L’erede autonominato

di in: De libris

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi mangia una pizza con il candidato sindaco del Pd Valeria Valente, Napoli, 06 aprile 2016. Il premier e la deputata sono in una famosa pizzeria del capoluogo campano, dove si sono recati subito dopo l'incontro nella prefettura di Napoli tra Renzi e l'ex sindaco Antonio Bassolino, sfidante di Valente alle primarie. ANSA/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI-TIBERIO BARCHIELLI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Nel discorso d’insediamento per il semestre italiano della presidenza europea (2 luglio 2014) Matteo Renzi afferma “il dovere di riscoprirsi Telemaco e di meritarsi l’eredità europea”. Ne fa un discorso generazionale, rivolto a coloro che, come lui, non erano ancora maggiorenni ai tempi di Maastricht. Al di là dell’occasione contingente va colto tale autobattesimo, riprendendo in mano con maggior agio i primi quattro libri dell’Odissea, a smarginare meglio una figura effettivamente messa in ombra dall’eroe eponimo del poema.

Il primo incontro ci mostra un personaggio ripiegato nella postura ed oppresso dalla situazione presente – i Proci nella grande sale che giocano ai dadi, mangiano e bevono distesi “su pelli di buoi che essi medesimi avevano ucciso” (I, vv. 110-11) -, con la mente nostalgicamente rivolta al padre, in una vaga speranza di ritorno e di riscatto:

 

Primo fra tutti la vide Telemaco

che un dio rassomiglia: triste sedeva,

affranto nel cuore, mentre il pensiero

seguiva del nobile padre l’immagine

che se mai ritornando i Proci lontano

dalla sala sperdesse e di sua reggia

il dominio antico venisse a riprendere. (I, vv. 116-21)

 

Il pronome “la” si riferisce ad Atena, che l’esegesi renziana, nel discorso sopra citato, fa parlare così: “lo chiama e gli dice: – Non potrai mica pensare di restare qui ad attendere – ”: rozzo ma efficace, ci torneremo più avanti. Intanto notiamo la perfetta cortesia del giovane nel trattare l’ospite, laddove i Proci se ne erano completamente disinteressati, a sottolineare la sua adeguatezza d’erede della casa: “Salute, ospite; amico noi ti accogliamo; / sàziati prima di cibo; e dopo dirai / quale bisogno fra noi qui ti ha portato.” (I, vv. 128-30). Del resto Atena, che ricordiamo ad inizio di poema s’era proposta nel consesso degli dei di far forza al giovane e di liberare Ulisse, suo antico protetto, dall’incantamento di Calipso, ne aveva sottolineato per prima la somiglianza con il padre: “Mirabilmente a lui rassomigli nei gesti, / negli occhi belli e nel volto” (I, vv. 207-8). Più avanti la stirpe regale salta subito agli occhi di Menelao (IV, vv. 61-2) ed Elena ne intuisce addirittura l’identità; al che il marito conferma: “Donna, quel che presumi sembra anche a me: / tali i piedi, tali le mani, tale lo sguardo, / la testa, la chioma eran di Ulisse” (IV, vv. 148-50). Semmai il dubbio è proprio dello stesso Telemaco che, evidentemente ancor troppo giovane e soverchiato dalla situazione, esprime una riserva: “A te dico, ospite caro, parole sincere: / che son figlio di Ulisse dichiara mia madre; / io per me non lo so. Nessuno sa con certezza / l’origine sua. […]” (I, vv. 215-18).

