Letteratura e democrazia

Una premessa: quale democrazia?

Diciamo democrazia, e sappiamo che si tratta, ogni volta, di forme incompiute, imperfette, approssimate di democrazia, forme nelle quali trascorrono contraddizioni e ambiguità. Diciamo democrazia, e sappiamo come il consenso e la persuasione siano prodotti attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione. Diciamo democrazia, e osserviamo la diffusa passività nei confronti di modelli e di opinioni dominanti, riconosciamo stili di sopraffazione, strategie di esclusione, reti di organizzato egoismo. Da Leopardi a Baudelaire a Pasolini la letteratura ha denunciato i modi del conformismo, dell’omologazione, dell’asservimento alle mode. La centralità dell’opinione e del danaro è per il Leopardi dei 111 Pensieri il tratto distintivo della moderna civiltà, una civiltà peraltro fondata sull’astrazione dai corpi, dalla singolarità senziente dei corpi (“le masse, questa leggiadrissima parola moderna”, esclama Tristano nelle Operette morali, e delle masse dice più oltre: “che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse…”). Leopardi non scrive in epoca democratica ma conosce le istanze intellettuali dei “democratici” del suo tempo, la loro enfasi progressiva.

Certo, democrazia è anche tempo-spazio dei diritti, rete di garanzie per l’individuo e le comunità, mappa di relazioni sociali e istituzionali che assicurino dignità e lavoro. Proprio perché questa linea ideale trovi un suo tempo storico, una sua edificazione, occorre non rimuovere quel che ci viene dalla letteratura praticata in tempi di sospensione o cancellazione delle forme democratiche, in tempi di censura e di dittatura. Le scritture nate nella condizione di esilio e di persecuzione, la grande meditazione sul tragico, la narrazione e la poesia che hanno portato nel loro ritmo, nel cuore delle loro sillabe, la ferita e il fumo della distruzione non possono essere un gelido capitolo di una storia che più non ci appartiene. Sono respiro del nostro tempo. Perché il tragico pulsa anche nella nostra epoca. L’esilio è una condizione interiore. E la violenza distruttiva continua nella presenza assidua delle guerre, e gli stili di sopraffazione permangono nei rapporti tra i soggetti.

Ospitalità della lingua

L’esilio come condizione stessa, interiore e linguistica, del poeta, tutto quello che è dimenticato, chiuso nell’oblio, quel che la modernità sospinge al suo margine, ciò che ha forma mutevole, impalpabile, invisibile, l’altrove infigurabile, il ricordo fatto cenere, il tempo irreversibile, le tante vite non vissute o soltanto sognate, l’abissale vuoto di senso, tutto questo prende figura, ritmo, vita nella scrittura.

Si potrebbe dire che l’atto letterario, nella sua essenza, è “democratico” perché ospita ogni cosa vivente e assente, perduta e sognata. Questa ospitalità, nell’epoca moderna, ha al suo centro quello che Paul Celan chiama la “dolorosa rima” (“schmerzliche Reim”), la presenza, cioè, del tragico.

Inoltre l’altro, lo sguardo dell’altro, dischiude una conoscenza che prima era dissipata in un’alterità intesa come diversità, estraneità, inappartenenza, esotismo. Da qui anche la ricerca e il riconoscimento dello straniero che è in ciascuno di noi. Edmond Jabès diceva: “La distanza che ci separa da uno straniero è la distanza che ci separa da noi stessi”.

Interrogazione e forma

Lo scrittore è colui che si chiede il perché de mondo in un come scrivere: era Roland Barthes a dare questa definizione.

Teoresi, dunque, congiunta al rapporto con la forma, con la responsabilità nei confronti della forma. Proprio nel non separare l’interrogazione – estrema, metafisica – dalla forma, il sapere dallo stile, lo sguardo sul mondo dalla parola che questo sguardo raccoglie, proprio qui sta la sfida e la responsabilità dello scrittore. Pensare che le forme, i modi, gli stili, con tutte le singolarità implicite, si chiudano per loro natura nell’autocompiacimento e recintare questa ricerca sotto la voce, e il sospetto, di formalismo, vuol dire avere della letteratura un’idea tutta risolta nel dicibile, nel visibile, immediato ed esplicito. La responsabilità verso la forma è momento della più ampia responsabilità verso la comunità dei viventi, e verso quella natura che accoglie i viventi.

Compito dello scrittore, anche in epoca di democrazia, è dare all’indignazione una forma, alla denuncia uno stile. Parziale, appassionata, politica: queste tre condizioni che Baudelaire vedeva proprie di una critica – di una critica che volesse essere giusta – possono estendersi in generale all’esercizio della scrittura.

