Lo slancio iniziale

Che cosa legge l’apprendista, ossia il lettore che scrive, ma non ancora lo scrittore che legge? Come legge, ossia il modo in cui legge è chiaro, gettandosi nel libro incurante di ogni raccomandazione. Ovunque si trovi, in bagno o appoggiato alla tettoia di una fermata d’autobus con in mano un lettore digitale, la sua identificazione non scatta tanto con i personaggi, quanto con la trama della lingua, con il tono in cui la voce narrante procede; l’apprendista si immedesima nella rete di relazioni fra i personaggi, torna a casa con loro dopo una festa lasciandone un paio per riunirsi al primo che aveva seguito, tira tardi con quest’ultimo, assorbe il ritmo del libro e a lettura ultimata ne continua mentalmente le vicende. Questa attività eccessiva, apparentemente innocua, non è priva di rischi. Quando il processo si esaurisce con la sola identificazione nell’autore del libro, può innescare l’entusiasmo di quelli che hanno scoperto in sé una dote insospettabile e perciò scrivono a ruota libera, disseminando la rete di migliaia di post, in una forma esultante di bovarismo. Invece è proprio il caso di ribadirlo: benché metta in moto un’illusione particolarmente necessaria e tenace – e per quanto nel corso del tempo qualcosa della proiezione sui gesti di un maestro si conservi sempre – l’identificazione da sola non basta.

Rispetto alle rievocazioni leggendarie, attraversare questa stagione giorno per giorno risulta meno soddisfacente. Quando si vive l’apprendistato in prima persona, le preoccupazioni crescono con più urgenza, il tono con cui si sostiene un’affermazione si fa drammaticamente agonistico: ne va, appunto, della vita dell’allievo. E ne è andata un po’ anche della mia. Solo un ricordo vago e sottilmente infedele può idealizzare l’atmosfera scolastica. Raccontandola, emergono subito i conflitti, si tratti del Dedalus di Joyce o del collegio infernale di Bernhard narrato nell’Origine. Nei collegi femminili dei Beati anni del castigo di Fleur Jaeggy o del film di Peter Weir Picnic at Hanging Rock (dal libro di Joan Lindsay) emerge qualcosa di violento e di irriducibile, perfino di fantastico. Nel Törless di Musil le relazioni fra gli allievi si contorcono, le esigenze emotive si fanno inconfessabili e in quest’ambito Ferdydurke di Gombrowicz rappresenta il caso limite in cui ogni pretesa formativa precipita in un’aspirazione alla maturità che si rivela volontaristica e per questo impossibile (come è impossibile, tranne che in termini morali, decidere di crescere).

Paragonato alla vicenda scolastica l’apprendistato rimane comunque diverso perché in buona parte lo si sceglie, mentre la consapevolezza con la quale ci si iscrive a una scuola secondaria superiore il più delle volte non è completa, né lo è tanto di più l’iscrizione a un corso di studi universitario. L’apprendista non ha bisogno di incoraggiamento, risulta fin troppo motivato alla pratica in cui vuole impegnarsi. Ma, come già l’identificazione nel modello, anche la motivazione personale non è tutto.

Per un periodo che corre dal Romanticismo alla Seconda metà del Novecento, rendere ragione del proprio impegno letterario si è fatto estremamente difficile. In precedenza, la letteratura di Ancien régime indicava al giovane apprendista un percorso tutto sommato chiaro: il giovane conosceva il bagaglio retorico che avrebbe dovuto fare proprio, i modelli da imitare, in quali generi e forme avrebbe dovuto dar prova di sé. Sapeva dunque a quale carriera aspirare e poteva riflettere sull’ingresso in un’Accademia. Dal Romanticismo in poi, le cose si sono complicate. Cosciente di essere dotato di una soggettività irripetibile, l’apprendista ha dovuto motivare un’eccezione, ossia scoprire l’argomento per cui considerare legittimo tentare di rendere immortale la propria voce. In un primo momento ha cercato di farlo guardando alla propria interiorità, a vicende emotive nelle quali leggere razionalmente il dispiegarsi dello Spirito; in seguito si è accorto che neppure quelle potevano bastare. Dalla metà dell’Ottocento in poi, venuta meno la spinta propulsiva dell’idealismo, le cose sono precipitate: la discussione si è fatta interminabile, come nei dialoghi vertiginosi dell’Idiota di Dostoevskij. L’apprendista è rimasto incerto sull’esistenza di una bottega dove esercitarsi, in dubbio se dovessero bastagli o meno le appendici dei giornali, o se inseguendo la stampa di città vi si potesse poi perdere, come Balzac aveva già mostrato nelle Illusioni perdute. La troppo spesso ricordata aureola del poeta è finita in una pozzanghera dalla quale non sembrava più neppure il caso di andare a raccoglierla.

