Come si ride nei romanzi

È uscito da poco in Italia il saggio di Lakis Proguidis I misteri del romanzo. Da Kundera a Rabelais (Mimesis, 2021), a cura e nella traduzione dal francese di Simona Carretta. Questo volume, che avvia una trilogia in progress dedicata a François Rabelais, esplora la categoria estetica del “riso romanzesco” ricorrendo agli strumenti del saggio letterario. Ne proponiamo un estratto dalla prima parte, La parola.

[…] Nei dizionari non c’è traccia del riso romanzesco. Vi si trovano tutti i tipi di riso, ma non quest’ultimo. C’è la grassa risata, il riso dei folli, il riso forzato, beffardo, rumoroso, scoppiettante, sardonico, canzonatorio, il sorriso… Sul riso romanzesco, nulla. Ho il diritto di elaborare delle frasi usando una parola che non esiste? La pratica risponderebbe di sì. Una lingua viva è aperta ai neologismi. Ma il neologismo, connesso alla logica profonda della lingua, acquista un senso dal contesto, dalle parole che gli stanno accanto. Le cose si complicano quando si tratta del riso romanzesco. Poiché, così come io lo intendo, infrangendo le regole fondamentali della sintassi, esso si trova fuori da ogni logica linguistica. Quando ci riferiamo al riso sardonico, è chiaro che “riso” è il sostantivo e “sardonico” è l’aggettivo qualificativo. Mentre, nella mia mente, le due parole, “riso” e “sardonico”, costituiscono un unico sostantivo.

A tale difficoltà di ordine linguistico se ne aggiunge una di ordine ontologico: secondo me, il riso romanzesco non è una sottocategoria dell’ipotetica grande categoria del riso. Nella mia diade lessicale, la parola “riso” non ha più estensione o profondità semantica della parola “romanzesco”. Se consideriamo il riso come tratto antropologico – l’uomo è l’unico animale che ride, diceva Aristotele – non è certamente da quello che deriva il riso romanzesco. Dobbiamo escludere dal nostro pensiero, per quanto si possa escludere qualcosa dal nostro pensiero, il riso fondatore o teologico, quel «ih ih ih» di Satana il giorno in cui l’uomo è precipitato dal Paradiso. Il riso romanzesco è una categoria a parte, nuova, non paragonabile a nessun altro riso non romanzesco. Dobbiamo intenderlo come un’unica parola: risoromanzesco.

Riso e romanzo sono intimamente legati. Si manifestano simultaneamente. Crescono insieme. Si trasformano senza mai separarsi. Un’alleanza segreta, sconosciuta alle altri arti. Un riso teatrale, un riso poetico, un riso cinematografico sono cose impensabili. Queste arti possono provocare il riso. Il romanzo, invece, non provoca il riso: è inconcepibile senza il suo riso. Senza questo riso, non c’è romanzo. «E le lacrime, allora?», mi si potrebbe rimproverare. Non piangiamo quando leggiamo un romanzo? Certo. Ciò prova soltanto che il riso romanzesco può provocare gli effetti emozionali più inattesi e paradossali.

Supponiamo ora, per tornare alle questioni del presente saggio, che il lettore mi creda sulla parola, che ammetta senza riserve che il riso romanzesco costituisca qualcosa di fondamentale per la comprensione dell’arte del romanzo. Ma subito si chiederà: se tale nozione è così essenziale per l’estetica romanzesca, come si spiega che sia stata ignorata per quasi cinque secoli? Me lo chiedo anch’io. Ma i fatti sono questi: il romanzo non ha mai generato un suo commento estetico. Come prova mi basterà ricordare la confusione che regna intorno alla parola “romanzesco”. Per ogni arte possiamo far derivare dal sostantivo un aggettivo che corrisponde grosso modo al primo significato dell’arte di cui si parla: tragedia-tragico, epopea-epico, poesia-poetico, cinema-cinematografico, ecc. Cerco “romanzesco” nel dizionario: «Corrente. Che presenta le caratteristiche tradizionali e particolari del romanzo: poesia sentimentale, avventure straordinarie…». Alla fine, il lessicografo, per farci meglio comprendere il significato della parola, fa ricorso ai suoi contrari: «banale, piatto, prosaico, realistico», significato quest’ultimo che corrisponde proprio al romanzesco così come io lo intendo.