La madre Penelope teme in effetti per l’inadeguatezza del giovane figlio, una volta saputo che, come il padre ben più sperimentato e mai tornato, si è messo anch’egli sul mare: “ora il diletto mio figlio su nave veleggia / lontano: ignaro di lotte e d’accorte parole.” (IV, vv. 816-17).  I Proci poi, sebbene coetanei, non lo prendono sul serio nemmeno quando cerca di sollevare l’assemblea degli Itacesi, che a loro volta, del resto, appaiono freddi: “Io non credo infatti che la gara nuziale / tediosa i Proci abbandonino, giacché non temiamo / proprio nessuno, neppure Telemaco / benché tanto loquace […]” (II, vv. 197-200). Sfrontati senza tregua gettano pronte le mani alle vivande e ai calici (I, v. 251) e strepitando (suono, canto, grida si contrappongono all’umbratile silenzio dell’erede) esplicitamente si augurano di giacere presto con Penelope (I, vv. 360-62); Telemaco soffre della dissipazione impropria del patrimonio, come  ripete spesso un po’ querulo ( “[…] i beni di un altro distruggono / impunemente […]” I, vv. 160-61; “Non forse vi basta di tanti miei beni / la preda, o Proci, cominciata quand’ero fanciullo?” II, vv. 306-7), e perfino teme di far presto parte del banchetto:

 

Itaca bianca di rocce posseggono,

tanti condurre ambiscono a nozze mia madre

e distruggon la casa; l’odiosa proposta

lei non rifiuta né accoglie, ed essi frattanto

banchettano e mandan la casa a rovina

e sbraneranno certo fra poco anche me. (I, vv. 248-53)

 

Il risveglio operato da Atena, così prontamente colto dall’esegesi renziana, sortisce però i suoi effetti: viene conferita al ragazzo la precisa missione del viaggio di formazione, a Pilo presso Nestore e a Sparta presso Menelao, vecchi compagni d’arme, per avere notizie del padre. La stessa dea organizza la spedizione per nave ed accompagna nel primo tratto il pupillo. La madre, senza poi starci troppo a pensare sopra, “stupita” (I, v. 254), nota però qualcosa di nuovo nel comportamento del figlio. Ed i Proci stessi, rendendosi conto della partenza con altri giovani d’Itaca, incominciano a considerare in modo diverso e preoccupato l’erede, rispetto all’idea passata (“[…] Ma penso / che in Itaca a lungo ancora restando / attenderà notizie, né mai farà questo viaggio” II, vv. 254-56): qualcuno ritiene infatti che vada alla ricerca d’un aiuto esterno per riprendere possesso del regno, o compri del veleno per eliminarli; altri, con ancora la primitiva immagine in mente, ritengono possa fare un brutta fine nel viaggio (II, vv. 318 sg.). Telemaco, ora detto da Antinoo audace per il viaggio intrapreso (IV, vv. 666-67), diviene per la prima volta oggetto d’attenzione, addirittura fino al piano d’un agguato per ucciderlo sulla via del ritorno.

Nel frattempo Telemaco sta compiendo la propria formazione lontano da casa, dapprima incerto sul modo migliore di comportarsi (così si rivolge alla dea travestita prima del colloquio con Nestore: “Mentore, come andare dovrei? come parlargli? / Esperto non sono di accorti discorsi; / che un giovane interroghi un uomo più vecchio, / cui si deve riguardo, non è biasimevole?” III, vv. 22-5); poi sempre più padrone di sé, sciolto di lingua e simile al padre, raccoglie lodi come un favorito dagli dei (III, vv. 373-75), incoraggiamenti e consigli da parte dei potenti ospiti. Qui si può innestare l’interpretazione di Massimo Recalcati, che ritiene le ultime generazioni meglio rappresentate dal mito di Telemaco, piuttosto che dai tradizionali conflitti edipici (ed antiedipici) o dalla confusione di ruoli di Narciso. Il desiderio da cui partire, secondo le parole stesse usate da Omero, è proprio quello del reincontro con Ulisse: “sì lo teneva destato nella notte divina / il pensiero affannoso del padre” (XV, vv. 6-7). Così traslato con linguaggio psicanalitico da Recalcati ne Il complesso di Telemaco (2014): “Telemaco domanda giustizia: nella sua terra non c’è più Legge, non c’è più rispetto, non c’è più ordine simbolico. Egli esige che si ristabilisca la Legge e che la notte dei Proci finisca.”

