Forse è vero, come ha scritto Sciascia, che l’opera di Brancati ha origine diaristica, una forma che permette l’incrocio fra il saggio e il racconto: di qui, infatti, si dispiega una linea di sviluppo che permette di comprendere sia l’evoluzione dei temi nei romanzi maggiori, sia l’espressione altrettanto vivace di saggi come I fascisti invecchiano, Le due dittature e di quel libro singolare, nato in pubblico, che è il Diario romano. I settant’anni dalla morte di Brancati, trascorsi nel 2024, hanno comprensibilmente riportato l’interesse sui suoi libri: scaduti i diritti, alcuni titoli che mancavano da tempo sono usciti in nuova veste, come i tre menzionati qui sopra (il Diario, a febbraio di quest’anno in edizione critica). Più che una considerazione di carattere storico, credo che questa ricca disponibilità editoriale permetta di riflettere sulla forza della sua espressione: nel racconto di caratteri che illumina comicamente una società irrigidita e tesa fino alla follia, Brancati si rivela un eccellente «scrittore di cose». Tuttavia, benché Stendhal nel suo lavoro conti almeno quanto Flaubert, credo sia opportuno ricordare una nota osservazione di quest’ultimo, ossia che per uno scrittore i legami tra le frasi sono tutto. Sono queste in fondo le “cose” di cui si occupa, che costituiscono la parte centrale e più attendibile della rappresentazione, ciò che crea l’insieme: in effetti, nei libri di Brancati c’è di che rimanere sorpresi. Quest’arte, tessuta da una voce narrante sempre a suo agio, emerge nella lettura dei libri come un dato apprezzabile almeno quanto l’indagine sociale; d’altra parte, il racconto di costume ha il pregio di mettere immediatamente a nudo i rapporti di forza senza isolarli dal resto.
Dopo le opere giovanili, nate da un «dannunzianesimo provinciale» (Ferroni) unito a una fede in Mussolini che Brancati confesserà amaramente in I fascisti invecchiano, la svolta comincia nel 1934: è l’anno in cui la meditazione sul rapporto epistolare con Giuseppe Antonio Borgese lo spinge ad allontanarsi dal miraggio dell’azione, l’anno in cui pensa di lasciare Roma per tornare in Sicilia ed è anche quello di Singolare avventura di viaggio, censurato per immoralità.
In questo breve romanzo la tensione erotica fra i due protagonisti, i cugini Enrico e Anna, si intreccia a una riflessione più ampia, che prende corpo nell’incontro con gli amici, arrivati anche loro in una nevosa Viterbo e impegnati in scambi di vedute da cui emerge l’immaturità di una generazione che – a differenza di quella impegnata nel primo conflitto mondiale – non si sente parte della Storia ed è anzi «minacciata dal ridicolo». Le incerte schermaglie fra Enrico e Anna e la tensione che si fa strada nell’estraneità dei loro gesti – nell’attrazione vissuta penosamente come una colpa –, approdano dopo la prima notte assieme a uno sconcerto nuovo e disorientante: consumato il desiderio, i due non sanno che farsene di se stessi. Verrebbe quasi da dire che si scoprono solo pochi passi più in là di Alfonso Nitti e Annetta Maller, che in Una vita di Svevo, dopo l’amore, rimanevano sconvolti, con Alfonso che non sapeva reggere la situazione e si ritirava per finire poi tragicamente. Certo, la stagione è diversa, e Brancati guarda a Borgese più che a Moravia – che cinque anni prima ha pubblicato Gli indifferenti – ma in questo caso il contesto rimane sospeso. Più esperto nel piacere, ma confuso e oppresso dalla legge e dal peccato, Enrico sogna di incontrare Gesù Cristo seduto presso una fontana a cui confessa i suoi tormenti, trepidante e scomposto perché non si è pentito. La voce narrante verso la conclusione prende in mano la vicenda, ne fa una sintesi e ne annuncia lo sviluppo futuro (i due si sposeranno):
L’avventura di Viterbo [a Enrico] si spiega come un sogno da cui bastava svegliarsi. Quel credere di non possedere una coscienza è “tale quale la paura del bambino che sogna di aver perduto il giocattolo, accanto al quale s’è addormentato; e quella ricerca disperata del senso morale era, essa stessa, senso morale”. (p. 84)
