Il paesaggio dell’avventura partigiana

Credo che sia consentito allo spettatore/lettore, specie quando di età acerba, trovare nelle vicende partigiane, come in quelle di altri teatri di guerriglia, un tanto di avventura, che del resto è stato confessato, quale molla fondamentale della propria scelta, anche da molti giovani volontari.

di in: Captaplano

Nel film I guerrieri della palude silenziosa di Hill (1981) all’improvviso, lentamente, come quelli di un grosso rospo, emergono dal fango, alle spalle dell’uomo della Guardia Nazionale, gli occhi cattivi d’un guerrigliero cajun, la minoranza francofona che abita le zone paludose della Louisiana. È un essere sorto e impastato della terra in cui vive e per cui combatte, come il Vietcong vegetale della jungla o la schiera di pellerossa che paiono la dentellatura d’una rossastra cresta rocciosa in una pellicola western. O ancora, nel romanzo d’un giovane Balzac che racconta della Bretagna ribelle alla piena fusione con la Rivoluzione francese, les Chouans a piedi nudi, i capelli lunghi uniti alla pelle di capra sulle spalle, epifania del paesaggio vivente e combattente: “Le berme del sentiero sono incassate dentro dei fossi, la cui terra è ributtata senza posa sui campi, scavando delle profonde scarpate coronate d’ajoncs, nome dato in tutto l’ovest a queste ginestre spinose. Questo arbusto, che si stende in fitte macchie, fornisce durante l’inverno un eccellente nutrimento ai cavalli e al bestiame; ma fintanto che non è raccolto gli Sciuani si nascondono dietro i suoi ciuffi di un verde cupo.”[1]

La simbiosi tra i luoghi e il partigiano, il ribelle “che si dà al bosco” per citare il trattato Der Waldgang di Ernst Jünger, è un dato costitutivo della letteratura resistenziale. E comprende, talvolta con eccesso di retorica talvolta con più opportuno realismo, il rapporto con la popolazione locale. Di certo senza la protezione dei boschi e dell’alta montagna, lo spazio vasto dove transitare per sottrarsi al nemico, il sostegno fattivo dei valligiani, resistere per lunghi mesi sarebbe stato impossibile; per cui il partigiano dev’essere un po’ esploratore e naturalista, un po’ etnologo che parlamenta con le tribù, deve cioè sapere orientarsi al meglio nel territorio per sopravvivere. Ugualmente la città per i Gap deve prevedere una cartografia parallela, fatta di obiettivi, linee di passaggio e di fuga, posti caldi e freddi, covi come tane, e l’occhio va esercitato nella multiformità in movimento della strada, pronto per cogliere il dettaglio da isolare nella folla in cui immergersi, nuotare anonimi, risalire in superficie per l’azione e di nuovo scomparire.

Per contro la natura, come sanno da sempre i suoi abitanti, ha una doppia faccia: in montagna nevica e fa freddo, la carestia può rendere duri i contadini verso bocche estranee da sfamare, quando le foglie cadono il corpo stesso diventa un nudo bersaglio. Insomma “l’inverno è fascista” per citare il Johnny di Fenoglio che gira ramingo per le colline gelate del ’44. Anche la città, seppur meno soggetta alla meteorologia, riserva i pericoli imprevedibili di una pattuglia che sbuca improvvisa, di una via che in un attimo si satura; gli occhi attorno sono molti e non tutti benevoli, un appartamento sicuro può diventare una trappola senza scampo come per il Volontè de Il terrorista.

La piega che ho voluto dare fin dalle prime righe a questo scritto è stata quella visiva di chi trova nel paesaggio cucito attorno al combattente un elemento di fascino. Credo che sia consentito allo spettatore/lettore, specie quando di età acerba, trovare nelle vicende partigiane, come in quelle di altri teatri di guerriglia, un tanto di avventura, che del resto è stato confessato, quale molla fondamentale della propria scelta, anche da molti giovani volontari. In quanto studiosi, che hanno sempre operato per dare una contestualizzazione storica alla letteratura resistenziale e per eliminare la patina romanzesca ai protagonisti secondo la lezione dei grandi romanzieri della complessità e della sfaccettatura, Fenoglio, Calvino, Meneghello, un po’ ci si vergogna dell’approccio ingenuo d’un tempo passato. Però non dimentico che alle scuole medie mi fu assegnato in lettura il mio primo romanzo partigiano, mentre io, insieme a certi ambienti ed eroi del fantasy, della fantascienza o del western, ero ancora avvinto ad un attacco come questo:

Il Gange, questo famoso fiume celebrato dagli indiani antichi e moderni, le cui acque son reputate sacre da quei popoli, dopo d’aver solcato le nevose montagne dell’Himalaya e le ricche province del Sirinagar, di Dehli. di Odhe, di Bahare, e di Bengala, a duecentoventi miglia dal mare dividesi in due bracci, formando un delta gigantesco, intricato, meraviglioso e forse unico.