Una domanda di padre strugge Telemaco che guarda al mare, allo stesso modo che un desiderio di ritorno anima Ulisse quando, a sua volta, sconfortando l’amante Calipso, solo protende lo sguardo alle onde. Qui infatti il padre ha ormai messo da canto il desiderio d’avventura e di umana conoscenza, rimessi in circolo dall’interpretazione dantesca; dunque non per scelta vive l’assenza, ed il figlio di conseguenza non l’avverte come abbandono. Penelope, la madre che ha la funzione di raccordo narrativo e di creazione fantasmatica dell’assente, del resto ricorda in maniera positiva il Nome del Padre: “Ella trasmette a Telemaco che l’assenza di suo padre non è un capriccio, non è il frutto di un rifiuto della sua funzione paterna, non è il risultato di un egoismo cinico.” (p. 113). Di qui l’attagliarsi al figlio che guarda il mare delle tre dimensioni proprie al desiderio dell’Altrove, “l’attesa, la veglia e la preghiera” (p. 114).

Il rischio è allora quello di “assumere una posizione nostalgica” (p. 128), ovvero di pura, ripiegata attesa. Infantile e passivo come appare ai Proci dissoluti, incapace sia di godere smisuratamente come loro, sia di qualsiasi azione alternativa e individualizzante. Un semplice linguaggio silenzioso del sospiro, del compiacimento o della disperazione che coincide con lo sguardo sul mare vuoto. E però, grazie alla sveglia di Atena tanto apprezzata dall’esegesi renziana, si transita ad un secondo polo incentrato sull’azione. Dall’”attesa impotente” (p. 111) si passa alla convocazione dell’assemblea degli Itacesi, all’allestimento della nave da condurre in giovane età e senza esperienza, alla ricerca fattiva e alla consultazione della memoria dei compagni del padre. Fino al completamento della formazione, cui allude Elena regalandogli una veste per la futura sposa (XV, v. 120 sg.), e che si concretizza con la morte inflitta ad Anfinomo con l’asta mentre stava attaccando  il padre (XXII, vv. 88-95) e con il suo stesso ferimento (XXII, vv. 275-77). Per non parlare della  terribile vendetta contro le ancelle traditrici, che s’erano concesse ai Proci, impiccate con una corda di nave ad una colonna “come tordi con l’ali spiegate o colombi / che volano al nido, se dentro una rete / nascosta nel bosco s’impigliano” (XXII, vv. 468-70).

Attorno a ciò le belle pagine che Recalcati dedica al concetto di eredità, espressamente citato da Renzi quanto alla storia europea per la propria generazione. “Le radici non sigillano l’identità, ma devono essere ogni volta riprese da un movimento di erranza.” (p. 129). Naturalmente un’erranza contenuta nel tempo e finalizzata ad uno scopo, come lo ammonisce prima Menelao (“E tu, mio caro, non andare a lungo vagando / lontano da casa […]”) e poi anche Atena spronandolo nel ritorno (“[…] non è bene, Telemaco, ancora vagare / lontano da casa […]” XV, vv. 9-10). Si chiarisce insomma che l’ereditare non è gesto passivo e protocollare, ma appunto di appropriazione creativa. Riprendendo l’ultimo Freud che cita Goethe si parla di “riconquista” (p. 121); ecco che all’interno dell’eredità biologica si hanno comunque margini di scelta e necessità di innovazione se non di scarto propulsivo. Di tradimento virtuoso, direbbe forse Jung. E per di più “l’eredità autentica non è un fatto di sangue o di biologia” (p. 122), secondo una prospettiva che Recalcati sviluppa in vari momenti, quanto di una consapevole paternità adottiva, anche temporanea, profonda e capace di passare qualche forma di passione, o farsi carico anche di situazioni limite come il Frankie eastwoodiano di Milion dollar baby, che chiude Il complesso di Telemaco.