Il tema centrale del romanzo si coglie in questa incertezza – che è di tutta una generazione – nel desiderio pressante e inesperto che non sa farsi azione pienamente consapevole perché non trova modelli di riferimento; così gli amici di Enrico passano dal rimpianto per non aver partecipato alla Prima guerra mondiale alla critica per la posizione dell’Italia nello scacchiere europeo. Come dice Ridolfi: «[…] Io so come sia terribile la guerra; e non mi faccio illusioni in proposito. Ma noto che la tranquillità, la fermata, è una cosa assai grave per noi». Ne deriva un’irresolutezza disponibile a qualunque impresa, un’adesione inerziale al fascismo nello stesso tempo poco convinta e poco critica. Il tema di questa immaturità, benché svolto distesamente, resta qui un oggetto della rappresentazione più che farsi un tutt’uno nello stile e diventare il pezzo di vetro con cui guardare gli eccessi del mondo; a quest’altezza sembra quasi che per Brancati esista ancora una vita ordinaria che segue il suo corso nella quale irrompono la passione o un altro evento che dà luogo a una crisi, e attraverso il quale poi si esce per cercare di nuovo una realtà serena. In seguito sarà invece proprio il desiderio a costituire la sostanza della realtà, del vetro così come di ciò che si osserva, facendo assumere al lavoro dell’autore un aspetto riconoscibile. Come ha scritto Pampaloni, in Brancati «I […] personaggi non sono protagonisti di azioni, ma di atteggiamenti e di parole: non agiscono, ma reagiscono e commentano».
La svolta appare più chiara nel breve Sogno di un valzer del 1938 (scritto dopo Gli anni perduti). Qui non si avverte solo l’ispirazione gogoliana, che amplificando un dettaglio concreto lo forza verso l’astratto: nelle manovre eccitate dei più intraprendenti abitanti di Nissa, volte all’organizzazione del “ballo”, si inserisce come uno dei temi dominanti l’ammirazione inverosimile dell’ex-prete (e ora principale organizzatore) Ottavio Carrubba per Giovanni La Pergola, un perfetto e misurato uomo medio, quasi analfabeta: a detta del primo, però, toccato dalla grazia. Carrubba trascorre ore nella piccola bottega a osservare come La Pergola, sia in grado di «vedere l’al di là», dotato di una spontaneità che risulta quasi soprannaturale. Lo dichiara apertamente: «[…] io mi inchino a te, o La Pergola!», cogliendo nel modesto negoziante l’incarnazione di un gesto perfettamente misurato. A un certo punto – visti i sogni di La Pergola, in cui appare il fratello ucciso che lo induce a vendicarlo – il rapporto prende una brutta piega, che si fa grottescamente tragica nel sottofinale; ma se l’eccesso violento di La Pergola è evidente, come lo è l’errore, non si può invece liquidare altrettanto in fretta l’eccesso per cui Carruba cerca meticolosamente di motivare un’intuizione, quella della scoperta dell’uomo medio.
In un altro e più tardo breve scritto di Brancati intitolato Il bacio del gregario (1954), a metà strada fra saggio e racconto, l’impiegato Riccardo Triglino scrive un’opera dal titolo Studio sul lato divino del Sovrintendente annunciando ai colleghi l’intenzione di baciare il Sovrintendente, nel quale si presume prenda corpo un’entità superiore. Sia nel Sogno, sia in questo caso siamo in presenza di episodi comici in un regime totalitario, ma il rilievo di queste vicende non è quello di denunciare la natura storica dell’ambiente in cui si svolgono, quanto piuttosto quello di rivelare una realtà sempre dominata dall’arbitrarietà dell’eccesso di potere.
In queste prove Brancati si spinge a una torsione del racconto che va oltre Gogol’ per porsi idealmente vicino a Gombrowicz. Penso all’esempio del Ballerino dell’avvocato Kraykowski, incluso nel primo libro dello scrittore, Bacacay (edizione polacca, 1933). In questo racconto il narratore, in coda per assistere per la «trentaquattresima volta» allo spettacolo della Principessa della Ciarda, decide di saltare la fila. Una mano lo afferra per il collo e lo porta via di peso, intimandogli di comportarsi come si deve: è quella dell’avvocato Kraykowski. Il narratore potrebbe reagire, ma il gesto provoca in lui una rivelazione improvvisa. Da allora, malato epilettico, segue l’avvocato per salutarlo, per ringraziarlo, «dominato da un senso di indicibile riconoscenza». L’eccesso nel gesto dell’avvocato provoca non solo la reazione opposta a quella prevedibile ma suscita – in un pervertimento che trascina con sé l’intera interpretazione della realtà – un affetto altrettanto smisurato, che rivela il carattere arbitrario – di nuovo – delle convenzioni umane.
