Gramsci, per una socialità progressiva

All'interno del più rotondo anniversario della nascita del Partito comunista d'Italia (gennaio 1921), quest'anno cade anche quello di uno dei suoi fondatori, Antonio Gramsci, nato il 22 gennaio 1891. Una delle porte più agevoli per entrare nella biografia, se non nell'articolata opera, del pensatore di Ales, restano Le lettere dal carcere.

di in: Inattualità

Propongo un sintetico approccio a Le lettere dal carcere attraverso i sei fattori essenziali presenti in ogni atto comunicativo e canonizzati da Roman Jakobson in Linguistica e poetica del 1960 insieme alle sei relative funzioni linguistiche. Fin nella prima parte dell’epistolario di Gramsci si assiste a una stretta interrelazione tra le funzioni comunicative. Vi è preliminarmente l’elemento fatico, che s’interroga sulle difficoltà del contatto e stabilisce quindi le regole della corrispondenza:

Ma non mi sembra possibile che tutte le tue lettere siano andate smarrite; penso allora che ci sia un qualche misterioso provvedimento per cui una parte della mia corrispondenza non mi venga trasmessa. Non sono neanche sicuro, pertanto, che le mie lettere ti giungano; nel caso affermativo, e per ogni evenienza, pensando che nelle tue lettere ci sia stato un sia pure lontano accenno al provvedimento che mi ha colpito, ti prego di evitare tali possibili accenni, anche i più vaghi e indiretti e limitarti alle sole notizie famigliari. (26.2.1927).

Riflettere sugli intoppi della comunicazione conduce inevitabilmente anche alla funzione metalinguistica, ovvero a considerare il codice epistolare. Alla autolimitazione degli argomenti segue poi un’autocensura sui sentimenti. Ciò forse influisce sul netto abbassamento della funzione emotiva, cosicché il mittente-Gramsci si mostra in limitata evidenza:

Vedi, in questo tempo, sapendo con certezza che le mie lettere sarebbero state lette secondo le disposizioni carcerarie, mi è nato una specie di pudore: non oso scrivere intorno a certi sentimenti e se cerco di smorzarli per adeguarmi alla situazione, mi pare di fare il sacrestano. (9.12.1926).

Un altro fattore comunicativo, quello riguardante il destinatario, contribuisce al tono smorzato. È Tania, sorella della moglie sui cui rapporti freddi col detenuto ritorneremo, che va sostenuta e consolata dal confinato: “Spero di averti fatto un po’ sorridere: mi pare che il tuo lungo silenzio debba essere interpretato come una conseguenza di una melanconia e di stanchezza e che fosse proprio necessario farti sorridere.” (15.1.1927). In senso più ampio l’andamento leggero risponde ad una scelta programmatica di filosofia dell’ironia e del distacco:

Oggi, tutto un ciclo di mutamenti si è già svolto, perché sono giunto alla calma decisione di non oppormi a ciò che è necessario e ineluttabile coi mezzi e nei modi di prima, che erano inefficaci o inetti, ma di dominare e controllare, con un certo spirito ironico, il processo in corso. (27.2.1928)

La distanza tuttavia non si fa mai freddezza, bensì volontà conoscitiva animata da calda compartecipazione. Specialmente durante il confino (Ustica dal 7 dicembre 1926 al 20 gennaio 1927) e nella prima fase carceraria vera e propria l’occhio è curioso e vigile, la disposizione d’animo volta a comprendere e a sorprendersi d’un mondo inedito appare assai pronunciata. Di qui un iniziale, genuino atteggiamento d’apertura e addirittura di divertimento, che non pare determinato solo dai destinatari, ma che diventa la caratteristica più propria all’emittente:

Ti assicuro che, eccettuate pochissime ore di tetraggine una sera che hanno tolto la luce dalle nostre celle, sono sempre stato allegrissimo; lo spiritello che mi porta a cogliere il lato comico e caricaturale di tutte le scene era sempre attivo in me e mi ha mantenuto giocondo nonostante tutto. (9.12.1926)

Del resto il viaggio, gli incontri con altri detenuti di varia specie, la Sicilia sconosciuta, l’aria aperta, la buona salute ed  il morale alto stimolano, in una quasi scampagnata, il gusto del racconto. Il tratto della funzione poetica, quella che ha a che fare con lo stile del messaggio, è appunto la narrazione conversevole: “Scusa la digressione. Ma tu sai come io sia un chiacchierone e mi lasci pigliar la mano da ogni argomento che mi interessa…” (17.10.1927); “Ma parliamo di cose più interessanti, intorno alle quali mi sia possibile di sfogare un po’ la mia mania di infilare quattro chiacchiere.” (30.5.1932).

