qualche anno prima, seduto sotto il tiglio, il maestro era riuscito a cogliere l’enigma segreto della materia. Era stato sopraffatto da un’intuizione talmente formidabile da rimanerne sconvolto: il rapimento era durato alcuni istanti, perciò il maestro aveva creduto che lo avrebbe ricordato come uno dei momenti cruciali della propria vita. Invece, riavutosi, mentre si reggeva i pantaloni attraversando di corsa il giardino per rientrare nel suo studio, aveva dimenticato tutto. Nel suo pensiero non si era stratificato niente; anzi, i pochi appunti che era riuscito a stendere su un foglietto a righe erano finiti sul tavolo fra le bollette e di lì, arrivati sciaguratamente in mano alla donna delle pulizie, erano stati dispersi fra le cose di poco conto, come quelle raccolte nella scatola, che ora era dunque destinato a rimestare in eterno.

Albert si fece avanti e appoggiò la busta sul tavolo rotondo davanti al maestro.

«Le devo consegnare questa», disse, senza aggiungere altro.

«Lo vedi? Non è dunque come dico io?»

Albert lo guardò. Per consegnare quella lettera avevano disposto l’assegnazione di un compenso specifico e poi avevano tirato a sorte: era uscito il suo nome. L’incarico in fondo non gli dispiaceva, in più sapeva che il compenso avrebbe fatto contenta Giulia: arrivava opportuno per rispondere ad alcune esigenze familiari (la revisione della macchina). Il maestro aveva troppa esperienza per non capire che le cose avevano cominciato a mettersi male. In silenzio, apparentemente senza mutare espressione e senza prendersi il disturbo di aprire la busta, continuò imperturbato a tirar fuori dalla scatola foglietti, scontrini fiscali, biglietti degli alberghi in cui aveva dormito. Il suo incarico non era stato rinnovato, né nel consiglio di amministrazione della Fondazione, né nel comitato scientifico della rivista.

Altri, al posto suo – pensò Albert – avrebbero avvertito diversamente la sconfitta; ma l’uomo non era privo di risorse, quali che fossero. Albert guardò di nuovo dalla finestra, poi tornò su di lui. Uno dei motivi su cui Giulia aveva insistito, per rendergli più accettabile l’incarico, era questo: capire come l’avrebbe presa. Albert aveva colto all’istante che era un motivo inutile. In effetti, osservando attentamente le rughe attorno agli occhi del maestro, scorse una leggera contrazione, quasi infinitesima, il segno della coscienza di un momento quando questo cede il passo a quello successivo. Non c’era molto altro da aggiungere, e infatti il discorso finì lì.

 

 

2.

Samuele (Sam) correva urlando senza freni con un fucile ad acqua in mano e in testa un cappello alla Davy Crockett. Tre metri avanti a lui, sparpagliati per non farsi colpire, Federico, Mattia e Roberta giocavano agli indiani. I bambini facevano baccano già da due ore e c’era il rischio concreto che tornassero a casa fin troppo eccitati. Mary, dopo aver seminato alcuni animali di plastica per il giardino, ora si era seduta con Francesca e lo zio Filippo (Phil), intenta a fare una torre con le costruzioni in legno colorate. Andava matta per questo gioco: fare una torre sempre più alta per poi distruggerla e ricominciare daccapo.

Albert pensò che la festa poteva andare. Grazie a Giulia erano riusciti a limitarla a pochi invitati, rispetto alle normali feste che ora prevedevano anche il tavolo col rinfresco per gli adulti e lo spettacolo dei giocolieri. Giulia parlava con sua sorella Amanda e altre due amiche. Ormai di maschi erano rimasti solo lui e suo cognato Phil. Sì, poteva andare. Ci sono giornate in cui metti in conto di consegnarti interamente alla famiglia.

Dopo la quarta demolizione della torre, Phil si rialzò in piedi e lo raggiunse. Albert fece un cenno a Mary, indaffaratissima.

Phil era suo collega alla Fondazione San Giovanni ***. Funzionario, non seguiva troppo da vicino gli investimenti culturali; era un uomo di amministrazione, e dava molta importanza alle dinamiche interne, che invece Albert tendeva a trascurare.

«Stagione di movimenti, eh?» disse Phil.