La Sicilia barocca e pigra di Sogno di un valzer è sovreccitata dalle fantasticherie, dalla possibilità teorica che il ballo – ossia il nome che si assegna alla felicità – dovrebbe portare con sé a tutta la società civile, ma trova un ostacolo concreto nel moralismo dei predicatori e nel fanatismo dei conferenzieri, e deve infine fare i conti con la violenza di chi è alimentato dalla superstizione. Nella parte conclusiva, nella scena del cimitero in cui Cannata e Castelli discutono della ragionevolezza, appaiono le lapidi di concittadini dalle passioni più singolari, come quella dell’avvocato Cantarella, che ha speso la vita «per dimostrare che Dante era pagano», o quella del suo avversario avvocato Luigi Grillo, che ha impegnato l’intera vita «per dimostrare che Dante è un Buddista». Anche i morti precoci hanno avuto possibilità di far sentire le loro idee, come Rosario Panebianchi, «che aveva pubblicato e letto in ogni dove, dieci volumi di versi intitolati: Canarini contenti, Serpi contente, Mosche contente, Erbe contente, Cavalli contenti, Fiori contenti, Stelle contente, Sassi contenti, Malati contenti, Morti contenti».
2.
Questo ritmo che rovescia ogni prospettiva ragionevole – in cui, per contrasto, la ragione sembra offrirsi come il solo appiglio a cui aggrapparsi – prende corpo in modo più composto, e con misura maggiore, nel romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Qui siamo davanti a un’opera riuscita in ogni parte. Nella vicenda del trentaseienne Giovanni Percolla e dei suoi amici la propensione di Brancati a cogliere la realtà deformata usandola come punto di osservazione privilegiato raggiunge risultati inediti.
I catanesi stravedono per la “donna”, per il discorso sulla donna, più che per la donna concreta: forse non si tratta neanche di “gallismo”, secondo la definizione che ne aveva dato l’autore. Il desiderio dei maschi di ogni età si trasfigura in un delirio assetato e appassionante in cui tutto tende a celebrare il trionfo della Donna, che diventa un sogno sempre più lontano, trascendente, quasi l’ipostasi della gloria della materia (le qualità più alte della materia sono incarnate nella Donna). Questi adolescenti immaturi ed esaltati (dove l’esaltazione dura oltre l’età pensionabile) cantano la donna e parlano per dare sfogo alla mente, tanto è vero che il più delle volte tornano a casa felici di quest’unica illusione.
In mezzo a tutto questo, Giovanni è fatto oggetto di uno sguardo decisivo, quello di Maria Antonietta dei Marconella. È lei che prende l’iniziativa. E in effetti, in ciò che segue, in un’esilarante – e anche qui quasi gombrowicziana verifica ripetuta degli sguardi, a metà strada fra l’esperimento e la sfida – si comincia a scorgere il passaggio di Giovanni dal mondo incantato e ridicolo dell’immaturità a quello della scelta responsabile; ma è Ninetta a condurre il gioco, dal primo sguardo alla visita alla sala degli Spettri al Parco dei Divertimenti; e anche in seguito. Lei, strepitosamente concreta, lo induce a ricomporsi, sia nella condotta, sia nel discorso, tanto è vero che i vaneggiamenti degli amici cominciano ad apparirgli inverosimili, anche se Catania è già pronta a travolgere la sua ragionevolezza inserendolo nel novero di un gruppo non molto più assennato, quello degli «innamorati».
Brancati è autore di splendidi ritratti femminili: come appunto Ninetta, che fa maturare Giovanni e lo porta a Milano; Barbara Puglisi del Bell’Antonio, con la sua dignità orgogliosa; la moglie Caterina di Paolo il caldo, col suo pudore e l’integrità senza i quali il protagonista ripiomba nell’inseguimento della più tetra lussuria. Ma in Paolo il caldo si devono ricordare almeno altre due figure memorabili, la regnante Bianchedi, che domina i salotti, ed Ester nell’ultima, più malinconica e forse più riuscita parte del romanzo.