 

Una legge giusta che viene incontro a un desiderio, un solidale passaggio di testimone in vista di un’operosa concordia generazionale, capace di coniugare esperienza dei maiores e entusiasmo giovanile; combattere fianco a fianco per ristabilire l’equilibrio del regno. Fin qui una costruttiva proposta teorica che sfuma nell’autorappresentazione del discorso renziano. Mettiamo però ora sul piatto le osservazioni problematiche. In primo luogo a cozzare con l’immagine Telemaco è una delle architravi dell’ascesa renziana, ovvero la rottamazione, che solo con molta buona volontà si può considerare un’accentuazione del polo dinamico del giovane figlio d’Ulisse. E’ pur vero che Renzi ha seguito la procedura regolare, ovvero le primarie, comprese sconfitta, attesa e rivincita, per diventare Segretario del PD, ma l’arrivo alla Presidenza del Consiglio ha seguito una più scorciata e aggressiva strada. La figura del demolition man non si attaglia certo all’affiancamento del padre in battaglia comune, scivolando piuttosto verso il paradigma edipico. Vanno però considerate anche le diverse fasi – ascesa alla presidenza e sua gestione -, per cui gli analisti hanno notato una maggiore prossimità al modello fin qui delineato: “Rispetto all’irriverenza dell’esordio renziano, basato sulla rottamazione e sull’impeto della giovinezza che ha il diritto di soppiantare gli anziani per riconquistare un futuro, il nuovo profilo istituzionale impone un ragionamento più moderato che mette in relazione il destino dei padri con quello dei figli”(Barile, Brand Renzi, 2014).

La strategia ascensionale renziana, che perdura comunque anche a Palazzo Chigi, si sottrae deliberatamente all’identificazione con i padri, ovvero i politici che avevano fino ad allora governato, sentiti dagli elettori come ormai usurati, se non corrotti ed incapaci. “Non un membro privilegiato della casta ma un primus inter pares, un cittadino alla pari degli altri che ha solo un po’ più di spazio d’iniziativa e di intuizione del cambiamento per proporsi come leader. (p. 58). Ed in effetti, a partire dalla prima Leopolda nel 2010, Renzi, che pure già spicca, non è solo, ma sta al centro di uno schieramento di coetanei, tra i quali quel Civati poi suo acceso censore. E l’immagine di sé largamente giocata è quella del sindaco, sinonimo di prossimità alla gente ed ai problemi, di concreta conoscenza dei bisogni quotidiani e di fattivo correr loro incontro. Ne segue la contrapposizione più netta: “Noi a Firenze facciamo così. Ma loro a Roma, nei palazzi romani, no che non fanno così”; ne segue anche l’enfasi posta sulla città governata, con il suo carico di personaggi della storia, dell’arte e della letteratura, delle sue vicende più note, dei luoghi simbolo, all’insegna di “un nuovo stile” che la politica deve adottare, “uno stile che riporti la passione al centro, che sappia emozionare, che riparta dalla bellezza”.

In linea con il nuovo stile da contrapporre al superato che sopravvive sulla scena politica, si propone un’impronta diversa sull’immagine di sé e sul linguaggio. Quest’ultimo segue da una parte la neo-tradizione della Seconda Repubblica, inaugurata da Bossi e Berlusconi, di semplificazione lessicale e, d’altra parte, di un andamento paratattico che sembra appartenere alle generazioni digitali. Una certa fluvialità ricca però di mobilità e interruzioni. Una briglia sciolta che rende nell’oralità e soffre sulla pagina, in cui frequenti sono gli scarti, le aperture di parentesi, i collegamenti all’impronta con improvvisazione affabile. Pronta a coagularsi in slogan, che fanno tweet e titolo, specie in forma verbale (“non si preoccupi di durare, ma di fare”, “cambiare verso”, “ripartire”), tipica del movimento, laddove la nominazione si abbina spesso con definizioni statiche su problemi o avversari come i celerrimi “gufi”. La paratassi reticolare trova altra forma di sviluppo, e nel contempo di composizione, attraverso le figure retoriche soprattutto, come è stato notato, di parola più che di pensiero, sconfinanti o propedeutiche alla battuta di spirito. Questa, al modo di tutto il resto, allontana dalla seriosità, dal già sentito âgé ed istituzionale, accreditando l’immagine di energia giovanile e aliena dalle pastoie della politica tradizionale. “Ci piace Ponte Vecchio, ma vogliamo le facce nuove.”