Parlavano in piedi sulla porta e con un occhio controllavano le bambine.

«Sì, dicono di sì. Ma io in questi giorni ho avuto altro per la testa».

«Già, immagino. La lettera. A proposito, pare che stia per partire qualcosa di compensativo, una sorta di risarcimento per la liquidazione affrettata del grande consigliere».

Sam aveva colpito ripetutamente Roberta al torace. Le aveva inzuppato la maglia, ma lei non si era persa d’animo; anzi, confidando nei rinforzi, da dietro il ciliegio lo guardava con aria di sfida.

Poi, accadde tutto molto in fretta.

Rialzandosi, con l’intenzione di correre verso Sam e gli indiani, Mary cadde a terra e picchiò violentemente la fronte sulla parte inferiore della torre demolita. Scoppiò in un pianto allarmante. I bambini si fermarono. Giulia mandò Albert in cucina a prendere del ghiaccio. Sulla parte destra della fronte di Mary, tre centimetri sopra la tempia, si era formato quasi a vista d’occhio un grosso bernoccolo, che neanche con l’applicazione del ghiaccio sembrava accennare a diminuire.

In un istante le erano arrivati tutti attorno, anche Sam, col fucile abbandonato lungo il fianco. Le amiche di Giulia erano divise sul da farsi. Si era creato un momento di apprensione, anche se tutti si dicevano che sarebbe potuta andare molto peggio. Non restava che aspettare.

Col passare dei minuti Mary incominciava un po’ a riprendersi, sorrideva perfino, fra le lacrime, davanti alle rassicurazioni della mamma sulla sua bella bambina.

Ada e Giulia si scambiavano occhiate insistenti.

«Non mi sembra una cosa preoccupante, ma forse è meglio portarla al Pronto Soccorso», disse infine Giulia.

 

 

3.

Erano le nove di sera.

Ormai erano dentro da quarantacinque minuti.

Seduti in sala d’aspetto con una decina di persone, Albert e Phil parlavano sotto due file di led. Esauriti gli argomenti d’urgenza, la conversazione era tornata sui temi di lavoro.

«Che poi, se pensi a quanto vengono pagati i consiglieri solo per scelte d’indirizzo politico, non ti viene neanche voglia di alzarti la mattina» disse Phil,  «Tu non hai idea dei giri di incarichi che passano in amministrazione, delle consulenze. Ma scusa, se ti abbiamo fatto consigliere delegato, sarà perché reputiamo che tu sia esperto nel tuo campo, no? E allora, se sei esperto, perché devi far pagare consulenze tanto onerose all’ente per documentarti su una decisione che dovresti essere perfettamente in grado di prendere da solo? Pagatele tu, le consulenze, se ritieni di averne bisogno».

Albert annuì. Aveva la testa da un’altra parte, e non solo per Mary, anche se il fatto che i tempi si stessero allungando aumentava la sua preoccupazione. Gli altri della sala erano tutti chiusi in apprensioni diverse. Notò che due anziani, in attesa dei risultati delle loro analisi, parlavano stranamente di basket, non di calcio.

«E tutto va via così, senza che possa essere fatto oggetto del controllo di gestione, perché questi vengono considerati investimenti legittimi, prerogative dei consiglieri delegati e dei loro fondi; anzi, se non li facessero, risulterebbero inoperosi».

Le finestre della sala d’aspetto erano alte, disposte in orizzontale. Albert osservava il loro meccanismo di apertura. Sembrava che non fosse mai stato utilizzato. Oltre i vetri si scorgeva parte del piccolo edificio che ospitava le caldaie dell’ospedale, con le grandi grate delle prese d’aria. In sala d’aspetto la potenzialità di ciascun istante assumeva una concretezza profondamente diversa rispetto a quella che ogni giorno gli si attribuiva. Come sempre, ma in modo più insistente, tutte le ipotesi che si era costretti a valutare sembravano, e in fondo erano, ugualmente plausibili.

«Ad ogni modo, se solo scendi un attimo di livello, le cose vanno meglio di qualche anno fa. La riforma del settore amministrativo, ad esempio, con l’eccezione di qualche ufficio, ha fatto bene».

«Mi ha scritto», disse Albert quasi interrompendo Phil.