Il finale del Don Giovanni vede il ritorno del protagonista e di Ninetta a Catania: già in viaggio il clima e la temperatura annunciano con largo anticipo il mondo siciliano con le sue seduzioni lente e sovrabbondanti: e in effetti, a casa delle tre sorelle, Giovanni non può che ripiombare nell’inazione paga di sé, nel cibo e nel sonno che le sveglie nell’alba milanese non gli avevano concesso. E in Brancati, che sia da Milano o da Roma, il ritorno trova ogni volta una Sicilia impenetrabile, affondata nel mito solare dell’abbondanza del suo passato, in cui la razionalità può fungere solo da diversivo, o da cannocchiale per scoprire una via d’uscita nel continente. Tuttavia, la passività favorisce una fantasia che si esercita tanto più sfrenatamente quanto più angusto è lo spazio dal quale osserva il mondo. In effetti, più che la stupidità – su cui hanno insistito alcuni interpreti –, mi sembra che a trionfare sia l’insensatezza, l’unico traguardo che si mostri perfettamente a portata di mano, nel quale si realizza un completo appagamento dei sensi immortalato dal sonno postprandiale. Il romanzo sembra dirci che la sostanza delle cose è questa: c’è poco da fare. Ed è proprio questa insensatezza, in un gesto di follia più immotivata e più estrema, che si esprime la natura delle convenzioni umane. L’unica via praticabile, ma non risolutiva – perché il mondo non offre garanzie – sembra quella quotidiana e concreta della misura, che sa accogliere l’insensatezza e comprenderla, passo dopo passo, senza respingerla in nome di una razionalità infondata, o di un eroismo trionfale e non di rado colpevole.
3.
Nei brevi capitoli saggistici de I fascisti invecchiano (1946), Brancati inquadra alcuni vizi sociali di chi ha vissuto il Ventennio, che non sono venuti meno nel dopoguerra e che sembrano anzi appartenere all’articolata patologia del carattere italiano, anche oggi capace di riformularsi in nuove varianti digitali. Il primo, nel saggio che dà il titolo al libro, è il fanatismo, di cui l’autore dà una definizione che vale la pena di riportare per intero:
Una crudeltà priva di follia e di rimorsi, una pedanteria priva di scienza, una ingegnosità senza fantasia o estro, una barbarie senza candore e una corruzione priva di estetismo e perfino di mollezza, una vocazione al male miseramente occultata da nubi di stupidità, uno sguardo rivolto in basso con lo sconcio rapimento di chi ha scambiato la terra per il cielo, una bocca che si serra con stento per masticare comandi sebbene già palesemente slabbrata da urli servili, linguaggio di ribelle e stipendio d’impiegato, un essere in tutto beffato dal demonio, e pazzamente orgoglioso della sua sconfitta, ecco il soggetto del nostro quadro. (p. 5)
Il fanatismo esprime una mancanza di autentica partecipazione emotiva e di studio concreto della realtà: di qui derivano il sentimentalismo, un’aggressività vuota e superficiale, un’adesione irriflessa e scomposta a ogni slogan di stagione e naturalmente l’identificazione nella tribù o nella folla, contro lo spirito critico che invece è sempre individuale. Del resto l’attivismo, abbracciato con entusiasmo, è stato forse uno degli abbagli più rovinosi del Novecento (anche oggi sembra riproporsi in altra forma, in nome della necessità del cambiamento). Politicamente, il fanatico può essere fascista come antifascista: nei salotti passa in rassegna l’album di fotografie per confermare le lodi ai suoi presunti trionfi; privo di umorismo, riduce ogni discorso a una tautologia ossessiva, per la quale pretende in modo sospetto di confermarsi sempre uguale a se stesso. Proprio di fronte a queste esibizioni, Brancati osserva che «la democrazia è fondata sulla sopportazione degli sciocchi», che di norma nei regimi totalitari sono ridotti al silenzio, mentre i migliori dicono sciocchezze per non incorrere in conseguenze prevedibili. In uno stato liberale parlano entrambi e si espongono così alle naturali conseguenze del loro discorso.
