L’uomo che legge

Il testo di Lakis Proguidis che proponiamo, nella traduzione di Simona Carretta, è tratto dal n. 50 della rivista «L’atelier du roman» (giugno 2007, Flammarion), che ospita un dossier sul tema: “Romanzo, saggio: affinità elettive”. «L’atelier du roman», di cui Lakis Proguidis è anche il direttore, è pubblicata a Parigi dal 1993.

Fotografia di Simona Carretta

Cominciamo dall’inizio:

 

Illustrissimi e molto cavallereschi campioni e nobiluomini, e voi tutti che volentieri vi dedicate a ogni cosa onorevole e gentile, io so che, or non è molto, avete visto, letto e conosciuto le Grandi inestimabili Cronache dell’enorme gigante Gargantua e, da bravi credenti, le avete tenute per vere tal quale la Bibbia ed il santo Vangelo; e spesso anche le avete prese a passatempo, in compagnia di rispettabili dame e damigelle, traendone lunghi e bei racconti, quando, come capita, non sapevate più di cosa parlare; per lo che siete meritevoli di grande lode e memoria sempiterna.

E per quanto sta in me, sarei proprio contento se ognuno lasciasse il suo lavoro, mandando a ramengo gli affari ed il mestiere, per farsi solo ed esclusivamente banditore di quelle, senza che il suo spirito ne fosse altrimenti frastornato o distratto; fintanto, dico io, che le avesse imparate a memoria. Cosicché, se per avventura l’arte della stampa venisse meno, o nel caso che andassero distrutti tutti i libri, chiunque potrebbe in avvenire raccontarle per filo e per segno ai propri figli e tramandarle ai propri discendenti ed eredi, come da una mano all’altra, al pari di una sacra cabala; poiché da esse si ricava maggior frutto di quanto non possa pensare una congrega di stronfioni che so io, tutti ingreppolati, e che di queste mie piccole facezie capiscono assai meno di quanto non capisca di pandette Mastro Raclet. [trad. it. di A. Frassineti, BUR]

 

Questi sono i primi due paragrafi del prologo di Pantagruele. Lione, 1532. L’epoca delle grandi fiere. È con queste frasi di Rabelais che prende davvero il via l’arte del romanzo, che essa viene alla luce. La gestazione è durata quasi due secoli. Il romanzo era nell’aria a partire dal Decamerone di Boccaccio. Se ne può discutere, naturalmente. In ogni caso, ciò che sembra indiscutibile, se abbiamo l’intenzione di intraprendere un dialogo estetico, è la necessità di ammettere due assiomi: primo, ciascuna arte nasce in un momento preciso; secundo, tale momento non deve essere troppo lontano da quello in cui l’arte in questione raggiunge il suo apice. Osserviamo così, dopo Rabelais, a quale straordinaria velocità cresca, proliferi e si ramifichi l’albero del romanzo. Bisogna allora cercare le radici nel cuore dell’antichità romana? Si, perché no? Certo, perché no? Ma, in questo caso, il nostro dialogo sarà tutto – storico, antropologico, filologico e così via – tranne che estetico. Se vogliamo discutere di arte cinematografica, essa ha inizio con i fratelli Lumière. Se invece sono i racconti in immagini che ci interessano, allora possiamo risalire agli affreschi scoperti nelle tombe dei faraoni. Per farla breve, stando alla mia modesta opinione, il romanzo nasce a Lione nel 1532.

Per quanto riguarda il saggio, le cose sembrano più semplici. Sebbene, anche in questo caso, se ci limitiamo a considerare il carattere non sistematico del suo pensiero, Montaigne – come ha ben dimostrato Takis Théodoropoulos 1 – ha avuto il suo grande precursore: Socrate. Ora, l’arte del saggio, intendendo il saggio come un tutto significativo, come forma letteraria più o meno autonoma, nasce a Bordeaux nel 1580. Dico: forma letteraria più o meno autonoma, perché credo che il saggio non sia completamente autonomo: è impensabile al di fuori dell’ontologia romanzesca. Naturalmente non è che un’ipotesi. Ma prima di proseguire, siamo imparziali, citiamo a sua volta il prologo di Montaigne:

 

Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito. L’ho dedicato alla privata utilità dei miei parenti e amici: affinché dopo avermi perduto (come toccherà loro ben presto) possano ritrovarvi alcuni tratti delle mie qualità e dei miei umori, e con questo mezzo nutrano più intera e viva la conoscenza che hanno avuto di me. Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l’ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi di natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c’è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento così frivolo e vano. Addio dunque; da Montaigne, il primo di marzo millecinquecentottanta. [trad. it. di F. Garavini, Adelphi]

 

Che ha fatto l’uomo europeo nel corso dei decenni che hanno preceduto Pantagruele? Difficile a dirsi. Incontestabilmente qualcosa di grandioso, ma cosa precisamente? Per la civiltà occidentale si trattava di una nuova partenza, ma verso dove? In tutti gli ambiti artistici si è trattato di un’ora di gloria, ma qual è stata l’esperienza estetica fondamentale che ha esaltato gli animi e stimolato i sensi? Se diamo troppa importanza alle sfumature, alle sottigliezze, alle esitazioni e ai dubbi degli storici o se crediamo alle “prove” dei contemporanei, faremo molta fatica a distinguere, e ancor di più a definire ciò che contraddistingue quell’epoca prodigiosa. Esaminata al microscopio, la storia letteraria, dal momento che è di questa che si sta parlando adesso, sembra, «intertestualità» permettendo, come un fiume che scorre tranquillamente a partire da Omero – ammesso che anche Omero non sia solo una convenzione piuttosto imbarazzante agli occhi dei nostri ideologi «postcoloniali». D’altronde, dal momento che la nostra epoca sembra interessarsi più alle influenze, agli scambi tra le diverse culture e ad altri ibridi che alle opere inaugurali, quelle che hanno segnato la storia della nostra civiltà, una discussione sui rapporti romanzo-saggio ai nostri giorni diventa quasi impossibile. Tanto più che non saranno né Rabelais né Montaigne a dirci: guardate, questa è la novità annunciata da Pantagruele o dai Saggi. È solo a posteriori che un’opera diventa, per così dire, inaugurale. Per mezzo delle opere successive e dei commenti critici che ne risultano. Fatto che, di conseguenza, esclude ogni possibilità di dire l’ultima in materia. L’arte avanza all’indietro. Si inventa e, simultaneamente, si ritorna su ciò che è stato già inventato. Altrimenti, niente avrebbe potuto legittimare il dialogo estetico. Si inventa e si ritorna indietro per consolidare i presupposti fondamentali e cercare altre strade, sempre nella nebbia più totale. La nebbia… osserviamo quello che è successo con la traduzione della Poetica di Aristotele da parte di Georgius Valla nel 1498. Per tutto il XVI secolo – il secolo di Rabelais –, non si è smesso di commentare e ricommentare quest’opera, sfortunatamente incompleta. Una cinquantina di libri hanno visto la luce del sole, la maggior parte in Italia. Non saremo lontani dalla verità, mi sembra, se diciamo che i contemporanei di Michelangelo concettualizzavano le loro esperienze artistiche uniche attraverso i «canoni» dell’autorità antica, il che è del tutto naturale. Sul piano teorico, la nuova forma, l’idea mai udita prima nel campo del Bello, l’opera che avvia una nuova era artistica, saranno per così dire sempre filtrati alla luce di quello che è stato già riconosciuto, analizzato, assimilato e apprezzato 2. Da allora, dove tracciare la linea di demarcazione tra Antichità e Tempi moderni? E a questo punto, all’improvviso, un bel giorno, Pantagruele.

