
Il «Palariso» di Isola della Scala, a sud di Verona, ha il fascino sgargiante di un enorme capannone da Oktoberfest padana: entrandoci, ti accoglie in un tripudio di filamenti luminosi che sull’ampia copertura in legno corrono paralleli alle lunghe file di panche da birreria sottostanti, e già ti immagini la caciara nei giorni di pienone. Oggi però è ancora vuoto, a parte qualche sparuto operatore tra gli stand gastronomici che si susseguono ai margini del padiglione. È un pomeriggio già buio di novembre e tra poche ore sul palco dell’adiacente Showtime Arena salirà Paolo Benvegnù, ex-Scisma e targa Tenco 2024, per la quarta data del tour di Piccoli fragilissimi film reloaded, che ripropone a vent’anni di distanza i brani del suo primo disco solista – o dei Paolo Benvegnù, se si preferisce – riletti e impreziositi da duetti con diversi artisti. Alcuni fra questi intervengono come ospiti in una data o l’altra, e stasera è la volta di Giulio Casale e Lamante.
Al primo mi lega un’amicizia fin dagli esordi degli Estra, rock band trevigiana che tra gli anni novanta e i primi duemila, prima di sciogliersi e poi riunirsi un paio d’anni fa (targa MEI/PIMI come miglior artista indipendente del 2024 per l’album Gli anni venti), non aveva eguali per stilemi e autonomia – va bene, gli Scisma stessi, ma erano appunto un’altra cosa. Casale ha poi intrapreso una carriera solista fra cantautorato, teatro-canzone e letteratura, non troppo diverso in questo da Benvegnù, che pure si è tenuto più fedele alla forma canzone. Fra i due pare esserci anzi una singolare affinità: nei modi e nei tempi di una ricerca artistica sempre più matura, nella cadenza con cui questa si è espressa in opere o spettacoli, soprattutto nella fama ormai consolidata di cantautori-poeti, capaci cioè, sulle orme dei modelli più autorevoli del songwriting nostrano ed euro-occidentale, di esprimere se stessi e il nostro tempo in liriche di solida qualità letteraria, spesso costellate da echi e citazioni, ma dense di valore ancor più quando quegli ammiccamenti si fanno da parte lasciando il campo libero all’originalità di ognuno. È per questo che sono qui: per intervistarli in proposito. Ho chiesto a Marco Olivotto, manager di Casale (e autore delle fotografie di questo articolo), di poterlo accompagnare fin dal pomeriggio, partendo insieme da Rovereto, per strappare ai due artisti qualche dichiarazione pre-concerto buona a farci un articolo. Va’ a saperlo, che non sarebbe stato facile.
Lamante invece, alias Giorgia Pietribiasi, la conosco da meno di un’ora, e le canzoni del suo primo album “In memoria di”, uscito in primavera, le ho ascoltate e apprezzate solo negli ultimi giorni. Con Marco ci siamo fermati a prelevarla alla stazione di Verona, in arrivo dalla sua cittadina natale nell’alto vicentino. Non ha un telefono cellulare, ma ci riconosciamo al volo e in macchina la conversazione prende fin da subito una piega talmente vivace e confidenziale che nel giro di un tramonto, oltre a conoscere alcuni aspetti notevoli della sua giovane esistenza (è del ’99), apprendo che entro il 2025 pubblicherà un romanzo autobiografico e incasso ben tre dritte di lettura, per lo più di autrici o autori di cui fino a quel giorno non conoscevo neanche il nome. È dunque già con un amico e mezza che, all’arrivo a Isola della Scala, affrontiamo lo spaesamento folcloristico del Palariso e ci mettiamo a cercare la Showtime Arena.
Ci arriviamo dopo aver attraversato il padiglione di collegamento, attirati anche dalle sirene di un soundcheck senza voci. Sul palcoscenico, in fondo alla hall già buia, provano alcuni musicisti, e ai piedi del medesimo ci accoglie Luca “Roccia” Baldini, bassista, produttore e sodale di lungo corso di Benvegnù. Sul dorso del golf carminio che indossa sopra la camicia spicca una scritta arancione a caratteri maiuscoli: «non me ne frega un beato cazzo». Il che, se associato al fatto che sul biglietto acquistato on line il concerto si annunci nella cornice della «22° Festa del bollito con la pearà», genera un curioso abbinamento di incongruenze solo apparenti. La prima cosa che mi sentirò dire, infatti, quando di lì a un’ora avrò finalmente a disposizione i due cantautori e mi scapperà una battuta su dove ci troviamo, sarà il seguente ricordo di Benvegnù: “Sette o otto anni fa ho suonato ad Amelia, in provincia di Terni, alla «Sagra della fava fritta», e mi sono sentito veramente a casa”.