Più sottile è invece la considerazione di Brancati di un altro vizio, che potremmo definire il “pessimismo virtuistico”
Si trattava di persone per lo più parte degne di rispetto e di ammirazione, che avevano il sommo pregio di portare nel petto, sin dal 1919, un antifascismo senza macchia, ma talune, perché non dirlo? anche il difetto di averlo lasciato invecchiare e illanguidirsi. L’abitudine all’insuccesso aveva generato in queste ultime un’amarezza che col tempo era diventata piacevole e indispensabile come il sapore di un vizio. L’ospite (ossia il medico de Il ladro Dottore), più di ogni altro, sembrava affetto da questo male: secondo alcuni maligni, egli avrebbe rinunziato al piacere di vincere piuttosto che a quello di amareggiarsi» (p. 14)
Questi atteggiamenti resistono lungo i decenni come, in un altro esempio, il costume di scrivere lettere anonime: inviate dalla stessa persona a carico dello stesso bersaglio, prima perché non abbastanza fascista, poi perché appunto fascista lo è stato. Se la condotta dell’uomo denunciato può essere in questione, quella di chi denuncia in questo modo resta immutata e – in modo perfettamente ignaro di sé – inqualificabile. Un’intera vita di rancori e di bassifondi morali si fonde con il terrore gregario dell’impiegato che, scrive Brancati, non è mai riuscito a dire «il periodo del fascismo e Mussolini», ma ha sostituito «La grande epoca in cui viviamo e il nostro amato Capo» con «Il nefando regime e l’odiato tiranno».
La riflessione generale sul fascismo, sui suoi elementi costitutivi e sul suo consenso diventa confessione diretta nel capitolo Istinto e intuizione che comincia, a sorpresa, in questo modo: «Sui vent’anni, io ero fascista sino alla radice dei capelli» (p. 33). Si può dire che l’opera di Brancati, dal 1934 in poi, abbia preso corpo in privato in una lucida autoanalisi della passione illusoria per l’azione e per una vita creduta “sana” che lo avevano abbagliato nel fascismo (anche se c’è chi, come Francesco Perfetti, preferisce una maggior cautela avanzando il momento di distacco dal fascismo fino al 1939-1940 e comunque dopo il 1937). Ad ogni modo, dal 1934 in poi, dalle dimissioni da redattore della rivista «Quadrivio» e poi dal 1935, col primo ritorno in Sicilia per il concorso a cattedre, Brancati si allontana dall’ambiente del fascismo romano; del resto, il disorientamento generale dei personaggi di Singolare avventura di viaggio lascia trasparire un evidente cambio di tonalità degli scritti che non piace ai suoi interlocutori ufficiali. Dal 1937, con l’ingresso in ruolo come insegnante all’Istituto magistrale di Caltanissetta, il suo atteggiamento antifascista assume piena evidenza pubblica, come ha testimoniato Sciascia, allievo in quell’istituto. Brancati si avvicina sempre di più al liberalismo.
La lettera di Giuseppe Antonio Borgese, esule volontario negli Stati Uniti, datata 8 luglio 1933 e riportata in buona parte ne I fascisti invecchiano, presenta le accuse mosse a suo carico dal fascismo così come – davanti all’esortazione di Brancati a dichiararsi fascista – un affettuoso, ma irremovibile rifiuto che interpella il giovane corrispondente sulla questione rinviandolo a un giudizio differito: in realtà, anche a causa di questa lettera, Brancati comincia invece a considerare il giudizio impellente e necessario. E di lì infatti procede, ricostruendo il suo percorso. Come ha scritto Ferroni, lo scrittore arriva al liberalismo attraverso un’analisi della quotidianità all’insegna del buon senso e dell’uomo medio, non a caso nemici giurati del fanatismo. L’uomo comune che soffre e giudica con sobrietà, contro la retorica esaltata del regime.
4.
