Vi era a Figline, a mezzo sulla strada tra Arezzo e Firenze, una locanda la quale era tenuta da padre e figliolo che avevan nome Novello e Cecco. Eran costoro rimasti privi della donna e della madre, rispettivamente, alcuni anni addietro, quand’ella era scivolata dalle scale rompendosi d’un colpo il collo. E per tale mancanza, si diceva, della donna in casa, essi eran diventati molto gaudenti, facendo della locanda un luogo di cui tutti chiacchieravano; ed anzi il padre, lungi da bene indirizzare il figliolo, molto malo esempio gli forniva.
Una tarda sera d’autunno era caduta in anticipo la neve, dopo una settimana intera di piovaschi, cosicché un po’ per il freddo, un po’ per il fango i due uomini avevano già chiuso gli usci e le finestre della locanda, non isperando più per quel giorno in alcun viandante che ivi si fermasse. Furono dunque assai stupiti, e pure rallegrati, allorché, fuori dal buio e dalla neve che ogni suono smorza, una mano straniera bussò con baldanza alla porta. Da un pertugio tra le assi il ragazzo, che più lesto s’era accostato, guardò qualche momento sull’entrata, la quale però i lumi dell’interno difettosamente illuminavano, tanto che a fatica poté osservare un’ombra tra le ombre e i fiocchi fitti che il cielo mandava giù con buona lena. Si annunciarono buoni cristiani, e tre: l’uomo che parlava, con due femine; il padre allora, che era sopraggiunto e aveva scostato il figliolo dall’uscio, decise di togliere i fermi e schiavardare nonostante l’ora tarda e il pericolo che veniva da’ briganti, talvolta così affamati ed arditi, da tentare, come lupi, il colpo nelle case un poco fuor dagli abitati.
Entrati che furono si poté notare trattarsi, quanto ai tre, di marito, moglie e una figliola che, a detta dell’uomo, si era sentita mancare durante il viaggio e desiderava andarsi subito a coricare. Tuttora egli la sosteneva, quasi nascondendosela al petto; non per questo, dal poco che si vedeva per lo scarso lume e perché ella era interamente infagottata, i due locandieri, del mondo veri esperti, non poterono non apprezzare la pelle bianchissima del viso e delle mani, gli occhi lucenti e il profumo di fiori e d’unguento, singolarmente intenso, che emanava. Tanto che, quando il padre annunciò la figlia volersi subito coricare in compagnia della madre, essendosi già un poco dissetata per via e non sopportando cibo, cominciarono a sospettare qualche cagione occulta. La natura della loro immaginazione li inclinava verso i molti casi di padri gelosi, che le figliole tenevano villanamente sotto chiave come fossero esclusivi tesori e non facevan guari veder loro la luce del sole. Ma più per esperienza provata, Novello e Cecco, sapevan che proprio tale costume eccitava i desideri e l’astuzia delle femine, quelli esasperati dal contegno soperchiatore e questa per il voler di far vendetta. Così mostraron buona creanza e contegno comprensivo facendo strada nello stanzone preparato per la notte.
Lasciata la donna accomodar la figliola nel letticciuolo, tornò Cecco con il padre suo ed il marito, cui era stato servito un bicchier di vino e che in volto assai s’era oscurato. Il locandiere lo interrogava arguto per carpire ogni possibile notizia, come era solito fare nel trattenere i clienti, ed in particolare quando voleva secondare a un suo nascosto fine. Raccontò l’uomo, facendo uscire a fatica le parole dai polmoni e dal mezzo della barba nera e incolta, esser la fanciulla cagionevole nella salute quanto la madre, ormai da gran tempo morta, e non esser quindi la moglie la madre sua naturale, bensì la matrigna. L’avveduto Novello, prendendo abbrivo dalla comunanza delle loro situazioni, ovvero dalle prime spose defunte a sé ed al viandante, e anche dalle differenze, dato che quello s’era rimaritato, svolse molti ragionamenti dolorosi e savi sulla mancanza di una donna nella casa. Disse quanto si pativa nella libertà di decidere sugli affari, senza un consiglio, e quanta libertà nel passare del tempo, senza mai una presenza attaccata ai polpastrelli, quanta libertà nel mangiare e bere, senza una che li condividesse, e ancora quanta libertà nel disporre di stanze e di camere, senza un controllo sugli ospiti, un respiro sul cuscino. Intanto che egli diceva, sempre più compunto ed infervorato, il figliolo suo tutto al contrario comprendeva le parole e dentro assai si rallegrava, mentre l’uomo, fattosi grave, e come trovandosi tra sperimentati amici, venne anche a confessare che la matrigna poco poteva sofferire la figliastra, a cui lui invece affetto e attenzioni poneva in guisa di pupilla degli occhi.