Così la carriera si è fatta più confusa, tranne per il fatto che al romanziere sarebbe toccata meno gloria che al poeta lirico (ma ne poteva sempre vantare più di un giornalista). Nei primi trent’anni del Novecento si è scritto a patto che l’espressione sfidasse l’impossibile, il che per un narratore non è propriamente il modo migliore di cominciare. Da questo punto di vista non è fuori luogo considerare la Recherche come una scintillante, sterminata giustificazione della letteratura. Persa la sua connotazione temporale, l’apprendistato ha esteso i suoi confini fino a coincidere con la vita intera: al più si poteva uscire dalla sua prima fase, ottenendo la consacrazione attraverso il successo o mediante il giudizio dei propri pari; ma il risultato non era mai definitivo.

Poi, almeno in apparenza, qualcosa è cambiato. In Italia, ancor più del primo conflitto mondiale, l’esperienza del secondo e delle varie traversie che ne sono seguite hanno fornito agli esordienti una solida motivazione al loro lavoro. La Storia ha ripreso il suo corso: finché si è creduto che portasse con convinzione la maiuscola, ossia che fosse dotata di una direzione e di un verso, non è stato difficile motivare l’apprendistato. Molti autori nati negli anni Venti hanno cominciato scrivendo di ciò che avevano vissuto e guardando al di là della claustrofobica chiusura dei confini nazionali. Anche chi non viveva questa illusione, come Fenoglio, ha trovato comunque nel contesto un incoraggiamento a scrivere. Questi autori si fermavano soprattutto sugli esempi americani, sempre generosi nel racconto dell’esperienza.

Fra la metà degli anni Cinquanta e il 1963, vale a dire negli anni del boom, in Italia si è oltrepassata una soglia oltre la quale non è nato solo il secondo Novecento, ma è nata soprattutto l’industria culturale. Gli scrittori emersi negli anni Sessanta hanno trovato spazio nel mondo giornalistico, poi soprattutto editoriale e universitario, talvolta anche televisivo. Penso ad Arbasino, Manganelli, Sanguineti, Eco (all’epoca professore e semiologo). Se pubblicare articoli sui giornali e periodici non poteva certo essere una novità per gli scrittori e in fondo non lo era neppure scrivere sceneggiature – come avevano fatto e facevano Zavattini e Flaiano – lavorare alla radio o alla televisione, negli uffici stampa delle imprese o nella gestione del personale, come Volponi, imponeva nuove necessità professionali. Per quanto apprendistato e attività intrapresa per provvedere al proprio sostentamento non sempre si sovrappongano, in questo contesto si sono talvolta amaramente intrecciate, come ha mostrato l’esempio di Bianciardi.

Ma l’intreccio principale restava con l’insegnamento, che a lungo ha rappresentato – e dagli anni Settanta in poi è tornato a essere con più vigore – la principale fonte di reddito di chi scrive, il vero secondo mestiere. Se il mondo della scuola era consueto, anche i passi dell’apprendistato, soprattutto in centri lontani dall’industria culturale, sono rimasti gli stessi: scrivere su un quotidiano, su una rivista letteraria; esordire, se possibile, nella collana della stessa rivista; cominciare a scrivere su un’altra rivista. Pubblicare il secondo libro. E così via.

2.

Sul finire degli anni Ottanta, conclusi gli esami di maturità ero andato per qualche giorno in un campeggio sull’Adriatico. Mi ero portato il Decameron, i racconti di Kafka e La madonna dei filosofi, il primo libro di Gadda. Libri che avevo già letto o che, nel caso di Gadda, stavo leggendo. Li ricordo rovesciati sull’asciugamano non tanto a conferma della mia illusione letteraria, che aveva radici più profonde, quanto a corredo di una domanda che allora non sembrava tener conto né dello studio, né della letteratura come fenomeno sovranazionale. Quali erano infatti le indicazioni per un possibile apprendistato, che in letteratura rimane prevalentemente un’esperienza da autodidatta? Cosa consigliavano i maestri? Si continuava a leggere Kafka, Musil, Joyce, Virginia Woolf e Proust, anche se questo non per intero.