La “tendenza a ridere e scherzare”, ancora una volta contrapposta volontaristicamente all’immaginazione dei destinatari (questa volta la madre “che si fa un quadro terrificante e romanzesco della mia posizione di galeotto: pensa che io sia sempre cupo, in preda alla disperazione, ecc. ecc.” 27.6.1928), ma, come detto, pure spontanea, porta Gramsci a cogliere piccole scene gustose, quali per esempio l’arresto del maiale per pascolo illegale, che vengono riferite con indiscutibile vivacità. Altre volte l’osservazione, pur mantenendo alla base una forte disponibilità alla simpatia, invece che trasformarsi in aneddoto diventa davvero antropologica: “Scena veramente grandiosa e indimenticabile per tutti, per gli attori e per gli spettatori: tutto un mondo sotterraneo, complicatissimo, con una vita propria di sentimenti, di punti di vista, di punto d’onore, con gerarchie ferree e formidabili, si rivelava per me.” (11.4.1927). Ci si riferiva qui all’“accademia di scherma col coltello” squadernata dai “quattro Stati della malavita meridionale” nel carcere di Milano.

Quindi il proposito di scrivere “una serie di quadretti su tutta la mia vita in questo periodo originale e sufficientemente interessante” (8.1.1927), fa si che invero l’esistenza del prigioniero Gramsci sia un po’ in secondo piano rispetto alla consapevolezza di quanto la realtà circostante possa essere nuova e narrabile. Così la vita in sé, del resto sempre più irregimentata da San Vittore in avanti, viene sbrigata in fretta: “Mi levo al mattino alle sei e mezza, mezz’ora prima della sveglia. Mi faccio un caffè caldissimo (qui a Milano è permesso il combustibile «meta», molto comodo e utile); faccio la pulizia della cella e la toilette. Alle sette e mezza ricevo un mezzo litro di latte ancora caldo che bevo immediatamente. Alle otto vado all’aria, cioè alla passeggiata, che dura due ore. Mi porto un libro, passeggio, leggo, fumo qualche sigaretta. A mezzogiorno ricevo il pranzo di fuori e così alla sera ricevo la cena: non riesco a mangiare tutto, quantunque mangi più che a Roma. Alle sette di sera vado a letto e leggo fino alla undici circa.” (19.2.1927). L’interesse transita perciò sugli studi, sui destinatari e sulla vita attorno di cui si ribadisce la straordinarietà (“Bisogna però tener conto del fatto che in questi cinque mesi ne ho viste di tutti i colori e ho subito le impressioni più strane e più eccezionali della mai vita” 11.4.1927).

Come ogni prigioniero di lunga detenzione l’accumularsi degli anni porta a un rimescolamento delle funzioni, con una prevalenza di quella referenziale che tratta del carcere e dei suoi micidiali effetti sull’emittente. La differenza con il confino è subito netta: “Veramente la condizione di coatto in cui passai il Natale del ’26 ad Ustica era ancora una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato.” (15.12.1930). Il cambiamento di regime fa d’improvviso calare sul detenuto la consapevolezza del male, del tempo e della fine:

In carcere questa svolta psicologica si verifica appena il carcerato sente di essere preso nella morsa e di non poterle più sfuggire: avviene un cambiamento rapido e radicale, tanto più forte quanto più fino a quel punto si era presa poco sul serio la propria vita d’idee e di convinzioni. (20.5.1929)

Vengono allora in evidenza i disagi del carcere e si assiste sgomenti alla progressiva distruzione fisica e psicologica di un individuo. Invecchiato, senza più i denti, tormentato, nonostante “la dieta rigorosa” autoimposta, da disturbi prima allo stomaco poi agli intestini, da tosse con sbocchi di sangue, Gramsci torna spesso sul proprio stato di salute. A farlo soffrire in particolare è l’insonnia: “E’ certissimo che se l’insonnia forzata non determina essa alcuni mali specifici, li aggrava però talmente e li accompagna con tali malesseri concomitanti, che il complesso dell’esistenza diventa insopportabile” (29.8.1932). Ad essa, accuratamente e quasi ossessivamente registrata (“Ho fatto una statistica per il mese d’ottobre: solo due notti ho dormito cinque ore, per nove notti intere non ho dormito affatto, le altre notti ho dormito meno di cinque ore, in misura variabile, che dà una media generale di poco più di due ore per notte.” 3.11.1930), s’attribuiscono i mali e non viceversa (“[…] osservo che se mi risveglio d’improvviso, dopo mezz’ora vengono i dolori viscerali acuti, cioè mi pare che il risveglio interrompa la digestione e quindi provochi i disturbi.” 9.3.1931), andando verso una diagnosi in cui la psiche risulta maggiormente provata: “Il nuovo medico che mi ha visitato […] mi ha detto che alla base del mio malessere è un esaurimento nervoso e non organico. A quanto pare occorre curare anche la mia psiche. Tutto questo, per quanto io possa giudicare, è verosimile.” (24.7.1933)