Avendo così sfogato i propri travagli, l’uomo annunciò di volersi anch’egli coricare, poiché domani assai presto voleva ripartir inverso Fiorenza, e altrettanto decisero i due locandieri, che l’ora era già tarda, né volevano perdere tempo ad attuare il piano loro. Nel camerone indicarono a sinistra il letticciuolo dove già cheta cheta riposava la ragazza, al centro dove il viandante poteva raggiunger la moglie sua che da sotto le coltri li salutava, e a destra si accomodavano essi, dove, se ci fosse stata la necessità, li potevano svegliare fin nel cuore della notte per una tisana o qualsiasi altra occorrenza. Si diedero il buon riposo e non tardò molto ad udirsi che il viandante prendeva a russare.
Novello e Cecco, stesi accanto, si sorvegliavano come due cani nel punto di balzare sull’osso, o due montatori pronti a gettarsi avanti a cavalcare, e, tosto che s’udì quel russare, presero sottovoce a quistionare. L’uno all’altro si rinfacciava torti, precedenze e crediti della più varia natura e specie; alfine la spuntò il giovane ch’allungò le punte dei piedi nudi sul pavimento e cominciò a scivolare nel buio, agile e silenzioso come un gatto verso la dispensa. Raggiunto il letticiuolo della giovane viandante quegli si scavò un posto e, ammirandone la discretezza intesa quale disponibilità, ne forzò la serratura; scivolosa, profumata da stordire, si mostrava muta e ferma in modo istraordinario, cosa che il locandiere attribuì al timore di farsi scoprire, insieme forse all’indisposizione, cagione della glacialissima sua persona. Perciò, pur stando attento a non esagerar con movimenti e sbuffi, s’impegnò con tutte le forze a riscaldarla. Quel batter da mulino svegliò tuttavia la matrigna, la quale dormiva da quella parte del letto vicino, cosicché passò dal sogno delle sue incombenze consuete di mugnaia alla veglia di altro pescare delle pale in altra acqua. Fattasi certa di dove si era e di quanto succedeva, tosto si sgomentò, e quindi, conoscendo lo stato della figliastra, fu ben impressionata dall’ardore del suo compagno, che pur non distingueva, e nel contempo prese forte stizza per quella scelta. Essa infatti da lunga pezza attendeva dal marito la stessa grazia, ch’egli non era stato più lui da quando la figliola aveva cominciato ad ammalare, ed anzi ogni pensiero ed attenzione e cura soltanto a quella riservava. Attese dunque il termine di quel lungo trafficare, ascoltando nel contempo, eccitata e impaziente, il rantolo inoffensivo del marito e tra sé pensando a come far buon uso del restante della notte.
Appena il giovane locandiere, dopo le ultime carezze e parolette non corrisposte, s’era levato e, lieve come uno spiffero se n’andava per il camerone al proprio giaciglio, la matrigna, ben avendo compreso l’indole dei suoi due ospiti, cambiò di letto spostando la figliastra al posto suo e attendendo nel letticciuolo, fidente in una prossima visita. Ed infatti Cecco andava raccontando al maestro le delizie e le meraviglie, la stranezza piccante del contegno di quell’amante, tanto che il vecchio, ringalluzzito, si preparava ad affondare i denti nel frutto già sbucciato. Epperò, mentre che già stava su un piede solo, udì dei rumori assai chiari dal letto accanto, e maledicendo quel mugnaio truffatore, poche ore prima tutto sì contegnoso e preoccupato, che proprio adesso con la moglie si dava il bel tempo, ristette ancora col figliolo al mordersi le unghie.
Ecco ciò che era accaduto: intanto che la moglie sognava di faccende e di mulini, il marito vedeva la figliola, fresca e ridente, tender le mani in un giardino ricco di fiori, ed egli tra sé si rallegrava della sua salute, ma, nel contempo, come può avvenire soltanto nel sonno, sapeva che si stava ingannando e ne piangeva. Così, inseguendo la figliola fuggente tra fioretti e rampicanti, si agitava nel letto e rotolò contro il corpo che gli giaceva accanto; ancora vivente a mezzo tra il sogno e la veglia percepiva un gran profumo che spirava dalle coltri e, allungando la mano, sentì pure il calore d’una persona, che in effetti molto la fornace aveva arroventata il giovane locandiere col suo fuoco. Stupito di quella fragranza, che da gran tempo non trovava nella moglie, con cui anzi era perennemente in scontrosa guerra, e continuando a pensare soprattutto ai fiori e l’erba e alla figliola, cominciò a fottere nel sogno.