In realtà da una semplice verifica la sagra in questione è dedicata alla «fava cottòra», il che fa un po’ meno ridere, però dice già qualcosa su quel che c’è aspettarsi da costui, autore di liriche intrise di passione: ritocchi comici e autoironici a tutto spiano, magari in forma di allitterazioni, a dissacrare il tutto, ma sempre dicendo qualcosa. Perché è parlando di “casa” che inizieremo il colloquio – non prima però di aver assistito ai soundcheck di Benvegnù, sbucato da chissà dove, da solo alla chitarra (Quando passa lei), poi con il gruppo (la sublime Avanzate, ascoltate), quindi con Lamante, che lui abbraccia appena salita sul palco (Catherine, un duetto già da da pelle d’oca in prova) e infine con Giulio Casale, nel frattempo arrivato anche lui, che dopo aver scambiato il suo, di abbraccio – Benvegnù abbraccia tanto, è affettuoso, «sta bene con tutti», come canta alla madre in Sempiterni sguardi e primati –, si appropria della voce di Avanzate, ascoltate prima di accompagnare Paolo in Preferisci i silenzi, il bell’inedito offerto in coda all’album reloaded. I musicisti bravissimi, il suono già rotondo e sapiente, le luci ben calibrate, una grazia diffusa, che avvolge – come sarà durante il concerto; e una scenografia essenziale: collocate qua e là, grandi bobine-pizze e nastri di celluloide che si trasmutano in sinuose silhouette femminili.

Poco dopo accompagno fuori Lamante a fumare. Nel gelo umido dell’alta pianura padana, mi racconta del suo confronto viscerale con il testo di Catherine – che assiste di nascosto alla ripetuta violazione del corpo della sorella Jeanne (d’Arc) –, poi rientriamo nell’Arena e il palco si è svuotato. Solo una donna in nero, bruna e seria, si aggira come poco prima fra il palco e i mixer sul lato opposto della sala lasciandosi dietro una scia profumata di muschio bianco. Che sia l’agente di Benvegnù? Non faccio in tempo a chiederglielo, perché Giorgia mi invita a seguirla verso i camerini, dove si sono ritirati tutti. È qui che inizia la mia impresa: Paolo, nel completo nero che è ormai un suo marchio di stile, ma non ancora incravattato, si mostra fin da subito affettuoso e vivace, restio però al colloquio: sostiene di non avere nulla da dire, che è Giulio che devo intervistare, non lui, e fa battute, non fa che buttarla sul ridere; Giulio invece, cappotto scuro sul pullover a “v” e jeans grigi, è possibilista, ascolta un po’ su cosa vorrei interpellarli e finalmente, quando decidono di uscire a fumare anche loro, li seguo e avvio la registrazione.
Al di là dell’ironia sulla location focloristica – che il targa Tenco più raffinato degli ultimi anni sia invitato a suonare a una sagra dirà pur qualcosa dei tempi che stiamo vivendo – i due sono felici di rivedersi, sicché quando poco dopo ci raggiunge il deus ex machina della serata, l’organizzatore Daniele Pagliarini, hanno per lui parole di gratitudine. È Isola della Scala, si dicono poi, ma avrebbe potuto essere ovunque, tanto poco entrambi sono radicati in un luogo o una città che avrebbe potuto fare da magnete per un evento condiviso: Benvegnù milanese d’origine, Casale pure ma cresciuto a Treviso, il primo oggi accasato a Perugia dopo aver vissuto gli anni giovani sulla costa meridionale del lago di Garda, il secondo tornato in Veneto, oggi a Marostica, dopo che la pandemia lo ha costretto a disdire un affitto milanese. È a questo punto che Giulio, arginando i môts d’ésprit di Paolo, prova ad abbozzare un autoritratto comune.
“In effetti noi due siamo sempre stati dislocati”, dice, “milanesi entrambi in qualche modo, ma…”.
“Sempre fuori asse”, interviene Paolo.
“Già”, fa Giulio, “tu poi passi per bresciano… Però davvero questo ci accomuna, anche a proposito della ricerca letteraria, della poesia. È una cosa che viene anche da questo essere sempre stranieri, no? Sempre fuori posto.”
