Un impiegato del bene

Ma era già al limite. Per assurdo, come se, avendo appiccato l’incendio, se ne fosse pentito; o meglio, come se la colpa di ciò che era accaduto fosse troppo grave e si sentisse impossibilitato ad affrontarla, a porre rimedio a ciò che aveva scatenato l’incidente.

Fu una sorpresa scoprire che Bianca aveva anche un secondo nome: Greta, il nome della nonna materna. Me lo disse la seconda volta che ci vedemmo; intendo, la volta dopo il nostro incontro in corriera. Non ho ancora finito di scoprire che cosa successe allora, né avrei saputo illustrare meglio lo spettacolo che mi ero trovato di fronte se non riconoscendo che quel nome, anche se così inusuale, ne coronava misteriosamente la natura. Più che una duplice realtà io ci vedevo un arricchimento, che avevo già cominciato a sperimentare. E in effetti, rientrato, cercai di starmene un po’ per conto mio per nascondere al meglio un’eccitazione che non avevo alcuna voglia di condividere. Frangenti come questi, o si comprendono fino in fondo, o non sopravvivono che in deboli descrizioni che sembrano trasmesse per sentito dire.

«Naturalmente», le avevo detto, «dovremo farne buon uso». Greta aveva riso. Questo nome lo avremmo impiegato in un legame che mi sembrava ben avviato e ricco di futuro – evitai di dirglielo per non travolgerla, ma penso che lo avesse capito. Nella sua risata veniva in luce un’ingenua ma effettiva superiorità sulle insidie della vita sociale, sulle ambigue sottigliezze a cui di norma si è costretti, delle quali si curava quel che riteneva opportuno.  

Appoggiato alla finestra, guardavo verso il quartiere. C’era un po’ di fermento attorno al responsabile del Corpo forestale, Flavio Guidi, che parlava con due nostri vicini. E c’era soprattutto un altro interlocutore, Marco Riboni, che negli ultimi tempi si era fatto vedere spesso. Ex direttore generale di FAR too Long, un ente che si occupava di promozione dell’import-export, pensionato da pochi mesi, alto, elegante, con ancora tutti i capelli grigi in testa, nelle occasioni pubbliche Riboni costituiva ormai una presenza inevitabile. Aveva dichiarato amabilmente di non ambire a una carriera politica – con i politici aveva già dovuto avere a che fare fin troppo – ma, contraddicendosi con la stessa grazia, aveva aggiunto che non gli sarebbe dispiaciuto fare un’esperienza nel campo. Insomma, ingrossando la nutrita fila dei generosi anche lui voleva mettere le sue competenze a servizio della comunità.

Il primo a farne le spese, pensai, sarebbe stato Carlo. Del resto, se Riboni voleva fare un’esperienza politica, dato che il livello di conoscenze a cui era abituato era di primo piano, perché avrebbe dovuto candidarsi per diventare un semplice consigliere comunale? E in effetti, per quanto sotto i riflettori si muovesse con cautela – per così dire, ai margini dell’inquadratura, sul bordo del palco – Riboni aveva cominciato a trasmettere ai suoi devoti che in Carlo c’era qualcosa di troppo ruvido ed elementare, come la sua gestualità e irruenza testimoniavano ogni giorno. Si passava una mano fra i capelli e poi proseguiva sorridendo verso un bersaglio grossolano: la mancanza di eloquenza di Carlo; notava che, a dispetto dei suoi interessi e della sua innegabile (e indiscutibile, ci mancherebbe) abnegazione, Carlo sembrava ancora poco adatto alla scena pubblica, o per meglio dire, ad accompagnare la comunità in questa nuova fase del cammino di crescita che appariva incontestabile. E così, mentre non trascurava di ricordare quanta fatica mettesse nei lavori della cooperativa sociale La natura e noi che si occupava di ripristino ambientale e della quale aveva assunto da poco la carica di presidente pro bono (come primo intervento ne aveva fatto cambiare il logo), commentava gli affanni di Carlo fra un incarico e un altro come figli della stessa impreparazione, che partiva dall’incapacità di dotarsi di una moderna agenda elettronica. A rinforzo di questo argomento, ricordava di aver fatto licenziare una segretaria perché si ostinava a usare un’agenda di carta che – sempre secondo i suoi calcoli – la induceva a perdere un’ora e mezza in settimana (un’ora e mezza pagata come le altre).

«Beh, non ha mica tutti i torti», mi aveva detto Riccardo.

«No, tutti no».