Acquietatosi lo spinger ad una sola direzione, che pure il mugnaio attribuiva alla prudenza della moglie acché non si facesse scandalo in casa ed in presenza d’altri, il vecchio locandiere finalmente poté disserrare i denti e i pugni stretti per la rabbia cagionata dall’attesa e dal fatto che lì tutti, tranne lui, si godevano quelle femine così ben disposte. Fu egli però, punto dall’acuta voglia, troppo precipitoso, che, dopo essersi alzato, andò a incocciare nel buio col mugnaio spinto ad orinare dopo il coito; grandi rallegramenti fece Novello, verde per la bile, guidandolo al bugliolo e dichiarandosi anch’egli ivi diretto a causa della propria debole complessione notturna. Dopo essersi ripetuti il buon riposo avvenne che, un poco per caso, un po’ per la manovra del locandiere, il mugnaio sbagliasse di letto, dirigendosi a destra dove il giovane Cecco solo stava coricato. Ne venne che l’ospite, verificando la nuova compagna di letto esser bene accesa come una stufetta elettrica, ne provò a fondo la resistenza facendosi felice terzo.
Nel frattempo, trascurata nel letticiolo deserto, smaniava la matrigna ascoltando i larghi movimenti del concerto. Eppure, valutando che il tempo correva e che dovevasi rassegnare a non raccoglier nemmeno le briciole del festino notturno, prevalse in lei l’abito dell’avveduta massaia. Trasse un sospiro e pensò alla rigovernatura. Al modo dello stratega, che dall’alto della mente tutto comprende e pone i pezzi suoi sul bianco e nero delle caselle, stabilì ella come sistemare al meglio le cose, affinché all’alba non si scatenasse un finimondo; e così rimise la figliola nel letticciuolo, fe’ svegliare piano Cecco mentre il marito ancor russava e gli ordinò di raggiungere il padre suo nel letto centrale; infine si adagiò disfatta, quasi avesse altrimenti passata la notte, accanto al consorte aspettando da sveglia il par d’ore prima del tocco.
Svegliatosi gaiamente il mugnaio, appena snebbiato dai fumi della notte, s’adombrò scoprendosi nel letto di sinistra, ma subito la moglie soccorse spiegando che, poiché s’era accorta che Novello e non lui era tornato dal bugliolo e che lui subito era piombato nel sonno, aveva preferito tosto far cambio di letto essa con il figliol del locandiere. Ecco il motivo che entrambi, marito e moglie, si trovavano a giacere sulla destra e i due uomini al centro: – Oh, che notte agitata! -, disse allora il mugnaio con aria contenta e maliziosa. – Eh davvero -, rispose ella.
I parlari tra i due viandanti avevano frattanto svegliato il giovane Cecco che stupì dell’ora molto presta nella quale essi volevano mettersi per via. Il mugnaio, mentre la moglie rassettava la figliola tra le ombre, gli spiegò di aver urgenza d’arrivare a casa per certi suoi affari, e allora il ragazzo si sbrigò a preparare un involto di colazione da consumare sulla strada. Il padre, anch’egli destato dalle voci, indugiava pigramente sotto le coltri, spiando con occhi semichiusi le azioni compiute con la goffaggine del lusco e il brusco, che i viandanti avevan detto di non volerlo svegliare con soverchi lumi e che il sole nascente poteva essere abbagliante. Eppure un precoce raggio, penetrato da un’imposta sconnessa, tagliava di sbieco la stanza oscura, finendo proprio sulla faccia della ragazza, riversa sul bianco del cuscino, mentre la matrigna era intenta a sistemarle le vesti su su fino alla gola: prima che i veli le coprissero anche il capo, Novello ebbe agio d’osservarla bene e di agghiacciare. Ora ricordava la sommissione, capiva la completa rigidezza, l’esser mutola della ragazza durante gli amplessi che gli aveva descritti Cecco e che egli medesimo aveva toccato con mano. La matrigna la rialzò come si fa con una tavola di legno o uno stoccafisso, e c’era da scommettere che poco lontano, su un qualche praticello non guardato, l’avrebbe un poco unta e profumata come una vivanda da rinvenire, e il carretto con il mulo l’avrebbe fatto ben trottare a che la figliola non incontrasse il caldo del mattino pieno, laddove le vesti e sopravvesti la proteggevano dal sole. Eh sì, non v’era dubbio alcuno, essi s’erano sollazzati con una morta.
Novello, fingendo di dormire, rimase ascoso in letto, come impietrato, finché non sentì il carretto dei tre cigolar lontano nell’alba; quindi, rapidamente vestitosi, si recò dopo molti anni alla prima messa e da quel giorno non ne mancò più una, cosicché una morta lo ricondusse a buona vita. Similmente accadde a Cecco, dopo che il padre gli spiegò la loro ventura, poiché mise la testa a partito, si maritò e, avendo avuto dei figlioli, ben si può dire che, toccata la morte, fu toccato dalla vita. Quanto al mugnaio fu mirabile cosa vedere il giorno stesso il fermo contegno suo quando, stretto alla moglie, guardava calare nella fossa la figliola. Il commiato, che credette d’aver ricevuto in sogno dalla sventurata, ed il conforto corporale della moglie, da allora tutte le notti rinnovato, lo liberaron dal lungo e tetro stato saturnino; la matrigna infine, divenuta vera madre, non mancò mai da quel giorno in poi di ricordar nelle sue preghiere la vivace morta, la quale di tanto bene fu stromento.

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