“Non hai mai una terra a cui tornare.”
“E quindi il poeta, non noi, quello vero, ti dà un’appartenenza.”
“Appartieni all’altrove.”
“Esatto. Non la terra… Io da ragazzo, a Treviso con genitori milanesi, non avevo nessun parente intorno, nessun riferimento. E quindi mi rifugiavo nei dischi, nei libri, innanzitutto nella filosofia, nella poesia, e nella canzone d’autore. La mia casa da bambino era Luigi Tenco. Poi più tardi il rock, ovviamente. Ma quello con tutta la letteratura dentro, sennò non mi interessava. Che so, Lou Reed… Poi dopo scopri un sacco di altre cose, ma cerchi sempre cose che ti diano un senso, nonostante il fatto che ti guardi intorno e non vedi niente… Niente che ti appartenga.”
Chiedo a Benvegnù se sia così anche per lui, se anche per lui la casa non è un luogo e magari neppure un tempo, come chi la individua nell’infanzia.
“No, il tempo non esiste. Lo scopri più avanti che il passato e il futuro sono la stessa cosa, anzi molte cose. A me, ad esempio, adesso sembra di vivere il mio passato, nel senso che uno dovrebbe essere più leggero quando è ragazzo, io invece ero pesantissimo. Perciò trovarmi con lui adesso, senza le inibizioni che avevo nei suoi confronti quando eravamo ragazzi, cioè [rivolto a Giulio] quando tu eri ragazzo…”
“Ci conosciamo da trent’anni”.
“Già, è una cosa bella.”
Benvegnù ricorda la volta in cui, mentre gli Scisma erano ancora agli inizi, invitò gli Estra a una trasmissione radiofonica che tenne per un periodo a Radio Popolare. Dice che per lui quella loro “poetica così alta” fu uno “spalancamento”, così come fu una lezione “potentissima” assistere alle loro relazioni, all’intesa umana all’interno del gruppo. E quando io osservo che anche la sua, di poetica, può essere considerata ugualmente alta, lui di nuovo minimizza: “Ma no, io sono una stratificazione di niente, cioè…”, balbetta, “credimi, non è understatement… Io quello che ho fatto è cercare di sopravvivere, e di fare meno danni possibile, anche se ne ho fatti tantissimi”.
C’è questo, in Benvegnù: il suo percorso personale lo ha portato a riconoscersi in passato una qualche lordura della quale, da un certo punto in poi, si è liberato con tutte le forze, per migliorarsi, per crescere, per amare bene – e anche la sua poetica ne ha risentito. Ma è sulle influenze artistiche che vorrei portare il discorso, quindi gli ricordo che il booklet di Dell’odio dell’innocenza (2020) si apre con le parole «Piccola letteratura quotidiana». (“Anche non piccola…”, commenta Giulio.)
“Ma per sopravvivenza”, risponde, “perché secondo me quando fai questa cosa e finalmente la ripulisci dall’idea della tua posizione nel mondo, del tuo ruolo, allora scopri che hai sette anni, non di più, e sei come in seconda elementare, o in prima, quando ti dicono delle cose, ti danno delle informazioni e tu ti stupisci un sacco, ti sconvolge proprio… E quindi se finalmente smetti di pensare al tuo ruolo riesci a porti in un’altra maniera. Io cerco disperatamente di gettarmi nelle braccia della narrazione dell’altro, per comprenderlo, e poi faccio il gioco, ricreo: è una ricreazione. Ogni tanto poi ho delle belle intuizioni, ma per quelle ho bisogno proprio di condizioni ideali, il silenzio eccetera. Ma quello che ho fatto è cercare di sopravvivere. Ho sempre chiamato qualcosa che ancora non ho trovato: questo è.”
Benvegnù narra poi, senza smettere la concitazione, una specie di exemplum: un tipografo che ha conosciuto e che ogni giorno apriva la tipografia, nonostante la macchina da stampa non funzionasse più, e indossava ugualmente il camice da lavoro, lui e i suoi due compagni, ogni giorno, tutto il giorno a guardare la macchina che non funzionava, per anni e anni. “Avevano talmente bisogno”, commenta, “di fare quello che avevano sempre fatto, per rimanere incollati, per non uscire di testa. Per me è stato un insegnamento incredibile”. Come a dire: l’altro di cui cerco lo sguardo, la storia, lo stare nel mondo è chi mi insegna a sua volta la sopravvivenza, il modo per non impazzire.
