Fiaschi

Curriculum della rivolta

Scarica, mi dicono, gli amici del sabato,
il modello europeo del CV: compila,
spedisci, venditi bene. Inglese livello A,
francese B, insistono, e giù di grappa
nei peggio bar. Una sera dopo i wurstel
lo stendo, sui ragli dalla cucina dei cinque
inquilini e le bestemmie intagliate
dentro il mio sangue, e li espongo in grassetto
tutti i miei fallimenti, arial corpo sedici
sottolineato, perché lo vedano bene, senza
nessuna commedia, tutto quello che porto in dote
………………………………………………………
e se rivolta non sarà, impreco agli amici,
sia la rivoltella, almeno, di un nostro nipote.

Riflessioni su un trasferimento

Per lasciare questa pianura stanca
che le montagne le appiccica info ndo,
e le acque lentissime, le ville e le fabbriche,
c’è bisogno di una grossa offesa
che si contempli come nel sangue
sui soli che si appendono, a settembre,
dietro le vigne colme. Sennò si rischia
di soccombere sotto i centri commerciali
o le statali, il sabato, che sbattono
agli outlet, sotto il cemento del centro
grossisti e le sere d’autunno
sui parcheggi Coop, sennò sulla pianura
ti distendi come un fiume e le ragioni
le perdi per cambiare lavoro.

O magari cercare una ragazza, una casa
fuori dal centro, e accontentarsi di loro.

Progetto rotonde

A viaggiare per la provincia capita
spesso che mi ritrovi a girare
per rotonde improvvise, fioccate
negli ultimi mesi mentre battevo
altre strade: e si catapultano
centrifughi gli oggetti sul cruscotto
e ballonzola scaleno l’Arbre Magic.

Se poi penso a che cosa c’era prima
tra quella sfilza di villette a schiera,
i capannoni, le viti e i cartelli,
non mi viene proprio in mente.

Magari non c’era niente.

Alla malora

È aprile e davvero non dovrei
sentirmi come mi sento: un immenso
isolamento, rotolando in una bolla
di cemento armato
in mezzo a una folla di visi di latta.

Ormai la vita è fatta: senza te,
in una provincia di merda, Jacuzzi
e bidet, senza capire perché servano
entrambi, senza sapere cosa
fare da grandi. Ma intanto mi lavo
ogni mattina e prendo il treno in orario,
vedendo drasticamente aumentare
l’inventario degli anni di troppo –
inutile intoppo a una vita
che poteva farne con comodo a meno.

Sei tu che serviresti per forza
ma non ti vedo nemmeno per caso.
E intanto mi pettino e rispondo
a modo e compro il prosciutto
al supermercato, senza capire il motivo
di ogni singola azione, ma con l’intima
speranza di incontrarti in stazione,
una mattina presto,
e mandarti a cagare, te e tutto il resto.

Souvenir

Comprare il souvenir della vacanza
è un’abitudine anni ottanta,
dei viaggi in Italia coi genitori
e della gita delle elementari.
Ricordo il vaso acquistato in Grecia
lungo la strada da Adelfi ad Atene
e quello che sta ora in ingresso,
prodotto in una bottega Andalusa
che guardava sul mare. Sebbene
siano di adesso gli ultimi giorni
da ricordare, da tempo ormai
non compro più niente: testimoni
di questi anni sfocati rimarranno
sgualciti biglietti del treno,
un paio di spente foto
e tutta la felicità in meno.

Oleg in Molenaarstraat

Ieri notte mi ha bussato un russo,
gli ho aperto e offerto del vino. Sentivi
le campane del collegio vicino, le nuvole
in silenzio, sempre ubriache, e noi.
Lui dipinge e se la passa male – è qui,
forse, per dimenticare: gli parlo
della luce di questa città, e lui dell’inferno
che è Mosca a confronto, e ci lasciamo
che è tardi, nel buio fermo che ti interra
se non gli opponi almeno una voce.

Mentre penso e strofino i bicchieri
intravedo tra le tende Oleg
che dipinge quei suoi quadri
vivaci di colori slegati, di tratti
incassati su spazi stretti.

Mi informerà che sono le cose
che ci siamo detti.

Proiezioni della propria morte

Passare sotto l’arco di via del Granchio
e pensare al caso di morire in tuta,
senza la sofferenza compiaciuta
dei cugini di terzo grado e risparmiato
dalla beffa di finire sul tiggì.
Morire mentre si digita un numero
di telefono, di mercoledì, dopo essersi
messi in un punto del salotto
dove mai si era stati prima, morire
con la stima del proprio direttore,
aspettando con la sporta che
scenda l’ascensore, nascosti dietro
una tenda dalle cose che rimangono,
per colpa o per merito di una botta
al rene. A questo rifletto sotto l’arco
di via del Granchio: se penserò,
almeno morendo,
a come potevo vivere bene.

Vicini di cosa

Dalla cassetta della posta mi capisci
l’umore, dallo zerbino che ogni sera
calpesto di rabbia, dal rumore della
doccia, del cesso o dei piatti, mentre
fuori piove una pioggia da inverni
anche se è marzo e chiamano bello,
e il mio buongiorno si sgretola contro
il cancello automatico, sulla tua bici
tre volte legata al cartello del divieto
di sosta, e che da lì non si sposta
neppure di sabato, ma è lì perché
ci serve una reciproca apparenza
da insultare con vigore dopo le ore
di lavoro: altro che chiedere il burro,
o del latte parzialmente scremato

o il sale con iodio. Noi non siamo
vicini di niente: soltanto di odio.

La rivolta

La voglio fare con te la rivolta,
stipati contro la porta con la sera
sulla faccia. Ogni giorno ci bruciano
gli angeli e ci mettono fretta
di entrare nel welfare, coi tempi
regolatori delle aziende e le luci
di Windows sui poster in camera:
ma è chiaro, a noi, che non funziona
con tutti, quando guardiamo dai ponti
la città arancione e dalle macchine
in corsa le offese delle insegne.

Facciamola insieme la rivolta,
all’angolo del Blockbuster, coi cartoni
delle pizze accatastati ai bidoni,
con la notte che striscia, che si accascia
sui cani, e non ci vede qui, rinchiusi
nei cessi, sbronzi comatosi
di nuove paure, piegati sulle tazze
a vomitare i nostri sogni.

La voglio fare per te la rivolta,
dentro grumi di città senza sole
e barricate: che le vedano,
le maestre d’asilo, le nostre facce
sconvolte come quelle dei ladri
sulle pagine scialbe delle testate
locali. Che ci vedano,
quel giorno, i nostri padri.

L’occhio a fessura

Con l’occhio stretto a fessura
le finestre sembra che piangano,
le ciglia fanno da sbarre e la camera
pare un riflesso: è come rinchiudersi
dietro mura di cartongesso, meraviglia
moltiplicabile a ogni ossigeno
che dai all’occhio, e delusa ogni secondo
dalla vista già schiarita, dallo specchio
che riacquista la polvere e gli aloni,
dalle case e dai balconi che ti guardano
sul letto, e si riprende se stessa la vita,
dura e cruda, quando riapri l’occhio
che avevi stretto a fessura.

 

Queste poesie sono tratte da Fiaschi di Francesco Targhetta, Excogita 2010