Sulle riviste che prendevo in mano, Pasolini era proposto come un modello di scrittura saggistica e più ancora di intervento sul mondo (avevo letto le Lettere luterane a sedici anni, su consiglio del mio insegnante di italiano). Disperata e priva di umorismo, la sua voce possedeva però una forza di persuasione appassionante. In un paese poco noto per prendere posizione, a quindici anni dalla sua morte quella scrittura guadagnava ogni giorno credito (un credito simbolico, ideale): sembrava impegnata nella ricerca di una verità pubblica incontrovertibile ed era forse un po’ troppo nemica di una realtà che al suo fondo si scopra costitutivamente ambigua. Se nei saggi Pasolini mostrava un’argomentazione lucida, benché forse troppo influenzata dallo schema dialettico, nei romanzi l’invenzione tanto volutamente popolare rivelava lo sguardo di chi resta o di chi è lasciato in disparte: la partecipazione emotiva non sembrava mai davvero piena. E per quanto la vicenda di Tommaso Puzzilli in Una vita violenta potesse risultare coinvolgente, c’era qualcosa di programmatico nel suo destino segnato, come se la quotidianità del sottoproletariato urbano avesse bisogno di un eccesso esemplare per trovare senso (che in fondo, a un diverso livello, è poi quel che si rivede oggi nei romanzi e nelle serie tv sulla malavita). Per la narrativa i suggerimenti principali restavano perciò Calvino e Gadda.

Calvino per il nitore con cui costruiva le sue invenzioni tenendo a bada la volontà di intervenire sulla realtà o di darne conto in modo più scopertamente allegorico (libri come I giovani del Po, o La decapitazione dei capi, non avrebbero mai visto la luce). Si promuoveva il Calvino fantastico. Se poi molti consigliavano Le città invisibili, erano in meno a raccomandare la lettura della Giornata di uno scrutatore. Gadda invece piaceva perché con un procedimento pressoché contrario e ancor più ossessivo sembrava raggiungere un risultato aderente alla vivacità quotidiana, con una sintassi più ricca e con un lessico che trascurava la voce comune per una soluzione tecnica o desueta, un po’ giocando, e un po’ traducendo in concreto la sua filosofia impossibile. Se le sue vicende fittizie non erano travolgenti, lo era, anzi lo è la sua passione per le relazioni fra eventi minimi; negli esiti più alti, nell’Adalgisa o nel Pasticciaccio, le azioni inconcludenti dei suoi personaggi secondari e il modo in cui questi rispondono agli inconvenienti traboccano di voglia di vivere.

Ma la fortuna di Gadda e quella degli autori degli anni Venti, primo fra tutti, appunto, Calvino, non potevano bastare perché gli esempi si stavano facendo un po’ troppo lontani nel tempo, consegnati ormai alle discussioni accademiche. La morte prematura di Calvino lo ha sospeso per anni nella sterile esegesi di quello che per un decennio è stato ritenuto il suo testamento e insieme l’esempio irrinunciabile di stagione in cui la letteratura si voleva senza rischi, diminuita, (le Lezioni americane). Nei consigli di lettura non venivano invece indicati come possibili modelli né Parise, né Sciascia e in fondo neppure Celati o Cavazzoni. I più maturi e aggiornati ma, come si sarebbe capito in seguito, neanche tanto aggiornati (Arbasino l’aveva capito subito), guardavano all’inesorabile laconicità di Carver (e di Gordon Lish) e soprattutto a una traduzione italiana discutibile e discussa del Giovane Holden di Salinger che è stata proposta un po’ frettolosamente come modello a un paio di generazioni di studenti. Quanto al resto, gli scrittori sudamericani, forse perché troppo vitali, per quanto letti sembravano irraggiungibili. L’America era la terra del post-modernismo, di Pynchon e dei supereroi con i quali tentare di rovesciare un po’ il banco (i cannibali dell’epoca hanno mutato abitudini alimentari piuttosto in fretta).

3.