Mi torna in mente allora che due mesi prima, quando mi era stato presentato da Marco in occasione di una breve apparizione roveretana, Paolo aveva con sé un volumetto Adelphi, Un apolide metafisico, le conversazioni con Emil Cioran. All’opposto cronologico ricordo invece come agli albori degli Estra Giulio avesse voluto intitolare una plaquette con i loro primi testi Libro di figure senza figure, che è il titolo di un capitolo dei Minima moralia di Theodor W. Adorno. Quanto contano, o sono contate, simili letture nella formazione dei due?
Benvegnù legge Cioran “perché rido un sacco, nonostante tutti lo trovino deprimente”. Trova nel filosofo della disperazione “una deriva celiniana” e sostiene che quello di Cioran, da rumeno qual era anche se “ha sempre fatto parte del primo mondo”, è “un dissacrare da vero sconfitto”, e lui trova questo “eccezionale”. Casale invece parla della dialettica negativa come una delle sue “influenze decisive, fin da ragazzino: tanto per cominciare, riuscire a tacere l’orrore. Se parti da lì, poi forse riesci a intravedere qualcosa di positivo. Ma l’importante è partire da lì: accordarsi su ciò che non è umano. Su ciò che non siamo e non vogliamo, se vuoi dirla con Montale. Ma per me è venuto prima Adorno”.
In quel momento si affaccia sulla porta il Roccia e ci convoca a cena. Rientriamo al caldo e, mentre seguiamo il resto della band attraverso il padiglione degli stand per raggiungere quello principale, il filo del discorso si perde. Provo a interpellarli sui loro lavori teatrali, che nel caso di Benvegnù risalgono ai primi anni duemila e sono più che altro collaborazioni, mentre il percorso di Casale, culminato in un teatro-canzone che ha risentito della lezione gaberiana e omaggiato De André, si è spinto fino ad anni recenti con un adattamento de Le notti bianche di Dostoevskij (2019). Ma non c’è verso, neanche a questo riguardo, di strappare a Paolo una dichiarazione che non sia scherzosa: ricorda soprattutto di aver recitato in un Pinocchio nella parte di Lucignolo, “il che è tutto dire: la persona più ingenua d’Europa che fa Lucignolo…”. Ha invece parole di elogio per l’amico e collega: “Lui trasforma ogni spazio in uno spazio suo”, dice. “Anche i teatri più belli diventano il suo spazio, è una cosa che succede veramente a pochi”.

Con Giulio rievochiamo soprattutto il suo spettacolo Canzone di Nanda (2009), dedicato all’amica Fernanda Pivano (1917-2009). Per lui a contare fu soprattutto, oltre alla lettura dei poeti della beat generation, il rapporto personale con “Nanda”. Fu da questa confidenza, oltre che dai Diari usciti per Bompiani, che nacquero gli spunti per lo spettacolo, forse ad oggi il più noto tra quelli che costellano la carriera di Casale. È a questo punto, mentre prendiamo posto l’uno di fronte all’altro all’estremità di una fila di panche, che Giulio ritrova il filo che avevamo perso per strada.
“In effetti, se ci penso”, riflette, “proprio a partire dalla dialettica negativa si potrebbe dire molto delle scelte che ho fatto, nelle canzoni, nel racconto teatrale, ma anche nella narrativa stessa [le prose di Intanto corro uscirono per Garzanti nel 2008, NdA]. Voglio dire, in generale il rifiuto del mainstream è un rifiuto innanzitutto formale. Nessuno ce l’ha con la semplicità, che è un valore meraviglioso, nessuno ce l’ha con le belle canzoni d’amore. Il problema è formale, è come arrivi lì. Perciò io riconosco Paolo come un autore enorme: perché ci arriva, anche alla canzone d’amore, anche a parlare dei sentimenti, ma senza mai passare per il kitsch, per il luogo comune, per la superficialità, io dico spesso per il sentimentalismo, che è la cifra della canzone pop becera, secondo me, perché tradisce il sentimento anziché cantarlo. E rispetto a un simile tener duro potrei dire lo stesso di me”.