Ritorniamo adesso a Raclet[1]. Poveretto, lo troviamo in piedi intento a insegnare alla sua classe il diritto in modo soporifero. Un fatto che non potrebbe essere più «banale, piatto, prosaico, realistico». Lo zoom operato da Rabelais all’inizio della sua opera sembra espressamente destinato a mettere in valore questo episodio quotidiano, ripetitivo, monotono e, di conseguenza, poeticamente anti-romanzesco, secondo le spiegazioni del dizionario. Si tratta di un caso, esclamerà l’incredulo lettore. Il caso, d’accordo. Diciamo che poi questo stesso caso ha fatto sì che il Quarto Libro, l’ultimo romanzo firmato da Rabelais, termini con il più banale, il più piatto, il più prosaico e il più realistico degli avvenimenti che l’uomo abbia saputo produrre su questa terra:

Dite che ho avuto paura? Replicò Panurge (ai compagni che lo prendevano in giro per la sua paura durante la tempesta). ”Virtù di Dio, nemmeno l’ombra! Ho più coraggio che se avessi ingoiato tante mosche quante se ne impastano dentro il pane a Parigi dalla festa di San Giovanni a quella d’Ognissanti. Ah, ah, ah! Ohe! Che diavolo è questo? Voi magari la chiamate diarrea, merda, cacca, sterco, fimo, deiezione, materia fecale, escremento, zaccaro, buona, fatta, stronzo, scybalo, spyrazio. Per me è zafferano d’Ibernia! Non c’è dubbio! Beviamo!”.

Perciò delle due l’una: o Rabelais non ha scritto romanzi – dal momento che il  “romanzesco” ha orrore del caso e della merda – o il nostro dizionario è inesatto.

Sarebbe troppo bello vedere la realtà ottemperare alle nostre deduzioni logiche. Non essendoci mai tale possibilità, ricordiamo, a proposito del romanzesco, le principali ragioni che gli impediscono di acquisire un significato univoco accettato da tutti. Uno: Rabelais non ha scritto romanzi ma cronache comiche, simili a quelle che circolavano ai suoi tempi sul gigante Gargantua. Due: la parola “romanzo” esiste dall’XI secolo, quattro secoli prima di Rabelais. All’inizio la parola indica dei lunghi racconti in versi scritti in lingua romanza (antico francese) in opposizione al latino (Chrétien de Troyes ha scritto dei romanzi). Tre: i filologi (insegnamento secondario e universitario) hanno sostenuto a lungo che il romanzo ha inizio con La Principessa di Clèves (1678) di Madame de La Fayette (1634-1693). Tesi generalmente appoggiata da tutte le vulgate sociologiche. Quattro: come da me sostenuto in un precedente saggio, la nascita del romanzo risale al Decameron (1350) di Boccaccio (1313-1375). Cinque: i dizionari restano fedeli al romanzesco dei romanzi di cavalleria, scritti tra il XII e il XVI secolo, opere poco inclini ad accogliere l’elemento ordinario, banale, prosaico e realistico. Sei: il commento letterario, anche quando si occupa delle origini del romanzo, lo fa, nella maggior parte dei casi, attraverso la storia delle altre arti. Da questa prospettiva il romanzo rimarrà sempre una realizzazione poetica debitrice, un genere letterario, non un’arte autonoma. Sette: a questa confusione terminologica, bisogna infine aggiungere il fatto che la parola “romanzo”, così come appare nelle diverse lingue europee, non rinvia alla stessa radice semantica: novel in inglese (1730), powieść in polacco (XVIII secolo), skáldsaga in islandese (1860), ecc. In conclusione: se risulta già difficile trovare, nell’ambito del francese, un’intesa sul termine romanzesco, un’intesa translinguistica appare decisamente impossibile.