Per trovare un’indicazione operativa ci è voluto un po’, finché non abbiamo considerato di nuovo la letteratura come insieme sovranazionale, ossia un fenomeno che appare pressoché scontato a un ragazzo di dodici anni davanti a una pila di libri, il quale non si chiederebbe mai se sia il caso di rifiutare Robinson Crusoe solo perché lo si legge in traduzione. La scuola superiore e l’università antepongono alle dinamiche interne al genere letterario le considerazioni inerenti le espressioni storiche della lingua nazionale, affrontando quello specifico genere nella storia della propria cultura, il che risponde senza alcun dubbio a esigenze condivisibili (in fondo, la nostra lingua è pur sempre quella che usiamo di più). Le istituzioni formative, però, tendono ad assolutizzare questo orientamento come se per disegnare un cerchio se ne dovesse sempre definire prima la circonferenza. Non è così: l’arte ha a che fare con lo studio almeno quanto ha a che fare con l’addestramento; anzi, lo studio favorisce solo fino a un certo punto la padronanza del movimento circolare della mano. Così la conoscenza delle varianti del canzoniere di un poeta petrarchista di ambito napoletano nel Quattrocento o quella delle scelte operate nell’edizione critica di un trattato del tardo Seicento a Venezia difficilmente, nella pratica letteraria, metteranno sulla buona strada. Anzi, uno degli effetti collaterali più difficili da superare nel corso dell’apprendistato riguarda proprio la perdita di spontaneità e di padronanza narrativa tipica della fase di studio: capita anche per l’improvvisazione in musica, affrontando le scale, e perfino in uno sport, quando si imparano in dettaglio le varie tecniche. Nelle scuole superiori e poi nei Dipartimenti di Lettere si studia l’intera grammatica della parola «letteratura», che coincide con i diversi usi del termine nei più vari contesti. Dopo qualche anno trascorso in biblioteca si può dire di saperne qualcosa, ma questa ricerca grammaticale, per quanto feconda, resta molto lontana dall’apprendistato e può perfino rivelarsi nociva se non si accompagna a una pratica incoraggiante.

C’è stato un tempo in cui a scuola si insegnava a comporre un sonetto e ci sono state almeno un paio di generazioni che, in virtù di una modernità orgogliosamente raggiunta, hanno riso di questa competenza trovandola inutile. In tempi più recenti la glorificazione dell’articolo di giornale, promosso dallo zelo del Ministero a genere letterario – senza peraltro specificare per quale ragione un articolo di costume si allontani dal tono della cronaca – non può certo meritare maggiore considerazione. Fortunatamente, da un paio di anni si è tornati a un modello di scrittura saggistica più libero e tutto sommato onesto. In questo ambito la misura e l’ironia degli interventi di Alberto Savinio potrebbero fornire dei buoni esempi.

Usciti fra il 1986 e il 2008 i saggi di Kundera rappresentano ancora oggi uno strumento prezioso per chi voglia superare l’idea romantica di letteratura e cercare di capire in cosa consista l’apprendistato letterario: riscattano l’aspetto artigianale e inducono l’apprendista a mettere mano umilmente a qualcosa di concreto, conservando un rapporto dinamico con la tradizione letteraria intesa in termini sovranazionali, senza indurre a cristallizzare un modello di pratica narrativa per proporlo poi come l’unico corretto, come fanno invece i manuali di scrittura creativa. E senza pensare che quando hai voglia di scrivere in prosa tu debba guardare esclusivamente a chi ha scritto nella tua lingua (secondo un’indicazione scolastica irresistibilmente paradossale, se gli stessi Foscolo, Manzoni, Verga, D’Annunzio e Svevo non l’hanno seguita). L’invito, invece, è quello di leggere in lingua straniera. Sottolineando in modo esasperato l’aspetto compositivo, Kundera non offre né istruzioni per l’uso, né una cassetta di attrezzi standard per una narrazione ben fatta con gli ingredienti considerati in alcuni cenacoli veri articoli di fede (conflitto, arco di trasformazione, cliffhanger, dénouement). Il suo discorso assume un rilievo più ampio e, pur avendo sempre in mente la scrittura in concreto, impone uno studio sui principi di organizzazione del racconto. Il rischio legato alla sua prospettiva non è estetico, semmai è pratico, quello di un’arte complessa e silenziosa, più solitaria dello studio di Flaubert a Croisset, coltivata in una condizione materiale oggi sempre meno sostenibile e davanti a un pubblico che, se non riconoscesse il nome dell’autore in copertina, ignorerebbe l’architettura del libro e forse lo stesso libro come fa con le questioni legate alle esecuzioni della musica dodecafonica (l’editoria, di fatto, ha deciso da tempo di ignorarle). Per quanto magistrale in termini estetici, l’insegnamento di Kundera mette fra parentesi la vita quotidiana dell’apprendista, quella in cui la pratica narrativa è costretta per questioni materiali a esprimersi in varie forme. E questa pratica, per un ulteriore paradosso, ne sta assumendo proprio alcune dell’amato Settecento kunderiano, anche se spinge più verso il giornalista e fabbricante di mattoni Daniel Defoe (Moll Flanders), o il narratore e magistrato Henry Fielding, che verso Le relazioni pericolose di Laclos. Non è detto che una familiarità quotidiana con la scrittura più ibrida non possa nutrire indirettamente anche la stesura di composizioni narrative più articolate: dopo aver scritto di tutto, Daniel Defoe è diventato autore di romanzi a cinquantanove anni. Nel 1975 sulla «New York Times Review of Books» (7 luglio) parlando di Fielding, Kingsley Amis notava che il senso dell’umorismo dell’autore di Tom Jones è più vicino al nostro di quello di qualsiasi altro scrittore del passato. In effetti, è un narratore formidabile. Nel ventunesimo secolo la vita dell’apprendista somiglia a queste, divise fra più impegni (c’è chi insegna, chi scrive sui giornali, chi si riduce allo storytelling per le imprese o fa sondaggi demoscopici). Chi vive del proprio patrimonio, come faceva Flaubert, oggi cerca disperatamente un prestigio sociale irraggiungibile, non la «frase giusta».