«Chi?»

«Il maestro. Ieri mattina mi ha fatto recapitare un biglietto. Se non fosse arrivato da lui avrei potuto pensare di trovarmi davanti a uno scherzo. Pensa, è arrivato a casa il giardiniere Frank – a bordo di un’Ape – per consegnarmi la busta».

«Che cosa vuole?»

«Non lo so. Che vada da lui. Dice che vorrebbe parlarmi».

«Vedrai. Farà una delle sue solite scenate, farà di tutto per dimostrarti che è ancora in sella, che alla fine ha ragione lui».

«Scusa, a che pro?»

«Niente. Solo per impressionarti, per conservare la sua reputazione. Credi che non ne abbia mai viste? Fanno tutti così, quando capiscono che stanno per uscire di scena. E il bello è che si credono pure originali».

Albert tornò per un momento alla scatola di biscotti del maestro, al suo fondo inesauribile. Forse il maestro cercava troppo in quegli scontrini, in quei biglietti da visita; forse il segreto stava fra gli uni e gli altri, nell’accanimento con cui erano stati conservati.

In quel momento uscì Giulia, con Mary in braccio.

«Le hanno fatto le lastre. Sembra sia tutto a posto. Niente di grave. Però non se la sentono di mandarla a casa: questa notte la vogliono tenere qui in osservazione. Quindi mi devo fermare».

«Vuoi che ti porti qualcosa?», chiese Albert.

«No. Non serve. Siamo molto stanche, vero?», disse Giulia, guardando Mary, che rispose «Sì» nascondendo la testa sulla spalla della mamma.

«Più che altro, abbiamo preso un bello spavento», fece Albert.

«Io vado su con lei, poi magari ti chiamo prima di andare a dormire; ma voi potete andare. Ripeto, il medico ha detto che va tutto bene, vorrebbe solo osservare che non ci siano sintomi di qualche genere, che per ora non si sono visti».

«Va bene, ci sentiamo dopo».

«Ok. A dopo, e grazie Phil, grazie davvero per essere rimasto fino a quest’ora».

«Figurati».

 

 

4.

Amanda, la sorella di Giulia, aveva sposato Phil poco dopo l’Università. Lavorava al Servizio Provinciale delle Acque e come suo marito sembrava incredibilmente soddisfatta del vantaggio di conoscere in anticipo sugli altri le voci di corridoio inerenti alle dinamiche degli enti locali. In effetti, il Servizio Provinciale delle Acque a quei tempi si trovava in uno stabile adiacente a quello del Dipartimento della Programmazione Economica, vale a dire a uno dei punti cardine delle strategie dell’ente pubblico; ciò nonostante, solo con qualche difficoltà – che lei sapeva, appunto, superare di slancio – lo si sarebbe potuto scambiare per il centro del mondo. Quanto al resto, Amanda era una cara persona, molto affettuosa e piena di attenzioni per Mary.

«Hai visto Mary chi è venuta a trovarti? La tua cuginetta Francesca», disse Giulia.

Mary, che stava disegnando uno dei suoi capolavori dell’epoca, con le figure umane notevolmente più alte della realtà naturale circostante, si alzò subito per correre incontro alla cugina.

Entrando in soggiorno con Giulia, Amanda si fece accanto ad Albert e quasi in un orecchio gli chiese da parte di Phil se fosse già andato a trovare il maestro. Poiché Albert scosse la testa, lei aggiunse: «Meglio, perché Phil mi dice che se aspetti qualche giorno lo troverai di umore molto sollevato». Poi lasciarono Albert da solo in corridoio.

Per quanto a una certa età sopraggiunga inevitabilmente una sorta di disincanto per la nostra comprensione delle cose, mentre Amanda e Phil consideravano il ritorno dal maestro come l’episodio di una serie televisiva americana, Albert poteva rivedersi adolescente quando saliva per quella strada pensando che in ogni ciuffo d’erba che usciva dal muro si nascondesse un segreto pronto a schiudersi di lì a poco. Di fatto, percorrendo quella strada Albert qualcosa aveva pur capito, anche non proprio per merito diretto del maestro. Comunque, era passato molto tempo. Mary fra un paio di mesi sarebbe entrata alla scuola materna. Fra i genitori delle sue coetanee qualcuno stava già cominciando a pensare quale scuola elementare scegliere. Com’era possibile spiegare la natura di un privilegio a qualcuno che ne aveva beneficiato senza rendersene conto? Una cosa è essere trascinati come un tronco d’albero, un’altra, volendo restare sul pittoresco, è scendere per il fiume su una barca coperta, con la lanterna accesa davanti alla porta. Si scende sempre per il fiume e se ne continua a ignorare la meta, ma i punti di vista rimangono diversi. Questo – pensò Albert – per molto tempo si era mostrato in modo fin troppo evidente. E tuttavia, in termini assoluti, quanto era evidente?