È a questo punto che gli riesce una sintesi della poetica che li accomuna: “C’è una cosa che Paolo ed io ci siamo detti tanti anni fa”, ricorda, “e cioè che quello che stavamo cercando di fare era un po’ quello che c’è in tutta la storia dell’arte, vale a dire: tenere conto della storia della nostra arte, non fare un gesto punk che la azzera, ma tenere conto di tutte le lezioni dei maestri e, sulla base di questo, portare la canzone d’autore un millimetro più in là, dove nessuno è ancora mai stato. Senza pretendere di essere l’avanguardia assoluta o di fare una rivoluzione, appunto, ma dicendo: devo fare una cosa nuova, sennò sto semplicemente citando. Questo forse non trenta, ma vent’anni fa, guarda caso quando uscì il suo primo disco solista, ce lo siamo detti proprio così: stiamo facendo quel passetto in più. Se poi il mercato non capisce, pazienza, è l’unica arte che possiamo fare. Lui poi”, e indica l’amico, che si è seduto alla sua sinistra, “quando mi vuole bene mi chiama il custode, come se fossi, come se fossimo i custodi della bellezza che ci ha preceduto: ecco, questo è il complimento più bello che abbia mai ricevuto. Lui però poi aggiunge: abbiamo scelto di vivere in un paese che premia gli aguzzini e non i custodi”.
Benvegnù annuisce e si aggancia: “È così, è proprio un tratto distintivo di questo paese. E secondo me c’entra tanto che siamo stati sempre dominati, con l’ultima grande colonizzazione dopo la seconda guerra mondiale”.
È con questa virata di Paolo che, mentre ci servono il vino e i primi piatti, la conversazione si porta sull’industria culturale. Benvegnù vede qualcosa di nefasto nell’influenza schiacciante della cultura yankee, tanto più se unita agli inveterati difetti nostrani: il familismo, il lobbismo “e soprattutto la mancanza di coraggio”, che spesso si traduce nel classico “tengo famiglia”. Il che forse a volte, mi dico, porta pure all’autocensura, ma non è certo il loro caso: Paolo, che pure famiglia ne tiene, riecheggia Bob Dylan – “Cosa possiamo perdere? Quando non hai più niente, non è che puoi perdere qualcosa” –, Giulio evoca il Camus de L’uomo in rivolta – “Per prima cosa resistere all’aria del tempo, è questo il primo dovere morale di una persona cosciente” –, poi ricordano come entrambi, in piena “ipotetica” rivoluzione indie, con i loro gruppi uscissero per due major (Emi e Warner), imparando così a proprie spese cosa questo potesse significare: “Vessati dalle major perché non vendi dischi e vessati dai giornalisti perché dicevano: siete dei venduti. Fantastico.” La questione si estende poi alla letteratura coinvolgendo anche Lamante, che prima di scegliere il piccolo editore che le pubblicherà il memoir era stata abbordata da due grandi gruppi editoriali pronti a gettarsi come falchi sui suoi ricordi, pur di metterci mano a modo loro: Giorgia ha cordialmente declinato. Sono questo, i cantautori che tra un’ora saliranno sul palco della Showtime Arena: tre artisti indipendenti fedeli a se stessi e alla storia della propria arte, e disposti a pagarne il prezzo.
Non so poi come da lì siamo tornati a parlare di Cioran, e quindi di suicidio, e di “esseri umani che non muoiono mai”: è come se dopo la poetica condivisa enunciata da Giulio tutto riprendesse a sfilacciarsi. Il discorso si muove allora tra ansia di sparizione e tentazione di esistere, passando per Iannacci, Interstellar e Damon Albarn, fino a stigmatizzare la hybris che ha portato all’attuale devastazione del pianeta. E da qui Benvegnù, con un’ulteriore balzo associativo, passa a parlare di sviluppo tecnologico e di velocità, poi di controllo, di come i social abbiano esacerbato la tendenza già presente nella tecnica di fare del mondo un posto ipersorvegliato, e come questo sia stato ormai interiorizzato nelle relazioni – “Arrivi al punto di non avere più al tuo fianco un compagno o una compagna, ma il tuo controllore, quello che ti dice: ah, perciò non mi stai dicendo tutto, e tu rispondi: ma parte della nostra relazione sta nel fatto che tu devi intercettare il mio mistero!” –, poi subentra Marco citando una canzone di Beatrice Antolini, io chiamo in causa il superomismo di Musk, lui ci attacca anche Trump e a quel punto non so più dove stiamo andando a finire, mentre a tavola si consumano ormai i dessert. Non era di letteratura che dovevamo parlare, dell’impasto lirico dei testi di Casale, dell’inaudita poesia di cui è fabbro Benvegnù?