Nel 1988, autunno, un numero della rivista “Aut aut” fu dedicato al tema della responsabilità. Partecipammo in diversi. Ricordo l’intervento di Jabès che cominciava: “Credo che uno scrittore sia responsabile anche di ciò che non scrive”. E proseguiva dicendo che scavare la parola voleva dire scavare in noi stessi. Come si disegna la responsabilità dello scrittore dinanzi al proprio tempo?

Riprendo, dal mio intervento su quel numero di “Aut aut” solo un passaggio (chiedo scusa dell’autocitazione: è perché vent’anni dopo non saprei dire con la stessa concisione): “Dinanzi al proprio tempo lo scrittore sta come il traduttore dinanzi al testo originale: il suo compito è dire nella cancellazione, reinventare nella adesione, sfuggire, con la propria lingua, all’inganno del dilemma fedeltà o tradimento. Ma questa analogia è insufficiente. Perché scrivere vuol dire anche istituire un tempo per i gesti che il tempo cancella, e disegnare uno spazio per i sogni che l’epoca soffoca”.

Aggiungerei, oggi, che la responsabilità di chi scrive consiste anzitutto nel sapere scorgere l’orrore e il tragico del proprio tempo. Raccontarlo. Dirlo nel suono stesso del verso, nella musica del verso. Questa la sfida della letteratura, non solo in tempi oscuri ma anche in tempi democratici nei quali l’oscuro è oscurato, rimosso, allucinato. Che cosa dice lo scrittore oggi dinanzi al tragico quotidiano delle vite inghiottite nelle tentate migrazioni, tra le acque del canale di Sicilia o in altri mari? Come riconoscere il tragico del proprio tempo?

Una domanda ci giunge, inquietandoci, dalla storia della filosofia novecentesca. Com’è possibile che un pensiero come quello di Heidegger, così profondo, ricco di implicazioni teoretiche e così interrogativo sull’essere, sull’ esposizione dell’uomo alla finitudine, sul nesso umanesimo-tecnica, non abbia scorto l’orrore, o, scorgendolo, lo abbia taciuto?

Il senso della lontananza

La tecnica oggi dominante è la tecnica del lontano: telematica, televisione, telefono ecc. La lontananza è resa domestica, transitabile, portatile, schiacciata sulla superficie dello schermo, nel qui e ora del consumo. La letteratura e le arti, invece, attraversano e interrogano la lontananza nella sua profondità, nelle sue figure, nei suoi sconfinamenti, nelle sue irriducibili latitudini. Lasciano vivere la lontananza come lontananza. Grazie all’immaginazione, danno alla lontananza forma, figura, pulsazione, presenza, parola. In una democrazia si tratta di tenere aperto questo spazio dell’immaginazione, questa forma di resistenza che la letteratura – per via della sua sostanza che è l’immaginazione – assicura contro ogni forma passivizzante di un lontano fatto tecnica tele-visiva.L’esperienza della lontananza, propria della letteratura, abitua a dislocare il punto d’osservazione, abitua a un nomadismo dello sguardo: esercizio necessario per una conoscenza aperta e interrogativa.

La letteratura come tempo-spazio di una coscienza critica

La letteratura istituisce un tempo e uno spazio perché singolarità e moltitudine vengano sottratte all’astrazione, e vengano osservate invece nel caldo della vita, nel gioco dei desideri, nella presenza sensibile dei corpi. Per questo la letteratura e in specie la poesia è davvero antinomica rispetto alla guerra. Nella guerra si nega il vivente come vivente, si opacizza il corpo del singolo, con i suoi pensieri, e desideri; quel corpo è solo un numero, è anche reso invisibile; quando quel corpo appare, magari straziato, è solo il passaggio rapido di un’immagine sugli schermi. L’orrore è addomesticato, fatto abitudine, anestetizzato. La letteratura, in tempi di democrazia, può difendere da questa anestesia del tragico, da questa rimozione della singolarità vivente. Così è per tutte le forme di violenza – istituzionali, sociali, familiari, di ruoli – che poggiano sulla negazione della corporeità singolare, pulsante, desiderante dell’individuo, forme di violenza che si esercitano nei rapporti di lavoro e nella stessa organizzazione del lavoro, nei rapporti col mondo animale e con l’ambiente. La letteratura, dando forma e vita e ritmo ai corpi, al loro sentire, al loro pensare e agire, dando respiro e presenza ai corpi degli animali, mostrando ferite e distruzioni del mondo naturale, dischiude un campo in cui il riconoscimento dell’altro, della sua vivente e senziente singolarità, è principio di conoscenza, forma di relazione. La letteratura, dunque, come universo – di sapere e di invenzione – dal quale la democrazia può apprendere i modi per compiere qualche passo al di là della sua imperfezione e incompiutezza?

 

* Intervento alla Tavola rotonda del 10 ottobre 2008 presso l’Università della Bicocca, Milano.