Salutò le due sorelle e si mise in strada.

La scarpa sinistra gli dava fastidio, colpa dei plantari che non si erano ancora adattati.

Ciò nonostante, dopo un po’ prese un buon ritmo.

 

Il giardiniere-postino venne ad aprirgli il cancello. Franco (Frank), prima di impiegarsi dal maestro, per buona parte della vita lavorativa aveva fatto il falegname; fuori orario, lo si incontrava spesso al bancone del bar Centro. Si diceva esperto di musica lirica, passione la cui totale assenza dalle nostre parti risulta ancor oggi stupefacente. Non avendo qualcuno con cui parlarne, a volte importunava il maestro, che lo stava a sentire per cortesia, più che per effettivo interesse.

La casa era molto fresca.

Il maestro era seduto in fondo alla sala. Sul tavolo, aveva ancora con sé la scatola dei biscotti.

«Bene. Sono contento che tu abbia accettato l’invito. Anche questo è segno di intelligenza e tu sai benissimo che ti considero intelligente».

Albert si accomodò su una sedia.

«Ora, già di per sé l’intelligenza avrebbe dei limiti, nel tuo caso poi dobbiamo aggiungere un altro problema. Non vorrei sembrarti irrispettoso, o almeno non più della volta scorsa, ma sono costretto a dirtelo: non credo che tu sia molto sveglio». Osservandolo gesticolare, Albert cercava di tenere le sue parole a distanza, come fossero manifestazioni di un fenomeno naturale.

«Voglio chiarirti in dettaglio ciò che intendo. Sei attaccato a un’immagine delle istituzioni che non esiste più. Con questo non voglio certo dire che oggi i valori di riferimento siano cambiati, ma devi pur renderti conto che sono cambiate le forme in cui si esprimono. Ecco, tu questo non riesci a proprio a farlo tuo. La tua idea di cultura non è sufficientemente dinamica: è da museo. Senza accorgertene, mentre rincorri la qualità – perché per te la qualità si esprime sempre in valori certi, riconosciuti – vorresti trasformare tutto in un museo. Non sei in grado, o per meglio dire ti rifiuti, di cogliere i rapporti di forza che modificano ogni giorno il quadro, o il campo complessivo».

Albert osservava i giornali disposti sul tavolo accanto alla scatola. In mezzo a quel delirio di sé stava crescendo anche un’insidia. Doveva rispondere, se non altro, per non lasciare troppo libera la scena:

«Che posso dire? Devo ascoltare anche il resto?»

«Non ti irritare. Non ti ho chiamato qui per questo, ma voglio dirti che se perseveri in questo atteggiamento non porterai mai a casa un risultato che sia uno. Ti hanno mandato a portarmi la lettera, non hanno neanche avuto la decenza di mandare il direttore. Hai fatto il tuo dovere, certo; ma perché ti perdi in queste cose, vuoi forse fare la carriera del funzionario? Cosa credi, che fare il ragazzo diligente in una struttura come quella ti servirà a qualcosa? Credi che dopo dieci anni qualcuno verrà a stringerti la mano ricompensandoti per la tua buona educazione? Te lo dico io, che forse almeno questo sono riuscito a capirlo e – sia chiaro – te lo dico per il tuo bene: tu devi vedere in quella struttura in modo antagonistico, non identificarti nel ruolo che ti hanno affidato; ma cosa credi, che le tue possibilità siano legate al ruolo che ricopri? Se vai avanti così, fra dieci anni ti stupirai di non saper neanche ricordare in cosa sia consistito il tuo lavoro». Mentre procedeva il maestro aveva preso in mano alcune carte, che ora rimetteva con cura nella scatola.