La imponente massa delle acque si divide e suddivide in una moltitudine di fiumicelli, di canali e di canaletti, che frastagliano in tutte le guise possibili l’immensa estensione di terre strette tra l’Hugly, il vero Gange, ed il golfo del Bengala. Di qui una infinità d’isole, d’isolotti, di banchi, i quali, verso il mare, ricevono il nome di Sunderbunds[2].

In nome dell’ingiustamente ripudiato entusiasmo di sognatore dodicenne vorrei accostare, sulla base delle affinità paesaggistiche, al pestilenziale delta bangalese di Salgari, non lo sfondo alpino o metropolitano più comuni alla narrativa partigiana, bensì quello dominato dalle acque del Po, il nostro Gange nazionale, della Viganò e del suo compagno Meluschi. I Tedeschi tagliano gli argini del fiume e allagano la pianura (la “bonifica”) per cercare di ritardare l’avanzata nemica, uccidendo così l’economia agricola ma creando nel contempo un inedito spazio di lotta:

L’avanzata dell’acqua era lenta, annegava dolcemente il terreno, sommergeva con pazienza i campi bruni già seminati a grano, s’introduceva con curiosità nelle case vuote, le belle fattorie nuove della “bonifica”, abbandonate dai contadini. S’accontentava dei pianterreni: i primi piani rimanevano asciutti, si trattava soltanto di arrivarci in barca. Il Comandante apprezzò la modestia dell’allagamento, dispose gli uomini nelle case più adatte, ricuperò tutte le barche esistenti in un vastissimo raggio, per rendere possibile la complicata manovra dei rifornimenti[3].

Al dominio dell’acqua si sovrappone l’altro fattore naturale del luogo, il “grigio compatto spessore della nebbia” (p. 145), nel quale muoversi silenziosi ed invisibili come fantasmi. Gli stessi ingredienti narrativi di paesaggio, ben più che semplice sfondo, troviamo anche in Antonio Meluschi, nato in provincia di Ferrara nel 1909 e allevato in un brefotrofio della città, che fu autodidatta e pubblicò a Bologna due romanzi pre-bellici (Pane 1936, Strada 1939). Nel 1937 Meluschi sposò Renata Viganò, con la quale condivise l’esperienza resistenziale negli stessi luoghi, tra l’altro pubblicando a Imola il ciclostilato clandestino «La Comune»; nel dopoguerra continuò un’attività editoriale legata alla Resistenza con la fondazione della rivista «L’Indicatore Partigiano» (1948-52) e la pubblicazione di documenti e testimonianze di area emiliano-romagnola dal titolo Epopea partigiana (1948). Su quelle vicende tornò con il romanzo L’armata in barca, uscito un anno prima della morte; qui un comandante senza nome, costretto a lasciare Bologna per combattere nelle valli di Comacchio, ci arriva superando un posto di blocco tedesco e si sente subito protetto dalla nebbia che gli cade alle spalle come un sipario capace di toglierlo alla vista e dalle mani nemiche: “La terra, in fondo, pareva avesse alzato un muro divisorio; la nebbia, grassa, lanosa, attaccaticcia, copriva tutto, alberi, case, strade, e la macchina vi scomparve dentro come in una galleria.”[4]. La consistenza spettrale, mobile, capace di comparire e ritirarsi in un attimo come un pericolo che s’addensa, della nebbia sembra quasi una trasposizione della guerra partigiana:

La nebbia, nella valle, c’è sempre, come se fosse la sua casa; cade dall’alto, viene su dal basso, dalla terra che fuma, quasi che sotto di essa bruciasse un fuoco il cui fumo è freddo, umido, e bagna come la pioggia. A volte staziona a blocchi, a larghi sterminati quadrati, qui c’è, più avanti uno spazio libero, poi ancora si addensa, pare aggrumarsi e cento metri più in là un altro squarcio chiaro e trasparente come una bottiglia lavata, e così per chilometri e chilometri, simile a un capriccioso gioco. (p. 18)