Insomma, te lo ritrovavi nell’atrio del teatro ad accarezzare i capelli castani della figlia Giulia (che frequentava il ginnasio – mai nascondere i progressi dei figli). Lì, con l’occhio di chi si sorprende a compiacersi di se stesso, si superava: parlava dei poveri, del Terzo Mondo, della necessità di intervenire a favore dei più deboli, mentre lo stato si sa, li perde per strada. Scrollando la chioma grigia, passava agli equilibri internazionali. Per lui i deboli bisognava avvicinarli al lavoro, il punto era tutto lì. Lo aveva sostenuto in un incontro pubblico in cui aveva parlato prima di Padre Koch, che non aveva manifestato un’apprezzabile inclinazione nei suoi confronti.

Congedati i presenti, Riboni prese sotto braccio il forestale e lo condusse in direzione del nostro Bar. Chissà di che parlavano. Forse di una richiesta di modifica del Piano regolatore, che in quel momento mi interessava a solo titolo di curiosità (Riboni aveva acquistato un vasto terreno fra il paese e il limite del bosco, dove sperava di costruire la nuova casa di famiglia): il modo in cui piegava leggermente la schiena verso il suo interlocutore, incoraggiandolo alla confessione, rendeva manifesta una tendenza sui cui ci sarebbe stato di che discutere.

2.

Chi aveva preso ad apprezzare Riboni, poco sorprendentemente, era Clara, che così coglieva la duplice opportunità di mettersi contro suo padre e di rifinire il suo snobismo. Al termine di un intervento di Riboni sulle nuove emergenze sociali mi aveva detto:

«Non credi che abbiamo finalmente trovato qualcuno che sa parlare di queste cose in modo adeguato?»

«No lo so, a me non sembra una questione di eloquenza».

«No, ma a un certo livello le cose si conoscono così bene che anche l’eleganza diventa una necessità che si deve garantire. E quando hai passato buona parte della vita a trattare con persone che riescono a decidere di ogni argomento con cortesia squisita, qualcosa ti resta pure addosso, non trovi?»

Provai a non replicare.

«Clara», si intromise Bianca, «qualcosa gli è sicuramente rimasta addosso ed è l’ignoranza dei particolari».

Per numerose ragioni Bianca non apprezzava Clara, ma quando prendeva la parola sapevo che non si sarebbe fatta trascinare da questa antipatia (il che, in certi casi, ossia quando seguiva fino in fondo il suo ragionamento, poteva produrre risultati ancor più severi).

«Mi sembra che sia abituato a considerare le questioni in generale» proseguì, «con gesti rivolti a un’intera categoria; i singoli, invece, sono solo destinatari di favori, fatti a fin di bene, d’accordo, ma fatti comunque a partire da una posizione di vantaggio. Del resto, se ci fai caso, è difficile che con i suoi interlocutori si metta a parlare alla pari».

«È anche vero che interlocutori alla sua altezza qui ne trova pochi».

«Sì, ma è proprio questo il punto. Nel settore di cui si occupa non si tratta tanto di conversare con un interlocutore, ma di risolvere un problema; e lui il problema è abituato a risolverlo a modo suo, da solo, grazie alla sua posizione».

Tentai maldestramente di inserirmi:

«Forse è solo questione di tempo, se vuole fare questa esperienza deve capire che non può più disporre delle cose come faceva quando era direttore. Deve cominciare ad ascoltare gli altri».

«Ecco, sì, anche per loro potrebbe essere un’occasione di crescita», aggiunse Clara.

Clara ci salutò e corse verso sua sorella.

«Ma ti sei sentito?»

«Perché? perché ho detto che forse è solo questione di tempo?»

«Sì, perché sai benissimo che non è così».

3.

Ho sempre dato per scontato che, in una famiglia umile ma numerosa come la mia – con una ventina di cugini dispersi su entrambi i rami per il territorio provinciale – fosse non solo giusto emanciparsene (quello lo è anche in una famiglia di piccole dimensioni), ma che fosse inevitabile finire per ritenerla indifferente. In questi casi, di norma, i parenti si incontrano solo in occasioni formali, salutandosi l’un l’altro con l’evidente imbarazzo di chi non si conosce, a differenza di quel che avviene in contesti più elevati, quando la famiglia gode di un solido patrimonio o di un’influenza sociale degna di considerazione. In assenza di questi requisiti, nelle stesse circostanze, il possesso di un certo grado di civiltà risulta indispensabile per evitare di discutere intorno a cosa tenga in vita i legami di parentela, se siano gli affetti o l’interesse, l’intreccio dei due elementi o più pigramente una convenzione. Del resto, quando mancano l’interesse e la speranza di un reciproco vantaggio, in questi gruppi le occasioni formali tendono a diradarsi.