Tuttavia, malgrado questa confusione o, anzi, a causa di questa, dobbiamo continuare a credere alle forze intime del romanzesco. Il commento estetico, anche se di natura eteronoma, anche se sempre dipendente dall’opera d’arte, non cessa, a suo modo, di essere un’attività creatrice, cioè un’attività che non può ridursi a un lavoro oggettivo, alla ricerca di un osservatore neutro, imparziale. Perciò, ogni parola che utilizzo, ogni frase che elaboro nell’ambito di questo saggio riflette la realtà complessa e insopprimibile del romanzesco e allo stesso tempo la mia volontà personale di cogliere il potenziale artistico secondo cui Rabelais e Kundera, Papadimantis e Dos Passos, Flaubert e Ōe, Dickens, Proust, Sabato, Grass, Tolstoj e Gombrowicz praticano la medesima arte.

Sorge una domanda: se il passato è pieno di equivoci tali da rendere impossibile un’intesa sul significato di romanzesco e se, inoltre, molti romanzieri, a cominciare da Rabelais, non sembrano particolarmente interessati a far figurare le loro opere sotto la nozione di  “romanzo”, perché ci si ostina a conservare questa parola? Perché non sostituirla? Perché non ricorrere a un termine più inclusivo, più neutro e, soprattutto, meno corrotto dall’alea della Storia? La domanda è superflua. Poiché questo è precisamente l’orientamento scelto da tutti gli studi letterari condotti da qualche decennio sotto l’egida delle scienze umane: trovare una nozione generica che apra tutte le porte, una parola passe-partout che non disturbi la sensibilità degli scrittori e che, inoltre, lasci i critici letterari liberi di elaborare teorie mirabilmente coerenti, ovvero scientifiche. È così che accade per termini come “novella”, “racconto” e, più recentemente, “fiction”. Per la sua geniale semplicità l’idea è disarmante: dal momento che il romanziere racconta qualcosa, perché non chiamare questo qualcosa “racconto”? O ancora: dal momento che fa lavorare la sua immaginazione, perché non chiamare il risultato finale “fiction”? In effetti, non disturba nessuno. Ma neppure illumina nessuno.

Avanziamo nell’oscurità. Procediamo alla cieca allo scopo di incontrare qualcuno che ha la nostra stessa visione. Il commento estetico – ne sono convinto – non punta alla verità, ma al dialogo umano sull’opera artistica. Non so se tutti coloro che credono nelle scienze umane sono consapevoli del fatto che i loro lavori non suscitano il minimo dialogo. Il dialogo a cui penso significa: linguaggio umano, voce personale, rapporto affettivo con l’arte. Un fossato invalicabile lo separa dall’attuale incomprensibile linguaggio degli specialisti e altri addetti all’interdisciplinarità (sic). Il discorso critico, per ricorrere a una terminologia in voga, non può, pena una sfrenata senescenza, rinchiudersi dentro una propria lingua, una lingua tecnica, che si vuole neutra, zeppa di termini gergali, una lingua altra da quella umana dell’arte. Supponiamo, tuttavia, che una miracolosa operazione chirurgica riesca a eliminare l’attuale commento critico dai suoi termini falsamente scientifici. Riuscirà a ritrovare la sua autenticità? Niente è meno certo. Il problema più spinoso generato dalle scienze umane viene dalla loro attitudine a trasformare in concetto ogni parola che sfiorano. No, il ritorno a una critica all’altezza degli enigmi suscitati dall’arte non è soltanto una questione di semplicità e di chiarezza linguistiche. La cosa imbarazzante è che uno scritto di critica letteraria così come io lo concepisco e un testo di critica scientifico-umanistica possono assomigliarsi come due gocce d’acqua. Salvo che, nel primo caso, abbiamo a che fare con delle parole, mentre, nel secondo, con dei concetti. Lo sviluppo delle scienze umanistiche, la loro diffusione, il loro successo, non rappresentano nient’altro che la sclerosi progressiva di una lingua comune che si pratica attraverso una continua sovrapposizione di concetti. Concetto: parola da cui si è sottratta la parte umana. Nell’opera di Vladimir Propp la parola fiaba si trasforma in concetto. Analogamente, nell’opera di Roland Barthes la parola racconto si trasforma in concetto. E così di seguito. Parola: etereo rifugio dell’umano […].


[1] N.d.R. Personaggio menzionato nel Prologo di Pantagruel (1532).