D’altra parte vivere in quell’atmosfera soffocante e tetra, di una consistenza tenace sugli abiti, dai rumori ovattati e dai confini incerti, non sembra sempre facile per gli stessi resistenti: “Anche quel giorno venne scuro. La nebbia bagnò la campagna, un’ondata fitta e leggera. Fu notte a metà del pomeriggio, e come se fosse davvero notte i partigiani dormivano.” (Viganò, p. 220). Le stagioni hanno un impatto differente rispetto ai compagni di montagna: per questi ultimi i mesi del sollievo meteorologico partono in primavera, quando rinasce il fogliame protettivo del bosco, per gli uomini della palude essa rappresenta la perdita della loro opprimente alleata: “Il suo nemico è il sole, che d’inverno, spesso, perde la sua perenne battaglia, ma in primavera e d’estate si vede, si sente la furia, e la spezza, la straccia, la trafora, poi, come una grande scopa, spazza il cielo, lo pulisce, lo rende terso, lucido, pallido.” (Meluschi, p. 18). Ma se la nebbia è un contorno anche psicologico importante, l’acqua resta al centro del racconto, per esempio spingendo Meluschi a riprodurre effetti visivi (“il giorno che nasceva, e la biancastra stranezza dell’aria, che sembrava un vetro smerigliato, si stingeva adagio adagio, ma rimaneva con un fondo verdastro, e a tratti invece aveva venature gialle, mentre il notturno nero dell’acqua si era mutato in colore turchino.” p. 18) e sonori (“tutto risuona come un’immensa campana”; “tutti scoppiarono a ridere, e l’eco, sul pelo dell’acqua, si ripercosse a lungo, e sembrò che la valle  fosse esplosa in una solenne risata.” (pp. 18, 19) che arricchiscono per forza stilistica le pause della trama. Sul piano concreto le acque sono fondamentali in primo luogo come vie di comunicazione; ecco allora ne L’Agnese il profilarsi della sagoma amica agli occhi dei personaggi ma pure nell’immaginazione del lettore: “L’unica gioia: l’arrivo delle barche. Spuntavano, una, due, cose nere che crescevano, prendevano forma, sembravano nascere a poco a poco dall’acqua” (p. 161). In particolare alcuni passaggi notturni, con l’alternarsi del buio più fondo e del lume di luna sull’acqua ferma, con la permeabilità del luogo agli uomini animalizzati o resi ormai elementi naturali (“il vento”), stimolano memoria e fantasia visive dell’imberbe lettore/spettatore:

Quando le due squadre si furono inoltrate fra i vasti canneti di Campotto dovettero arrestarsi davanti a una larga distesa di acqua, e la staffetta lanciò il desolante lamento del gufo, e da lontano fiorì nel silenzio il lugubre stridio di un altro gufo, poi dopo qualche minuto, sull’acqua scura come l’inchiostro, videro nel riflesso argentato della luna profilarsi una mezza dozzina di barche. Si imbarcarono, e la staffetta restò a terra, disse – ciao – e si infilò fra le canne, che si agitavano come se vi passasse in mezzo il vento. (Meluschi, p. 17)

È soprattutto Viganò a mostrarsi sensibile verso il risvolto negativo dell’ambente, laddove il marito narratore si limita a sottolineare la presenza in folla di enormi e aggressive zanzare. Il quieto notturno alla Fenimore Cooper può infatti comportare una certa fatica in determinate condizioni meteorologiche (“Tom che spingeva come un disperato col paradello per venire avanti controvento” p. 144), o addirittura trasformarsi in una tempesta d’acqua dolce contro cui gli uomini devono combattere: “S’era levato anche il vento, un vento pazzo, da tempesta, correva su tutta la valle. […] prigionieri ancora di quell’acqua scura, sconvolta, piena di erbe e di fango, ma già avviati verso la terra, dove si respirava aria propria […] Era tanta la voglia di salvarsi che avrebbero remato con le mani, spinto la barca con le mani, pur di arrivare a riva, di essere fuori dall’acqua, di mettere i passi sul suolo che non tremava.” (pp. 196-97).

La natura insomma mostra due volti contrapposti: da benigna può diventare pericolosa nemica, oppure ancora logorare psicologicamente attraverso l’allucinante monotonia della stasi acquatica; in particolare Tonitti “piange, dice che in mezzo all’acqua non ci può più stare, che ha paura” (p. 144). Ma tutti spingono il Comandante a rompere l’accerchiamento palustre (“Via, via dalla casa, via dalla prigione” p. 197), sottolineando per paradosso l’innaturalità della nuova condizione come spigata da Agnese: “Sono sempre stati male. Da quando sono entrati in quella casa con l’acqua. Non è un posto adatto. Hanno paura: tutti hanno paura dell’acqua” (p. 173). E proprio su questo piano narrativo-paesistico d’avventura che si giunge allora a rappresentare una certa contraddittorietà dell’esperienza partigiana in due autori segnati da un fin troppo ideologico posizionamento, non privo anche di ingenuità e semplificazioni; ciò a testimoniare quanto talvolta le letture primigenie possano contenere un germe imprevisto di consapevolezza, buono per letture più smaliziate.


[1]H. de Balzac, Les Chouans, Paris, Gallimard, 1961, p. 109. La traduzione è mia.

[2]E. Salgari, I misteri della jungla nera, Genova, Donath, 1895, p. 1.

[3]R. Viganò, L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1994, p. 134.

[4]A. Meluschi, L’armata in barca, Milano, Vangelista, 1976.