Metafisica biologica dei funerali

Quando una cosa non cresce più, la usano le altre cose per crescere. Come i batteri nell’intestino, come i virus che usano la parte debole di un corpo. Come gli insetti che usano i cadaveri, così noi rivestiamo i cadaveri di abiti deterrenti che lo facciano sembrare ancora in crescita, in movimento, in dispendio di energia. Ma l’odore sarà più forte delle sembianze e i loro abiti che non si gualciscono li tradiranno.

Mettiamo su i funerali per far sembrare che il cadavere abbia ancora una volontà e una destinazione. Questo ci fa sperare che sembri vivo; mettiamo in moto quel pezzo immobile di legno, lo elettrizziamo della nostra presenza. Gli egizi lo sapevano così bene che gli costruivano case e gli lasciavano cibo, svuotandolo di ogni mezzo di nutrimento per vermi. Lo espandevano per nasconderne la decrescita.

Oppure , nella nostra civiltà gli stiamo vicino. Stare vicino al cadavere serve al cadavere per sembrare vivo e ai vivi per uno scambio. Il vivo offre al cadavere il suo camuffamento da vivo. Parliamo con lui, lo tocchiamo, lo circondiamo per nasconderlo agli organismi che lo mangeranno. E in cambio lo usiamo per un nutrimento nostro, più spirituale, o meglio più opportunistico; un opportunismo spirituale. Ricordare il morto è la stessa cosa che dare da mangiare gli avanzi ai gatti. O come benedire, e salutare, il pane prima di mangiarlo. Quello che si allontana per sempre, in realtà se ne va dentro chi resta. Un po’ come i primi cristiani che mangiavano il maestro perduto in forma di pane.

Andare ai funerali è meglio, soprattutto quando il morto era molto noto. Si prova più piacere a essere presenti vicino al cadavere molto noto. Quando uno di questo genere di persone muore, il funerale è investito di eternità: il morto verrà mangiato per secoli da chi lo conosce. Si cresce su di lui per un tempo indefinito e vogliamo essere tra i primi di quella lunga fila di organismi mangiatori, che ne assimileranno le parole, i romanzi e le poesie, i drammi e le commedie, le teorie e gli esperimenti, le musiche, i quadri, le sculture, i discorsi, i programmi, le idee…

Il teatro del funerale è questo: si piange un po’ sul serio un po’ per finta, per mostrare agli altri di esserci. ‘Io c’ero al funerale e quindi ho diritto di mangiare’. Al funerale il centro del dolore va dal morto (in qualche caso la sofferenza è reale) alla scena, dove attori e spettatori sono tutt’uno. Si recita nel teatro della sopravvivenza; si piange quello che si mangia. Ci si raccoglie in sé per nascondere quell’ingrassarsi a spese del morto. Nei momenti che la tristezza reale scompare, quella finta ne prende subito il posto e se uno guarda bene, si vede la differenza negli occhi. Si usano molto gli occhiali scuri, infatti. Gli occhi non vogliono essere sorpresi nel momento inevitabile del passaggio, quando guardano la scena da spettatori. Il funerale è un cartone di Cinecittà, che garantisce il dolore nei momenti che passa, negli attimi che la vita chiama: tutti a tavola! Ci si vergogna, chissà perché, di non soffrire e di mangiare. Alcune civiltà avevano portato tutto allo scoperto e preparavano il pranzo funerario e procuravano piangitrici. A volte c’era anche una carrozza che trasformava il cadavere truccato da vivo in un signore sonnecchiante che va in campagna. Adesso il teatro è d’avanguardia e si va veloci in macchina, file funerarie che sfrecciano in autostrada; se si devono confondere i batteri e gli altri mangiatori, la velocità è più adatta; e sull’asfalto petali strappati dal vento alle ghirlande di fiori, che dovevavo servire a coprire l’odore di marcio.

Per questo a molti dà fastidio donare gli organi di un cadavere sano perché smascheriamo la nostra fame; noi siamo lì presenti a meritarci il pasto spirituale con mille stratagemmi che nascondano o rimandino l’azione inammissibile e altri, sconosciuti, se lo mangeranno come un vero pasto materiale, senza vergogna, anzi glieli azzanneranno, gli organi, un attimo prima che muoia. La generosità di chi li dona è una proiezione della propria fame sugli altri.

Le iene e gli avvoltoi fanno a gara a buttarsi sul cadavere, ma per fame nera. I cannibali non facevano tante storie; il cuore del nemico era tutta energia per battaglie future. Ma noi, in piedi davanti al morto, ambiguamente piangiamo sul nostro cadavere futuro e mangiamo quello che per fortuna ancora non siamo noi. E questa complicazione fa il teatro della ritualità funeraria. La morte è questo teatro. Il cadavere molto noto è meglio perché si mangia più volentieri. E anche se l’avevamo criticato in vita, adesso gli riconosciamo il valore perché possiamo prendercelo noi, non costa molto, l’omaggio serve a pagarci il pranzo che ci farà crescere dove lui non cresce più. Il pasto funerario ci legittima. Ci commuove vedere i nemici del cadavere stimato presenziare al suo funerale. La superiorità spirituale è alta, se il nemico riconosce che il teatro della guerra finisce dove comincia il teatro della necrofilia.

Il successo dei film sui morti viventi ha introdotto la necrofilia nell’immaginario collettivo, che vuole il morto vivo, per distruggere la decrescita, ma poi vuole avere facoltà di staccargli la testa, per affermare la propria crescita.

C’è una metafisica biologica innescata dal funerale, che si mescola con naturalezza con la metafisica sociale della morte. Il fatto è che tutto o cresce o decresce. Dove cresce riempie lo spazio lasciato da quello che decresce; dove decresce, è perché viene mangiato. Il funerale è l’auto-regolazione dello spazio. Lo spostamento continuo di equilibri tra sostanze. Spostare il morto per fare spazio ai vivi. I tarli sono il funerale del legno, come la ruggine del ferro e i vermi della carne intorno a uno scheletro. Così una roccia viene mangiata dal funerale dell’aria e del vento e si arrotonda come rovine di templi, che sono funerali grandiosi. E Virgilio descriveva le api dentro la carcassa delle mucche come tomba e grembo materno. La plasticità del funerale è osteggiata solo dalla plastica, che, nonostante il nome, non cresce e non decresce. Resta senza inumazione, senza funerale, così morbida e così immobile, è il vero cadavere in vita. Tutti gli altri, futuri morti, vogliono crescere sul morto presente e un po’ non lo dicono e un po’ si fanno forza e un po’ gli piace e, dopo essersi assicurati che non si muove, lo muovono loro inghiottendone quello che possono.