Ho ritenuto indispensabile citare all’inizio il principio del prologo perché, se l’opera in questione inaugura davvero un nuovo periodo artistico, ciò si deve vedere non appena si solleva il sipario. Rabelais si rivolge immediatamente al lettore. In questo, imita i venditori delle Cronache di Gargantua. Lo scenario è quello di una fiera, non di un salone del libro, non dimentichiamolo. Bisogna attirare l’attenzione dei passanti, sedurli, che dico, blandirli. Ma appena viene innescata la retorica dei mercanti, ecco che ne viene fuori tutt’altro. Parodia? Pastiche? No, qualcosa di diverso: si crea un senso ex nihilo. Il passante a cui si rivolgono i venditori, i mercanti, è il passante eterno. Deve cadere nella rete tesa dalla tecnica dell’oratore. Chi è? Che fa nella vita? Poco importa. Un passante. Un compratore potenziale. Nel caso di Pantagruele, è l’autore che cade per così dire nella rete del lettore. Questo lettore, il lettore pantagruelico, non è il lettore impersonale, il lettore emblematico della retorica. La sua esistenza è legata alle sue letture. Non è solo sedotto dalle Cronache ma, in modo opportuno, le utilizza per corteggiare le damigelle. In più, trattandosi di un libro eccezionale, vale forse la pena impararlo a memoria, secondo il desiderio di Rabelais, perché possa sopravvivere ad un’eventuale scomparsa della stampa. Ma, in questo caso, è a lui che tocca assolvere il compito della trasmissione. È possibile? E se fosse solo un lettore frivolo? Ecco che s’insinua il dubbio. Ma Rabelais fa attenzione. È il vostro divertimento che conta, dice. Non date retta agli «stronfioni», ai fanfaroni che non capiscono nulla di queste «piccole facezie» e continuate a leggere allegramente le Cronache di Gargantua. Dall’epoca di Omero fino a quel memorabile 1532, leggere (o ascoltare, o guardare) era un’occupazione, una funzione sociale, un compito da assolvere. Con Rabelais, leggere (o ascoltare, o guardare) diventa una situazione umana. Il lettore a cui si rivolge Rabelais non è il lettore in generale, il lettore astratto, ma colui che, in quell’attività ancestrale che è la lettura, impegna la sua esistenza. Si possono addurre mille argomenti per provare che le cose andavano sempre in questo modo? Forse, non ne so nulla. Tuttavia, l’uomo che fa esperienza concreta delle sue letture – Don Chisciotte non tarderà a presentarsi –, è con Rabelais che sale sul palcoscenico. D’altronde, stricto sensu, Rabelais non si rivolge al lettore del regime estetico stabilito e messo in pratica per secoli dai Greci e i Latini. Dalle prime righe della sua opera, egli forma il lettore che concepirà, amerà e vivrà il romanzo come dialogo perpetuo con la sua propria esistenza. Il più grande cliché relativo all’arte del romanzo consiste nell’associare la sua apparizione all’emersione dell’io. È venuto il momento di interrogarsi su questa fandonia. L’io che è in gioco nel prologo di Pantagruele, sia quello dell’autore che del lettore, è prioritariamente, ontologicamente, quello di un lettore di romanzi: sempre pronto a dimenticare se stesso, a mettere da parte i suoi affari personali e a «farsi solo ed esclusivamente banditore» dell’io altrui, un io fittizio, per di più.