Marco Belpoliti, analizzando la prossemica di Renzi – apertura di braccia, mano sotto al mento, rotazione del busto etc. -, ha notato in generale una maggiore credibilità proprio nell’andare a ruota libera, che si specchia con un certo impaccio nei momenti istituzionali. L’immagine del giovane erede trova a partire dalla seconda Leopolda nei jeans e, soprattutto, nella camicia bianca, di ascendenza democratica americana (Kennedy, Clinton, Obama), spesso arrotolata ai gomiti, l’ipostatizzazione visiva simbolica, corrispondente a “semplicità e immediatezza”. Informalità, sicurezza di sé, vago richiamo ad un ambiente di lavoro sodo e orizzontale vengono richiamati con tale minima connotazione. A cui si può aggiungere il famigerato giubbotto alla Fonzie comparso il 6 aprile 2013 ad Amici per il pubblico post-adolescenziale della De Filippi, una sovradeterminazione forse inutile.

Tornando ora al nostro mito di riferimento, come già notato facciamo fatica ad identificare il novatore, così volutamente contrappostosi all’esistente, con Telemaco; specie con la prima polarità dell’equilibrata assunzione della tradizione. Altra cosa se si esamina la versione novecentesca del giovane erede che ne dà James Joyce nei primi capitoli del suo Ulisse, paralleli alla Telemachia omerica. A tal proposito Recalcati, rielaborando l’analisi lacaniana che sintetizziamo nella battuta “plus des pères!”, scrive che Stephen Dadalus “vuole essere un figlio senza padri”. A sostegno ci sono le parole del personaggio, che parte dal dispregio condensato nel coito – paternità come “istante di cieca foia” –, continua in una svalutazione puramente anagrafica – paternità come “funzione legale” – e termina con la definizione di “male necessario”, negando in tal modo un incontro decisivo con il pur volenteroso padre senza eredi Leopold Bloom.

“Filiazione al di là dell’Edipo”, “filiazione non ortodossa”, “filiazione eretica”, “filiazione senza alcuna eredità simbolica” sono tutte espressioni di Recalcati (p. 220) per definire il meditato e caparbio rifiuto di Stephen, il suo volersi padre di se stesso. Ciò va in parallelo con l’atteggiamento del suo creatore, figlio di genitore inattendibile, quel John Joyce tanto distratto quanto loquace, ubriacone e violento, e che vuole dunque per contrasto, tramite la propria assoluta abilità scrittoria, farsi “artificiere”, divinità che si autogenera. Il mare del resto, scrutato nell’Odissea come tappeto rosso vinoso su cui tornerà in grande stile il padre, nell’Ulisse ricorda piuttosto il materno (citando Algy “una dolce madre grigia” p. 7), vomita carcasse, richiama grazie al color “verdemoccio” (p. 8), appena prima affibbiato ai poeti irlandesi, la scrittura. “Il mare scrotoscrittore” (ib.), dove “biancondose parole appaiate” baluginano sulla “fosca marea” (p. 14).