Una speranza sproporzionata nel futuro induceva invece la mia famiglia a lasciare aperta la possibilità di una vera amicizia con i parenti, che in seguito non si sarebbe realizzata neppure in presenza di mezzi di comunicazione più rapidi e gratuiti. Insomma, per essere seri: tranne che nei sogni dei miei genitori, della famiglia non fregava quasi niente a nessuno. Se ne frequentava solo il ramo più a portata di mano e per il resto ci si considerava liberi da impegni, o almeno a me sembrava che le cose fossero sempre andate così. Favorita da un gruppo familiare più ristretto, Bianca aveva invece una diversa concezione della parentela: era necessario prendersi cura dei vari legami anche quando i parenti avevano poco da spartire con lei in termini di attività o di relazioni. Non credo l’avrebbe mai messa in questo modo, ma intuivo nel suo atteggiamento nei confronti dei familiari l’esito della coscienza di trovarsi in un punto preciso della storia, come se queste relazioni dovessero aiutarla a chiarire le ragioni della sua esistenza, che considerava in qualche umile misura provvidenziale. A me non sarebbe mai venuto in mente di cercare il senso del mio essere al mondo fra i miei parenti. Eppure c’era qualcosa di serio nel suo impegno nelle relazioni date, considerate quasi alla pari di quelle che si dicevano elettive, che io invece coltivavo in via preferenziale, convinto che l’amicizia con i miei compagni sarebbe durata nel tempo, anche se non ne avevo un’opinione incrollabile. Mi chiedevo però se non fosse la mancanza di relazioni amicali ciò che spingeva le persone di mezza età, o gli ex-dirigenti in pensione, a promuoversi nel dibattito pubblico. Non poteva neanche essere un certo tipo di famiglia: quelle davvero buone, di solito, non ne hanno bisogno e sanno tenersi alla larga dal proscenio.

Persone come Riboni compaiono di tanto in tanto come rosse meteore nella vita di una comunità: brillano nell’arco della loro caduta, senza ulteriori evoluzioni (sono troppo ingenue o, come nel suo caso, troppo scafate per identificarsi pienamente nel ruolo che si sono scelte). Dopo un cospicuo investimento iniziale, stanno a vedere che succede: se le cose vanno bene, si dedicano all’incarico che hanno ottenuto; se vanno male, si tolgono elegantemente di torno, non dopo aver capitalizzato il loro sforzo e il mi sono messo a disposizione, ma evidentemente non c’erano le condizioni. Poco dopo, il più delle volte cambiano ambiente e trasferiscono le loro ambizioni altrove. Ma se questa è una regola generale, le eccezioni sono numerosissime e il caso di Riboni era fra queste. In effetti, l’avrei ritrovato molto più avanti in un altro contesto, in vesti diverse e con funzioni che non avrei saputo prevedere.

Allora nel suo comportamento mi stupivano le cortesie di cui sapeva circondare i suoi sostenitori: apprezzava chi voleva intervenire nel dibattito pubblico e ne stimolava la partecipazione con incoraggiamenti che quelli recepivano con una gioia piena al punto da apparire sospetta: del resto, con un’operazione discutibile, i suoi seguaci attribuivano al dilettantismo il ruolo strepitoso della specializzazione. Secondo un principio formulato a più riprese da Riboni, le cose stavano così: in molti campi – non, si intende, quelli in cui contavano i soldi, ma ad esempio sistematicamente in quello artistico – la passione poteva sostituire con successo la competenza, che suonava complicata e noiosa. Perciò promuoveva gli appassionati, i dilettanti. Riboni riteneva uno strazio stare a sentire qualcuno che sul palco sembrava rivolgersi a gente del mestiere, come se gli altri non potessero fruire del suo discorso. Per questo inseriva nei suoi interventi qualche riferimento popolare (una canzone, il marchio di una bibita). Similmente riteneva, arrivando a volte a ribadirlo in misura rumorosa, che le canzoni popolari valessero quanto Mozart. Non parlava di Dylan, di cui si diceva fan – e di cui dubitavo avesse una conoscenza più che superficiale – ma dei Beatles e soprattutto dei Pink Floyd che erano il faro del pubblico alternativo che voleva conquistare (per i più benestanti non doveva faticare, bastava uno sguardo d’intesa). E quando qualcuno gli aveva suggerito l’affermazione di Proust sulle canzoni e il loro valore per fermare un istante nel tempo, si era sentito finalmente a casa. La sua naturale amabilità, la disinvoltura dell’uomo che raramente nella vita si è trovato nelle condizioni di chiedere qualcosa, lo rendevano il candidato più richiesto all’incarico di presentatore delle altrettanto richieste serate di canto corale o dei simposi degli eruditi; e lui si faceva sempre trovare pronto.

