Meridiano zero

Una recensione appassionata (tanto... troppo appassionata...), al Meridiano Mondadori dedicato ad Alberto Asor Rosa.

di in: Naufragi

Celebriamo con sentito giubilo l’egemonica pubblicazione del prestigioso volume che raccoglie le ineffabili Scritture critiche e d’invenzione [sic] del Barone Palindromo, una miscellanea situazionista impreziosita dalle surreali prefazioni di due agit-prop di gran vaglia. Era ora che a Segrate la smettessero di essere così dannatamente provinciali e canonizzassero l’opera del Trombone Rosso, assurto in zona Cesarini a gloria nazionale.

La giustizia critica è mancata molto tempo fa, crivellata dall’irruenza bislacca del nostro affetto cannibale, ma la giustizia editoriale, seppur rantolante, sopravvive ancora, ed è il faro che ci guida in questa lunga notte: adesso anche noi, figli bastardi di un Novecento ingrato, abbiamo il De Sanctis postcomunista che ci meritiamo!

«Addavenì Baffone», si diceva temporibus illis. Beh, è arrivato, finalmente, candido, spietato e altero come l’eroe della sua infanzia e giovinezza, quel «piccolo padre» d’acciaio, oggigiorno un po’ fané, che rappresentò un modello di riferimento assoluto – quantomeno nelle italiche Lotte di classe in Accademia – ben oltre il fatidico 1956, per non parlare del 1968, del 1977, del 1989, del 1991 e del 2020…

Feroce sostenitore dell’archetipica differenza tra strategia e tattica, tra vendetta e faida, l’Albertone Internazionalista ci ha appena dimostrato, con un colpo di genio degno del più emerito e malandrino dei curatori fallimentari, che il passato recente ci inorridisce perché ne siamo corresponsabili. È colpa nostra, in fondo…

Formatosi alla scuola della Maestrina dalla Penna Rossa, il giovane (si fa per dire) Asor capì di non avere le traveggole, malgrado le micidiali emicranie che lo coglievano ogniqualvolta apriva i Grundrisse, quando comprese di poter trarre da quelle sudate dispense, se non una rivoluzione, almeno una carriera universitaria. Reso edotto delle leggi dello Scopone Scientifico da un suo antico compare di taverna, un tal Mariolone Tronti, il nostro si immolò sull’altare di un’epica missione: dimostrare che il «Socialismo della Cattedra» non è un’invenzione tedesca, bensì nostrana.

Furono anni formidabili: Minzioni e popolo, Thomas Mann o dell’omosessualità borghese, Intellettuali e fessa operata… Non si trattava tanto di una forma saggistica, astenica e nel contempo roboante, priva di spirito e povera di fibra, quanto di un autentico stile di pensiero, fin troppo in linea con i robusti appetiti dell’Aristocratico Operaista. In via Biancamano era conosciuto, per lo scanzonato cipiglio massimalista, come «Il Marchese del Grillo», però non rifiutò giammai di dividere il desco plebeo di Rhêmes-Notre-Dame con biechi manutengoli della reazione quali Giorgio Manganelli e Cesare Garboli. Vorace e munifico, si oppose da par suo all’abdicazione al trono del Divo Giulio, difendendo a spada tratta la scriteriata direzione delle Grandi Opere che gli erano state affidate.

L’Utopia era finita per davvero, così come l’unica idea che gli era venuta in mente in mezzo secolo di esistenza. Ciò nonostante, non si perse d’animo: morto un Principe se ne fa un altro, diceva tra sé e sé a quei tempi, e allora – sulla scorta di un vecchia edizione di Machiavelli trovata in soffitta e dei brani di Carl Schmitt propinatigli dal solito Mariolone – rintracciò il Nuovo Testamento nel Vecchio, con una stupenda piroetta pre-post-moderna, considerata a tutt’oggi all’altezza delle acrobatiche evoluzioni delle migliori ginnaste sovietiche (nel gergo togliattiano si chiama «spuntatura delle ali», e viene operata preferibilmente a sinistra).

Il resto, ormai, è storia nota, una storia italiana, trasformista e un po’ erogena come ogni capolavoro che ci riguarda: non paga di aver messo in cattedra la sua insipiente morosa, la Sora Rosa la chiamò alla Sapienza – eroicamente, bisogna pur dirlo –, costruendo intorno alla procaci forme critiche dell’amante bandita un Dipartimento di molta Lingua e scarsa Letteratura tutto per loro, dedito ai rapporti intertestuali.

A differenza di Brecht e Bellocchio, sin dall’epoca in cui era un innocente Figlio della Lupa si fece consapevole del fatto che, per riuscire, non si deve mai stare dalla parte del torto ed è consigliabile apparire in ciascuna delle ristampe dell’Album di Famiglia. Insieme al Migliore, è stato uno dei pochi intellettuali neorealisti capaci di leggere sempre nel verso giusto le ingenue parole di quell’inguaribile ottimista di Elio Vittorini: «La linea che divide, nel campo della cultura, il progresso dalla reazione, non si identifica esattamente con la linea che li divide in politica».

Uso ancora quotidianamente come fermaporta il ponderoso mattone – La Cultura, nella Storia d’Italia Einaudi – con il quale contribuì alla rovina del Re Sole. Talora non mi trattengo, e mi soffermo con una certa libidine masochistica sull’impagabile explicit, dotato della coloritura nostalgica che suole contraddistinguere le sapide profezie del nostro maggiore moralista classico: «Del resto, non mancano compiti grandiosi capaci di esaltare le ambizioni di un ceto intellettuale che sia legato al paese e agli orientamenti delle grandi masse. […] Quali che siano gli sviluppi di questa situazione, non par dubbio che essa non possa evolvere utilmente senza il rapido accumulo di una mole immensa di conoscenze e d’iniziative culturali, che accompagnino, agevolino e tutelino l’ascesa al potere della nuova classe insieme con un ulteriore sviluppo della democrazia. La critica dei vecchi strumenti, che è irrinunciabile e perenne, deve fare un corpo solo con la creazione del nuovo»… E c’è gente che si ostina ad affermare che i Mediocri Maestri non sanno coltivare l’arte dell’autoironia!