 

La proclamata identificazione di Renzi con il Telemaco classico, seppure volessimo enfatizzarne il polo attivo, non regge, mentre più calzante appare il Telemaco modernista. Resta da vedere se si tratta di una facciata pubblicitaria che nasconde il consapevole e reciso rifiuto di Stephen, o piuttosto se siamo di fronte ad una oggettiva mancanza di padri. Certo non va dimenticato che l’originale omerico è causa, seppure involontaria, dell’allontanamento del padre, allorquando infante viene messo dal reclutatore Palamede di fronte all’aratro di Ulisse, fintosi pazzo per non andare in guerra, ma costretto quindi a rinsavire di colpo e a partire. In più sappiamo che su suggerimento di Atena, ritornato di nascosto ad Itaca per sfuggire all’agguato mortale dei Proci, presso la capanna di Eumeo non riconosce il padre; qui c’è l’alibi del camuffamento divino, ma si potrebbe ipotizzare, mettendo insieme due indizi, che il Telemaco renziano vada un po’ in giro tra Pilo e Sparta per diporto e ostentazione più che per trovare davvero il padre politico. “La paternità è fondata sul vuoto”, sostiene Stephen; e in effetti quali sono i padri di Matteo Renzi?

Richiesto di esibire un suo pantheon ideale di riferimenti politici, Renzi fa i nomi di Nelson Mandela e di Amina, la giovane blogger della primavera araba. E sembra così operare una sottrazione. Si sente qualcosa di artificioso nella scelta esterofila e contemporaneista di un vecchio nero, combattente contro la discriminazione razziale ed eroe della pace, e di una giovane donna tunisina che, utilizzando la tecnica comunicativa à la page, cerca di promuovere democrazia e diritti civili in un mondo, secondo l’ottica occidentale, ad essi ostile. A volte il leader è stato accostato a Zingales, aggressivo economista d’area liberale, altre ha sbandierato i valori scout e l’ammirazione per l’imprenditoria visionaria di Steve Job e Adriano Olivetti, qualcuno come suo ispiratore ha pescato Giuliano Da Empoli, compagno di strada e antesignano della critica generazionale. Tutto assai labile e contraddittorio. Certo per paradosso nulla appare derivante a Renzi dalla parte politica di cui è a capo, seppur a sua volta tanto trasformata da risultare in perenne crisi d’identità: ecco quindi l’idea degli avversari interni che egli stia mutando dna al partito, perdendo contatto con il proprio elettorato naturale e con tradizionali settori di consenso. “Non sono un asino e non scalcio. Propongo idee nuove”, ebbe a rispondere l’erede nell’ottobre 2011 ad una nota polemica di Bersani che evidentemente lo vedeva emergere un po’ troppo d’impeto. Potrebbe con ragione commentare Recalcati, rispetto al mondo PD ed alle sue recenti guide: “il vecchio padre si è irrigidito nella sua posizione perché non si è sentito riconosciuto dal figlio”.

Se l’erede rifiuta l’eredità più ovvia, smarcandosi dalla storia e sottraendosi dall’origine, in osservazione  compiaciuta della distesa vuota del mare, ne conseguirà senza fallo la ricerca di altri, inconfessabili provenienze. Stefano Natoli ha osservato che il giovane Renzi divenuto Presidente della provincia era in quota Rutelli, ovvero l’ex-radicale coerentemente antipartitico e particolarmente avverso alla struttura comunista di ascendenza gramsciana e togliattiana, anticipatore di certe piegature spettacolari della politica derivanti dal maestro Pannella, nonché abilitato a vantare una primazia sul look della camicia bianca. Meno benevoli e viceversa avvezzi alla scopia tra le tenebre del complotto, i giornali d’area «Fatto quotidiano», ben rappresentati da Davide Vecchi, vanno delineando le incombenti ombre di padrini più che di padri dalle parti dei Proci moderni della politica, corrotti e gavazzanti. Arcore 6 dicembre 2010: “A fine incontro apparve subito che a Berlusconi piacque Renzi e viceversa”, dichiara al «Corriere» l’imprenditore Enrico Marinelli, accompagnatore dell’allora sindaco di Firenze. Il patrimonio genetico e l’adozione politica stanno dunque tutte a destra: Nicola Bovoli, zio in affari con Pubblitalia e Fininvest, l’inquietante Denis Verdini, e naturalmente per citare Marco Travaglio, il gran “pregiudicato”, Silvio Berlusconi, sponsor occulto dello “spregiudicato”. Insomma l’assenza del padre genera mostri. Giuliano Ferrara del resto, con candore sospetto, ha da tempo lanciato un’opa, per nulla ostile, sul governo Renzi, o meglio, benché sia una cosa sola, sul giovane premier. A far da coerente termine medio Berlusconi, a cui per vanto e non per scorno viene avvicinato Renzi: “Ha il fuoco nella pancia, il nuovo nato, come l’altro, il babbo, brucia di megalomane ambizione. Ma è anche lui mite, alla fine, e ridanciano e innamorato del suo ostentarsi piacente al populazzo (Ludovico Ariosto)”.

