Certe sere Pablo

Alberto Volpi recensisce Certe sere Pablo dello scrittore romano Gabriele Pedullà

di in: CaptaplanoDe libris (0)

 Gabriele Pedullà con Certe sere Pablo (Einaudi 2024) torna a una raccolta di racconti come nell’esordio del 2009 Lo spagnolo  senza sforzo. Forma esplorata in profondità anche da studioso attraverso le antologie resistenziali (quella sulla letteratura europea di recentissima uscita) e risorgimentale. Secondo la vulgata di origine anglosassone il racconto è un meccanismo perfetto e micidiale, dunque difficilissimo da costruire, con cui si inchioda il lettore. È forse il caso di È un soffio, basato su di un evento che scatena il cambiamento (probabilmente già latente) del protagonista e si chiude su un ultimo colpo di scena. In realtà il racconto che dà il titolo al volume, non a caso di paginazione non tanto dissimile dall’agile romanzo Lame del 2017, mostra che la temporalità può essere dilatata quasi su un’intera vita. O per lo meno ad una giovinezza, come il testo d’apertura Portolano degli anni bisestili, che evidenzia invece la presenza autobiografica, restituita quasi diaristicamente con una rara seconda persona, a fronte degli altri due pezzi, più distanti nell’affrontare storia e società. Ci soffermiamo sul tempo del racconto perché, nell’unità del luogo costituito da Roma, vari momenti del nostro dopo guerra sono l’oggetto principale della narrazione: la breve stagione delle vittorie elettorali dei sindaci di sinistra nel periodo di Tangentopoli, coincidente con adolescenza e prima giovinezza del narratore; quello più duraturo (ma non troppo per il secondo narratore) dei movimenti anni Sessanta e infine l’oggi di cui non si vede ancora la fine. Effimeri entusiasmi che parevano preludere ad un rinnovamento e che andarono incontro invece alla rivoluzione conservatrice berlusconiana, fermenti giovanili ben più ampi che però il narratore abbandona trasferendosi, un po’ casualmente, negli Stati Uniti e diventando un docente universitario di diritto commerciale esperto in copyright al servizio del potere economico, estenuati inganni di copia tra intellettuali e creativi che nella vecchiaia scoprono i propri ideali permeabili al più rozzo e vitalista “pensiero” di estrema destra.

Una storia italiana in cui gioventù e vecchiaia paiono in contrapposizione mitica, con una vittoria finale, a breve o lungo termine, del gelo saturnino dei senex (magari travestito sotto la retorica del nuovo); e chi sa che allora lo slancio trasformativo di garibaldini o resistenti sia per Pedullà un serbatoio cui attingere nei momenti, oggi più che mai frequenti, di sconforto. Tre racconti politici che hanno anche avuto il merito di rimettere in circolazione un dibattito sulla letteratura impegnata e che, se ricollocati in diverso ordine, mettono in fila le illusioni dei cinquantenni di oggi, la deformazione precoce o tardiva dei sessantottini, fisica, morale e quasi orrorifica nel vecchio docente attratto ora, dopo un trauma da incidente (forse anche simbolico), da un ripulito lumpen neofascista. In questo osceno biascicare finale su Pinochet, che lascia un sentore di morte piuttosto intenso, diffuso retrospettivamente sulle pagine, e ben ulteriore alla sola politica, val la pena di recuperare quei lampi, pieni e luminosi, di grazia semidivina propri alla giovinezza individuale e del mondo, di cui l’autore ci ha dato un riuscito saggio anche in Lame.

Emerge allora la figura doppia di Pablo e Clara: la fusione di due perfezioni, in primo luogo corporali, dentro alla storia in tumulto, come Majakovskij e Lilja Brik nella cavalcata d’Ottobre; sogno di chiunque, ma vissuto da pochi, irretiti qui dalla paradossale malinconia del non provato. Così congruente con la trasparenza e mobilità della scrittura di Pedullà. Clara attraversa le tappe canoniche di quegli anni, dall’India al femminismo fino a una galleria d’arte; via via in modi sempre più insoddisfacenti rispetto alla magia giovanile e al contraccolpo che aveva contenuto. Già perché il fascinoso Pablo, genietto della ricerca scientifica al Cern, episodico e medianico oratore d’assemblea, nonché fidanzato ideale per una famiglia alto-borghese con finestre su piazza Navona, si rivela, come il protagonista de Il nemico di Carrère, un millantatore di talento. Non portato alla vergogna e alla tragedia però, ma a reiterare sfacciatamente, alla maniera di una divinità minore o di un trickster, le sue metamorfosi truffaldine e beffarde. Oppure Pablo di volta in volta ci crede per un poco? Il narratore non lo fa mai parlare, un po’ protervamente lo interpreta senza esaurirlo; al lettore resta così l’impressione che la sua scioltezza, mai punita eppure degradata, capace di sfuggire (fino ad un certo punto) al tempo, possa essere il riflesso di un’arte (o arte di vivere) libera, marginale e cialtrona, che unica forse resta infine a testimoniare un’epoca. 

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