Passiamo ora dalla parte del saggio. «Così, lettore – scrive Montaigne verso la fine del suo breve prologo –  sono io stesso la materia del mio libro: non c’è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento così frivolo e vano». Basta voltare pagina e cominciare a leggere davvero i suoi «saggi» per constatare fino a che punto quell’«io stesso» si confonda con le esperienze delle sue letture, vale a dire con le esperienze altrui. Montaigne saggia se stesso, ma non in vitro. La «materia» che gli è propria è il risultato dell’incrocio della sua vita e delle sue letture; risultato sempre provvisorio, sempre in sospeso, sempre da riprendere e revisionare. Non sarebbe falso affermare che Montaigne rilegge da cima a fondo, nella sua maniera anarchica, frammentaria, disordinata, caotica, e che riflette in modo esemplare il mondo misterioso di ogni esistenza umana, i grandi testi del passato. Evidentemente, per quanto riguarda la «rilettura», non rinnova nulla. Segue lo slancio del suo secolo. Ma contrariamente agli umanisti che cercano nel passato la sorgente autentica dei loro ideali, contrariamente agli artisti del Rinascimento che vi traggono ispirazione, Montaigne tenta di rintracciare nel passato le esperienze concrete degli «Antichi» per farle dialogare con le proprie. I suoi contemporanei commentano il patrimonio letterario e artistico (da cui derivano le cinquanta opere sulla Poetica); Montaigne, se posso dirlo, lo esistenzializza, lo fa rivivere nel presente. Penso che questo exploit di Montaigne, questa forma nuova, sarebbe impossibile senza l’arte con la quale Rabelais ha risvegliato l’immaginario europeo. Non parlo di un’influenza diretta. Parlo di cose che passerebbero inosservate senza la conquista estetica che ce le ha fatte percepire come se facessero naturalmente parte della nostra condizione fisica, morale e intellettuale. In questo senso, possiamo affermare che Montaigne è un personaggio di Rabelais: egli concretizza il lettore promulgato dalla nuova arte. Tuttavia, pur essendo per così dire un personaggio romanzesco, il suo ruolo non è secondario. Anzi. È lui che domina la situazione. Dal momento che, ricordatelo, è per servirlo che Rabelais si mette a scrivere. Scrivere per raccontare la vita e le prodezze degli eroi (epopea) o per provare compassione del destino tragico dell’uomo (tragedia) o, ancora, per ricongiungersi con il mondo, con l’universo (poesia lirica) è una cosa. Scrivere di coloro che leggono per sedurre le damigelle è un’altra, radicalmente diversa. Si tratta di un’assurdità, di una digressione, di un’escrescenza, di una deviazione, di un’anormalità rispetto alle prescrizioni degli illustri predecessori di Rabelais. Ma l’insignificanza della situazione, il suo lato banale, prosaico rende per caso insignificante l’opera di Rabelais a confronto con quella di Omero? Potremmo rispondere a questa domanda se conoscessimo il motivo per il quale leggiamo. Ora, l’uomo legge, ma non può dire perché lo fa. Può forse saperlo? No, certamente. Il suo potenziale esistenziale, il suo rapporto intimo, personale con il libro è quasi inesauribile. Rabelais ha appena scostato il sipario dell’esistenza e già una massa di lettori di romanzi invade la scena letteraria dell’Europa, pronti a divorare come un romanzo tutto ciò che è stato scritto prima. Montaigne fa altrettanto: legge le opere di Orazio, Properzio, Virgilio, Giovenale, Catullo, Lucrezio, Cicerone, Ovidio, Lucano e così via, come se fossero romanzi. Da cui dipende, tra l’altro, il fatto che nessun commento critico di un romanzo è così riuscito come quello del saggista, ossia di colui che viene fuori direttamente dal suo grembo. Ammesso che egli si ricordi sempre della modesta di Montaigne. Modestia che non esprime un tratto caratteriale, ma una profonda conoscenza (romanzesca) del lato «frivolo» e «vano» delle nostre esperienze, messe a confronto con quelle altrui.

Cosa dire ancora? Forse questo: il giorno in cui scomparirà il lettore immaginato da Rabelais e concretizzato da Montaigne – giacché, come appare evidente, è questo lettore che sta scomparendo ai nostri giorni, e non il libro stampato, come invece temeva Rabelais –, ricadremo nella condizione di passanti, compratori, consumatori, alla presenza di mercanti (scrittori, critici ed editori) molto meno simpatici dei mercanti delle fiere gargantuesche.

 

[Traduzione dal francese di Simona Carretta]

  1.  (N.d.r.: L’articolo di Théodoropoulos, a cui Proguidis fa riferimento, è ugualmente incluso nel n. 50 dell’«Atelier du roman» dedicato ai rapporti tra romanzo e saggio).  
  2.  Ogni volta che si è tentato – visto che l’uomo è libero – di rovesciare quest’ordine, cioè di costruire prima la teoria e realizzare la relativa opera in seguito, si è ottenuto solo un accumulo di manifesti buoni a fabbricare tesi e specialisti di oggetti mai esistiti.