Dobbiamo allora forse abbandonare il mito di Telemaco e avvicinarci a quelli degli orfani fondatori, che sono usuali protagonisti di leggende, fiabe, miti e romanzi proprio perché più liberi di giocarsi nell’impregiudicata azione individuale, alla ricerca di se stessi e della propria fortuna. Un tesoro, una principessa e un matrimonio li aspettano, un’agnizione di nobili natali, una dignitosa professione borghese, se non addirittura la creazione di un regno, di un impero economico, di un partito politico. “Nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo ed annuncio del finire di un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi”(Jresi). Lo stato di minorità si può ribaltare allora in determinazione a farsi strada, partendo da una lateralità per la quale Michelet scriveva che “il fondatore della città, deve innanzitutto essere un esule ed eslege, come lo furono gli Ercoli e i Tesei della Grecia.” Così per Romolo e Remo, figli di una Vestale e del dio Marte, abbandonati e raccolti da una coppia di pastori, con il primo, tolto di mezzo il gemello, che da orfano diviene fondatore e primo governante della città eterna. “Generalmente miti e leggende considerano grandi eventi epocali come sorti d’un tratto dal nulla. Per tanto l’evento che narrano non sarebbe potuto preesistere, neppure in nuce. Miti e leggende conoscono non formazione ma fondazione” (Carandini). Un approdo paradossale per il Telemaco mitico, conseguente per quello novecentesco.

Con Monti e Renzi si chiude apparentemente biforcandosi la parabola mitica. Nel primo andando verso una desacralizzazione, o meglio una sostituzione dei modelli mitici classici con i miti d’oggi; in questo caso quello rappresentato dal tecnocrate a cui i profani s’affidano incantati. Nel secondo  sembra compiersi consapevolmente il percorso ben avviato da Berlusconi riguardo all’importanza della narrazione di sé, “conformi più alle favole che a una rigorosa documentazione storica”, come disse Tito Livio rispetto alle origini di Roma. E come confermano gli studiosi di politica e narrativa, i vari Bush, Obama, Sarkozy, oltre che i leaders di molti altri campi professionali, delle storie, magari non mitiche ma mitizzanti, non ne possono più fare a meno per stimolare le credenze e l’identificazione in loro da parte delle comunità. Renzi per la prima volta propone il proprio mito classico. Il quale però, trattato al pari dei tanti studiati da Roland Barthes, “è vissuto come una parola innocente: non perché le sue intenzioni siano nascoste – se fossero nascoste non potrebbero avere efficacia – ma perché son naturalizzate.” Secondo il suggerimento del semiologo francese “il mito trasforma la storia in natura” (p. 210) e mira così a infinita durata; noi sappiamo però che ha sempre origine storica e dobbiamo tenere gli occhi aperti per poterlo leggere e quanto meno rimettere piedi a terra. Pena se no quanto ammoniva Furio Jesi: “All’atteggiamento di chi tenta dolorosamente di reinstallare un vincolo puro con il mito genuino, accedendo al passato come ad una fonte vitale di guarigione, si contrappone l’opera delittuosa dei leaders che offrono alle masse un deforme precedente delle loro colpe”.

 

[Questo testo è tratto da Miti di leadership di Alberto Volpi, edito da Mimesis nel 2016]