La sfibrante vita carceraria è cause di svenimenti, perdita della memoria a breve termine, una specie di stato d’allucinazione nel quale “non riuscivo a connettere idee con idee e idee con parole appropriate” (14.3.1933); in definitiva ad un’intermittenza del sé che prefigura la scomparsa finale:

[…] non sono perciò mai riposato e molto spesso mi pare di essere come sospeso per aria, senza equilibrio fisico, nelle condizioni che si hanno quando viene la vertigine e il capogiro o quando si è ubriachi. (9.1.1933)

A fronte dello sfacelo fisico l’emittente non perde occasione di segnalare però, pur senza nessuna posa eccessiva, la propria combattività. Si alternano la sopportazione (“Mi vengono i dolori alle reni e le nevralgie e lo stomaco rifiuta il cibo. Ma è una cosa normale per me e perciò non mi preoccupo troppo” 26.8.1929) alla volontà di cogliere i piccoli miglioramenti e l’irrobustirsi del veterano (“E’ trascorso un anno dal giorno del mio arresto […] Sono molto cambiato in questo tempo: credo di essermi rafforzato e sistemato meglio”, 14.11.1927). Talvolta Gramsci, intellettuale dal fisico gracile, arriva a stupirsi di se stesso (“[…] qualche volta io stesso mi maraviglio di essere tanto resistente.” 19.10.1931). Anche se altrove proprio lui confessava di essere cresciuto ad una dura scuola, cominciata con un lavoro massacrante all’età di undici anni: “Ho conosciuto quasi sempre solo l’aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male” (3.10.1932). Il carcere rappresenta così solo l’ultima prova, quasi fatalmente accettata e prevista sul piano politico, a cui opporre una tenace resistenza, che pare anticipare un futuro terribile per tutti:

Eppure occorre resistere, tener duro, cercare di acquistare forza. D’altronde, ciò che è accaduto, non era del tutto imprevedibile; tu che ricordi tante cose del passato, ricordi quando ti dicevo che andavo alla guerra? (25.11.1935)

Lo studio e la scrittura sono fortemente implicati con il carcere. A volte concretamente l’unico modo per passare il tempo, di dare un senso alla propria esistenza; sono lo strumento di resistenza e, ugualmente, le prime attività che registrano l’avanzante violenza subita da Gramsci. Egli fornisce notizie dettagliate sulla lettura dei quotidiani (cinque più «Il Sole» comprato e le riviste) o dei romanzi disponibili nella biblioteca del carcere di Milano (doppio abbonamento con diritto ad otto libri alla settimana). Ma anche il progetto d’un’opera organica che divenisse il fulcro della propria vita di recluso: “Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.” (19.3.1927). Un lavoro di cui si tracciano i quattro soggetti (gli intellettuali italiani, la linguistica comparata, il teatro di Pirandello, la letteratura popolare) che superasse la copiosa quanto estemporanea produzione giornalistica che, nonostante le offerte, Gramsci non aveva voluto raccogliere: “In dieci anni di giornalismo io ho scritto tante righe da poter costituire quindici e venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano, secondo me, morire dopo la giornata.” (7.9.1931).

Il carcerato non si nasconde le difficoltà dell’impresa, dovute ai numerosi ostacoli frapposti dalla detenzione: “Un vero e proprio studio credo che mi sia impossibile, per tante ragioni, non solo psicologiche, ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente.” (23.5.1927). E tuttavia sono ben presenti le richieste all’esterno per avere novità o bibliografia necessaria al progetto, di cui si da talvolta completa notizia, come per esempio “lo schema” del saggio su Cavalcante e Farinata nel X canto dell’Inferno dantesco (21.9.1931), oppure si comunicano riflessioni cogenti come sul concetto di egemonia rispetto alla posizione di Croce (2.5.1932).

Tutti conoscono la ricchezza dei frutti di quel progetto enunciato. E tanto sulla realizzazione che sulle sue forme non pare estraneo il vincolo del carcere. In primo luogo l’isolamento ha forse paradossalmente permesso una maggiore libertà dalle pressioni della censura fascista e pure da quelle del partito, con la sua rigida ortodossia, le imposizioni, le discussioni ideologiche talvolta estenuanti. Del resto la libertà di giudizio di Gramsci ne fanno in carcere un emarginato dal collettivo comunista di Turi, mentre Stalin guidava le epurazioni del 1929. Gli si rimproverano anche i privilegi tipici dell’intellettuale e tale diffidenza non cesserà certo dopo il 1931, quando Togliatti sarà perfettamente informato della posizione eterodossa del prigioniero.