Ci riprovo, nei minuti seguenti, ma senza successo: è chiaro che i due, presi insieme lontano da un palco, sono un cocktail esplosivo, non un vino di cui scomporre il bouquet. E hanno un sacco da dire sull’esistenza: Paolo Benvegnù con l’autoironia di chi ha guardato nel proprio abisso interiore e da lì ha tratto slancio per andare verso l’altro, Giulio Casale con l’ironia protesa verso l’altro di chi, nella solitudine, ha sempre sott’occhio gli abissi del mondo. O viceversa? Le loro muse, in ogni caso, agiscono nell’ombra, chissà dove, e ormai è tempo di alzarsi da tavola.
A quel punto faccio pure un tentativo con Luca Baldini, che avvicino poco prima che si alzi e che pure so coautore di arrangiamenti senza i quali i lavori dei Benvegnù non eccellerebbero allo stesso modo: lo sa lui, forse, il segreto della poetica di Paolo? Il Roccia è gentile, porta esempi, ma non mi svela niente che non intuissi già; in compenso mi fa notare una cosa, attestata dalla stessa versione reloaded del primo album che tra poco presenteranno dal vivo: non è forse vero che le liriche di Paolo ci parlano oggi come vent’anni fa? Il seme della durata, ecco un altro indizio della dimensione in cui si muove Benvegnù quando lavora con la parola. Ma non si potrebbe dire lo stesso di tante canzoni degli Estra? L’uomo coi tagli, accidenti, è qui che ci bracca da trent’anni senza aver perso un briciolo di smalto.
Li lascio andare, tutti quanti, e quando poi raggiungo anch’io la Showtime Arena la platea ha iniziato a riempirsi. La donna in nero avvolta nella nuvola di muschio bianco è sempre lì, seria seria, e gironzola. Il concerto me lo faccio tutto a tre quarti di sala, tra i mixer e le ultime sedie della platea, a non più di due metri da lei che filma, filma a lungo con lo smartphone, tanto che mi domando se non sia piuttosto la responsabile social di Benvegnù, invece dell’agente. Ma che se ne fa di tutti quei filmati, se poi su Instagram ce ne va una minuscola parte? Intanto mi lascio blandire dal suo profumo, cullato nel contempo, brano dopo brano, dalla musica che, come già nel soundcheck, ha un’impennata affettiva al momento dei duetti. Lamante che in Catherine è da ovazione, Casale proprio come ha detto Paolo: quando sale sul palco, la scena si trasforma, si anima di un’alterità forte, diventa qualcosa di suo. Così per circa un quarto d’ora Benvegnù, la cui postura è invece minimale e che pure tra una canzone e l’altra non ha lesinato sui motti di spirito, si scioglie nell’alchimia della condivisione – salvo poi ritrovarsi unico narratore nel reading di Isola Ariosto (la letteratura, la letteratura!) prima che il concerto si chiuda sulle note di È solo un sogno.
Qualche tempo fa un amico mi ha dato un consiglio: se ti capita di sentire un profumo che ti piace e che magari vorresti sentire ancora, non farti problemi e chiedi alla persona che cos’è. Così, nell’andirivieni finale di fan, amiche, amici e tecnici di palco intenti a smontare, mi decido ad avvicinare la donna in nero, che ora è proprio di fronte al palcoscenico, dove si erge la silhouette in primo piano.
Mi sbagliavo su tutto: non è un profumo, è il suo bagnoschiuma, e lei non è né l’agente né l’ufficio stampa di Benvegnù. Si chiama Lucia Baricci ed è l’artefice della scenografia. Quella davanti a noi è Catherine, mi rivela, mentre le altre sono altrettante figure femminili presenti nelle liriche di Paolo. È felice di dirlo, e finalmente sorride. Di colpo mi figuro la gratitudine che li lega. Grata lei di aver potuto lavorare per lui, grato lui per quel lavoro. Un altro quantum d’importanza reciproca, uno dei tanti che fanno della nebulosa Benvegnù una ridda lucente di costellazioni.
Mi chiedo infine – me lo sono chiesto da quando l’ho incontrato la prima volta, lo capivo dai racconti di Marco e di Giulio, me lo richiedo oggi – se Paolo Benvegnù, che chiama l’amico «il custode della bellezza», si renda conto di quanta bellezza elargisca lui. O forse si potrebbe parlare di “bene”, o di “amore” – ma è inutile parlare d’amore, quando c’è.