4.

Ma quel pomeriggio mi imbattei in una sorpresa enigmatica che lo riguardava. Ero tornato in biblioteca perché dovevo controllare un passo su Galilei dalla Storia del pensiero filosofico e scientifico quando accadde un imprevisto. La sirena del Municipio suonò tre volte allertando tutti per un incendio. Lasciati i libri sul tavolo, come i pochi studenti presenti nella sala, scesi per capire di che si trattasse. Un piccolo garage vicino aveva preso fuoco. Uscendo dal portone, il fumo nero aveva invaso la strada e ora si alzava in una nube che già superava i tetti delle case: i pompieri erano stati più che tempestivi, erano praticamente usciti al suono dell’allarme. Una decina di loro si dava da fare in un garage che poteva contenere forse quattro automobili. Arrivò anche un’ambulanza. Un elettricista che passava in moto, Rino Mercuriale, si fermò per dirmi che secondo lui era partito tutto da una saldatrice, ma nessuno sapeva come fossero andate le cose. Mentre stavo presso la porta della biblioteca con Rino, guardando verso l’incendio, a sorpresa mi si avvicinò Riboni, agitatissimo.

«Se fossi un uomo,» mi disse sottovoce, fuori di sé, «lasceresti i tuoi libri e andresti anche tu a spegnere l’incendio».

Era pallido, quasi incapace di formulare una frase intera. Rimasi sconcertato.

«Vedo che c’è già chi se ne occupa».

«Sì, quindi tu aspetti sempre gli altri, sei un parassita».

Avrei voluto rispondergli come sarebbe stato opportuno, ma vidi che, cercando di serrare i denti, la sua mandibola tremava. Pensai allora di non sollecitare ciò che lo aveva paralizzato e dissi solo:

«Io starei più attento a dire certe cose».

Ma era già al limite. Per assurdo, come se, avendo appiccato l’incendio, se ne fosse pentito; o meglio, come se la colpa di ciò che era accaduto fosse troppo grave e si sentisse impossibilitato ad affrontarla, a porre rimedio a ciò che aveva scatenato l’incidente. In effetti, come risultò subito molto chiaramente, lui non c’entrava. Non potevo credere che questi imprevisti lo spaventassero fino a quel punto, né pensavo che non sopportasse il male nelle sue forme più varie. Poco dopo l’ambulanza riattraversò la nube di fumo: aveva dovuto solo portar via Armetti, un negoziante in pensione che aveva avuto un mancamento in casa. Mi chiedevo con quale forza d’animo, a meno che in quelle ore qualcosa di oscuro e di improvviso non lo avesse colpito, Riboni avesse affrontato le difficoltà che derivavano dalle sue responsabilità pubbliche. Non trascuravo la sua offesa, ma non avevo fretta di esprimermi a riguardo perché l’inconsueta serenità interiore che avvertivo in virtù del mio rapporto con Bianca mi spingeva a interpretare questi inconvenienti come inevitabili, ma non determinanti.

Rino non aveva sentito ciò che Riboni mi aveva detto sottovoce; tuttavia, mentre questi si allontanava, ancora incomprensibilmente in allarme, mi disse:

«Ecco un altro di quelli che non hanno mai fatto un cazzo nella vita e che ora ci dicono di pensare al Terzo Mondo».

Mio padre avrebbe apprezzato. Osservando Riboni, mentre pochi passi avanti si risistemava la camicia in cerca del suo contegno abituale, mi chiedevo quali eredità potesse aver lasciato un così lungo esercizio di riflessione su una nozione di bene quasi esclusivamente teorica, o raggiunta in concreto con denaro pubblico in circostanze dove l’interrogativo sulla felicità di chi fa il bene trovava una risposta immediata proprio perché priva delle difficoltà e dei limiti materiali di chi è costretto a rischiare di tasca propria. Ne era derivata probabilmente una concezione del bene burocratica o meglio impiegatizia, con vari livelli e promozioni in cui gli avanzamenti di carriera venivano festeggiati come una più calda elevazione, quasi che i vari gradi dirigenziali corrispondessero a un percorso spirituale; ma certo, il fatto che per oscure ragioni non riuscisse a dominare un imprevisto e che sentisse il bisogno di sfogarsi sugli altri, o in altre parole di insultare me, rendeva il suo enigma più complicato. Sembrava che nel momento dell’incendio fosse stato colto in flagrante: che tradisse sua moglie? Che davanti a un pericolo concreto la sua prima preoccupazione fosse quella di essere scoperto? Mi sentivo di escludere che avesse una vita parallela, ma l’ipotesi non pareva inverosimile.