Albert sulle prime era riuscito a controllarsi, poi, dalla seconda metà del discorso, aveva cercato il modo migliore reagire, pur sapendo che a forza di cercare avrebbe perso il vigore della replica immediata.

«Cosa c’è? Non hai niente da dire? Beh, certo, perché non c’è proprio niente da dire».

«No, anzi, la ringrazio; ma, anche ammettendo che io abbia la possibilità di muovermi diversamente, visto che non c’è mai stato nessuno che abbia creduto in me – a parte, se posso, me stesso – cosa dovrei fare? Crearmi un’opportunità? Dovrei guardare a lei, ai suoi risultati?» chiese infine Albert, che pensava che l’unica espressione apprezzabile del maestro fosse la sua carriera.

«Che cazzo di domanda è questa? Mi pensi narcisista al punto da presentarmi come il solo modello da seguire? Se hai qualcosa da replicare, concentrati sulle mie argomentazioni, altrimenti fai silenzio. Abbiamo studiato retorica tutti e due, mi pare, perciò credo sia meglio evitare inutili perdite di tempo».

«Cosa vuole che le dica? La Fondazione mi dà da vivere. Da quanto ha detto finora presumo non abbia la minima idea di cosa abbia fatto fin qui per tirare avanti. Io cerco di fare il mio lavoro e fuori del mio orario sono libero di fare ciò che mi pare».

Il maestro lanciò la scatola sul tavolo: «Eccolo qui, il problema», disse, «quindi tutto va bene perché fuori del tuo lavoro fai quello che ti pare, ti dedichi ai tuoi hobby, porti a spasso la tua famiglia? Vieni fino qui a dirmi che vorresti buttare tutte le tue potenzialità in un hobby? Ma dove siamo arrivati?

Senti, io ti ho detto quello che ti dovevo dire: a questo punto fai pure quello che ti pare, mi sono stufato. Ti dico solo alcune cose, a beneficio dei tuoi colleghi. Ho fatto un paio di telefonate in seguito al quale l’assetto azionario della Fondazione è stato lievemente modificato. Certo qualcuno degli idioti che frequenti avrà pensato che mi sarei ritirato a organizzare il mio ritorno, poveri imbecilli. Niente di tutto questo. A loro sembrerà che mi sia tolto di mezzo. Del resto, mi sembra troppo puerile cercare di recuperare un ruolo che fra l’altro non mi dava più concrete soddisfazioni. No, ho fatto di meglio. Diglielo pure. Ho ricevuto dal Comitato scientifico – e il Consiglio di amministrazione ha lo ha già approvato – l’incarico di scrivere la storia della Fondazione, lavoro di prestigio che fra l’altro mi porterà a interrogare parecchi dei tuoi colleghi. Perciò mi farò vedere poco in giro, perché avrò molto da scrivere, ma avrò anche molto da farmi raccontare».

Albert osservava i cardini della finestra. Rivedeva se stesso e Giulia un po’ più giovani, fermi sulla linea del tempo, un tempo che si era abituato a considerare chiuso, privo di potenzialità: una scatola di cartone in cui aveva avuto la sorte di dover guardare.

 

 

5.

Mary aveva dormito per tutto il viaggio. Erano arrivati la mattina presto e si erano fermati con la macchina in un parcheggio da cui si vedeva tutta la spiaggia. Il mare rompeva appena i riflessi dei raggi solari. Scesi dall’auto, mentre Giulia scattava qualche foto col cellulare – per fissare il mare in controluce – Albert col binocolo osservava lo scafo rosso di una nave. Ripensò a una delle loro prime vacanze insieme, al caldo del viaggio in treno e poi in pullman, con due enormi zaini da montagna che in quegli anni un po’ tutti ancora usavano. Per terra, proprio vicino alla ringhiera, qualcuno aveva dimenticato una collana fatta con le linguette delle lattine. Per quanto potesse sembrare strano – vista la rarità di questi poveri cimeli – era sicuramente stata al collo di qualcuno. Giulia la raccolse, la allargò, e tenendola lontana dal collo, mostrò ad Albert come le sarebbe stata.

«Ti sta bene», disse Albert, «Stai benissimo».