Tuttavia un esempio di tale emarginazione virtuosa potrebbe essere proprio il tema dell’egemonia culturale che sfugge al dogma della cultura quale sovrastruttura della dominate economica. Ad esso collegata si trova la storia degli intellettuali con l’originale presa in carico della formazione del pubblico attraverso la diffusione di libri e giornali, nonché il riconoscimento di una cultura letteraria popolare, dotata di tratti propri da indagare, spesso in contrapposizione all’elite intellettuale italiana. Dal pianeta nascosto del carcere arrivano valutazione spregiudicate sugli scrittori “distruttori” (i futuristi, Pirandello), per i quali la pregiudiziale politica non fa aggio sulla valutazione intrinseca o sociologica, con uno sguardo assai meno condizionato rispetto a quello dei successivi critici marxisti (e gramsciani), quali Alicata o Salinari, inquadrati, contenutisti e ottimisti. Allo stesso modo l’andamento aperto e ipotetico del saggismo gramsciano potrebbe scontare anche una mancanza di bibliografia adeguata, nonché di confronto, quasi diventando un dialogo solipsistico, a cui lo stile provvisorio tien dietro. Quanto al modo di scrivere personalissimo, nel quale si riscontra la continuità con i pezzi di «Ordine Nuovo», la necessità di sfuggire alla censura comporta le perifrasi e tatticismi verbali. Il progetto grandioso di riflessione e di scrittura dei Quaderni pare del resto in sé necessariamente destinato all’incompiutezza. Il ruolo del carcere allora andrebbe probabilmente rovesciato, ponendolo all’inizio quale paradossale detonatore più che alla fine come impedimento decisivo. Certo, rispetto alla prova intellettuale dei Quaderni, le lettere restituiscono maggiore presenza all’emittente e al contesto-carcere con un di più affettuoso e conoscitivo per il lettore.

In Gramsci la centralità della funzione poetica è forse in parte determinata dalla problematicità di quella fàtica. In primo luogo una drastica selezione dei destinatari viene dalle norme carcerarie: a Milano si potevano scrivere due lettere a settimana, a Turi prima una sola e più tardi anche qui due alla settimana e soltanto ai parenti. La moglie Giulia, che doveva comunque essere la prima naturale interlocutrice, scrive poco e quasi sforzatamente. La sua malattia si era aggravata e si sommava alla lontananza; in più Gramsci dovette capire che, dopo il proprio isolamento attorno al Trenta, rispetto alla linea stabilita dal Komintern, la famiglia Schucht viveva a Mosca giorni difficili. Così le differenze si approfondirono. Quanto alla cognata Tania, che risiedeva a Roma ed è sempre stata vicina e soccorrevole nei confronti del detenuto, fin dai tempi di Ustica viene invitata a scrivere supplendo alle carenze epistolari della sorella. Destinatari non secondari, appena un po’ cresciuti, sono i due figli Delio e Giuliano. La loro lontananza (il secondo non fu nemmeno conosciuto dal padre) rappresenta una vera e propria mutilazione di sé e del mondo: “Mi manca proprio la sensazione molecolare: come potrei, anche sommariamente, percepire la vita del tutto complesso? Anche la mia vita propria si sente come intirizzita e paralizzata: come potrebbe essere diversamente se mi manca la sensazione della tua vita e di quella dei bambini?” (19.11.1938).  In particolare si evidenzia la trepidazione per l’impossibilità di seguirne la crescita morale e intellettuale: “Ma tu dài loro un indirizzo? Come partecipi alla loro formazione? Quante cose vorrei sapere che forse non saprò mai!” (28.11.1932). Ecco allora il rivolgersi direttamente a Delio e poi, con ugual stile, a Giuliano. L’inventiva affabulatrice già riscontrata si rafforza a fronte del destinatario-bambino; nella favola del riccio (22.2.1932), nella storia della volpe e del polledrino (10.10.1932) Gramsci mette tutta la sua disperata tenerezza. È un mondo in parte attinto a quello dei propri ricordi sardi, a cui pure cerca di appassionare gli interlocutori, così come in parallelo cercherà di figurarsi, attraverso le parole (ma anche, in modo struggente, con le fotografie), la vita dei figli. Non viene comunque mai soffocato il tratto pedagogico tipico di Gramsci, cosicché si alterna la disponibilità al dialogo e all’aiuto (“Quando nelle mie lettere qualcosa ti dispiace, è bene che tu me lo faccia sapere e mi spieghi le tue ragioni”) con il rimprovero (“Non credo neppure che ti possa far piacere che il tuo babbo ti giudichi dai tuoi bigliettini come uno stupidello che s’interessa solo della sorte del suo pappagalluccio, e fa sapere che sta leggendo un libro qualsiasi” 16.7.1936). E infine l’abbandono fidente, seppur insidiato dalla domanda finale, in una socialità progressiva, che vale per tutti i lettori dell’epistolario e che continua ad essere il miglior lascito del Partito comunista d’Italia e del suo fondatore:

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così?