L’apprendistato si costruisce giorno per giorno a cominciare dall’attenzione per la propria attività narrativa, ossia per una delle azioni in cui normalmente investiamo più tempo. Il tono che utilizziamo quando raccontiamo qualcosa a un amico, il modo in cui variamo l’intonazione, il ritmo, affrettiamo o rallentiamo una rivelazione, sono certo altra cosa dalla lingua scritta ma non sono completamente un’altra cosa. Per quanto la scrittura imponga una diversa consapevolezza, se perde il rapporto con la dimensione comunicativa rischia di spegnere lo spunto che favorisce l’espressione della propria voce. Ciò non significa che la scrittura debba ridursi alla mimesi dell’oralità, o al parlato come codice letterario, o ancora a una scrittura per così dire auricolare, me semplicemente che deve ricordarsi di ciò che muove il racconto.

In una breve intervista concessa a Christopher Given per il «Los Angeles Times» il 7 agosto 1970 (ora in Think, Write, Speak), dopo aver affermato di non credere che la scrittura creativa sia insegnabile, Nabokov suggeriva però al suo interlocutore, che stava per tenere un corso di quel tipo, alcune indicazioni preziose: evitare, sempre, i cliché; imporre agli studenti di scrivere un episodio del proprio passato (da questo si può subito intuire chi ha o non ha una predisposizione per la scrittura); invitarli a riprodurre una conversazione che hanno avuto o che hanno ascoltato, e spronarli a imparare qualcosa in concreto da varie professioni.

Un’ulteriore conferma (trovarne è sempre confortante) l’ho colta nel saggio My Writing Education di George Saunders, uscito sulla rivista «New Yorker» il 22 ottobre 2015. Ne riassumo di seguito un passo. Nel semestre invernale del 1986, all’Università di Syracuse, ogni lunedì sera Douglas Unger teneva un seminario informale a casa sua, frequentato anche da Saunders. La moglie di Unger preparava la cena che tutti assieme, studenti e professore, mangiavano durante l’intervallo. Un giorno Unger propose che, come esercizio, i presenti raccontassero qualcosa della propria vita. Erano terrorizzati perché pensavano di non avere da parte alcuna storia valida. In realtà poi ciascuno fece un buon lavoro: nessuno voleva presentare qualcosa di noioso e quindi cercarono di raccontare una storia che trovavano interessante usando lo humour, le sottolineature, la dissimulazione, gli accenti più buffi, tutto ciò che di solito si usa per rendere interessante qualcosa quando la si racconta, «ad esempio per trarsi d’impaccio o per sedurre qualcuno». «Ciò che facciamo scrivendo non è del tutto diverso da ciò che continuiamo a fare nelle nostre vite». Quella sera, scrive Saunders, si accese una luce: ma ci sarebbero voluti anni perché questa luce si alimentasse, anni nei quali, lavorando come ingegnere, avrebbe scritto testi tecnici per una compagnia che si occupava di ambiente.

[Questo contributo è inedito e fa parte di una serie dedicata a «leggere e scrivere»]