Il bell’Antonio esce nel 1949. La vicenda è nota: Antonio Magnano, un giovane di straordinaria bellezza, è a tal punto il sogno di tutte le donne di Catania che la famiglia deve rivolgersi a un prete. Nel suo intervento Padre Giovanni arriva, se non proprio a suggerire a Dio, quasi a pregarlo perché trovi un modo per mettere Antonio nella condizione di non peccare più. In realtà il giovane si accorge dell’impressione che produce sulle donne, ma è meno consapevole degli effetti che ne conseguono, nonché di quelli che gli altri pensano che contribuisca attivamente a realizzare: Antonio infatti – con qualche eccezione che anni dopo confesserà allo zio Ermenegildo – è inibito fino all’impotenza. La Sicilia che delira per la donna e la Roma fascista che rivendica una prepotente forza virile come prima virtù del maschio italiano trovano nella sua vicenda una perfetta rivelazione. Sullo sfondo, dichiarato dall’autore, c’è l’Armance di Stendhal. Brancati abbandona l’andamento speditamente comico del Don Giovanni per una soluzione più misurata in cui traduce quasi classicamente l’equilibrio tra forma e tema. Il dettato più sereno e disinvolto racconta una storia realistica a cui si sovrappone, in termini spesso indecidibili, la sua parodia; e il tutto, va detto, è risolto in modo eccellente da Brancati. Alcune radici del romanzo sono autobiografiche e si trovano in Emanuele Giardina (Edoardo) e nella sorte dei due fratelli Anfuso nell’Italia fascista dell’epoca, come ha ricordato Orio Vergani, peraltro non tenero con l’autore.
Nell’educazione sentimentale di due amici, Antonio, che aspira all’amore, e Edoardo, che sogna il successo pubblico (ricoprire a lungo il ruolo di podestà), come nel romanzo di Flaubert nessuno andrà incontro a ciò che spera.
Di per sé, Antonio non avrebbe neanche bisogno di vivere, dato che le voci sulle sue formidabili e immaginarie conquiste corrono autonomamente, ma la sua inazione gli pesa, così come la lunga aspirazione a un posto al ministero che non si profila, nonostante la laurea in legge e il trasferimento a Roma. Rientrato, arriva al matrimonio perché al primo sguardo Barbara Puglisi – che la famiglia vorrebbe dargli in moglie – gli suscita un’enorme impressione. Velocizza il progetto un favore che le sue entrature romane prestano al padre di Barbara e di qui si arriva in breve al fidanzamento, alla notizia del quale la vicina di casa tenta inverosimilmente il suicidio. Questo interregno sospeso, il fidanzamento, fa la felicità di Antonio, che corre con Barbara libero e spensierato sulle strade di campagna. Nel 1935 si sposano. Barbara resta per Antonio più o meno l’ideale di una donna angelica, la cui bellezza lo commuove: tre anni dopo il matrimonio non è stato ancora consumato e scoppia lo scandalo. Il suocero vuole la dichiarazione di nullità, che in effetti nel 1939 riesce a ottenere. Barbara si risposa. Alfio, il padre di Antonio, sprofonda nel dolore per una reputazione ai suoi occhi sempre più compromessa e morirà nel 1942 in casa di una prostituta nel tentativo di restituire l’onore alla famiglia.
Un po’ come i Deslauriers e Frédéric di Flaubert, anche Edoardo e Antonio ragionano della loro vita. Il primo, dimesso il ruolo pubblico, ha conosciuto il carcere, poi il campo di concentramento. Antonio, sempre intento a esaminarsi, ha avuto un sogno erotico che lo fa sperare in una vita felice; davanti a questa rivelazione l’amico lo vorrebbe destare dai suoi interessi erotici adolescenziali e rivolgerlo ai grandi problemi umani in nome di una responsabilità più alta. Ma poi, nei fatti, lasciato Antonio quasi in collera, Edoardo violenta la figlia del portinaio (Brancati esibisce in rapidi dettagli la sofferta contrarietà di Giovanna). Mentre al telefono confessa in lacrime all’amico quanto ha fatto, Edoardo conserva l’impressione che Antonio resti un adolescente.
L’ultima parte del Bell’Antonio sigilla entrambi questi personaggi in un’immaturità insuperabile: da una parte quella dell’erotismo restaurato come unico e vuoto obiettivo dell’avvenire; dall’altra, un’ambizione solo apparentemente più responsabile che davanti alla frustrazione si fa di colpo criminale. La fantasia non illude più come invece ancora riusciva a fare nel Don Giovanni in Sicilia, non mette nel mezzo né della materia, né di un sogno più grande: in questa realtà amara e cupa in un modo o nell’altro – anche nel suo fallimento – l’azione viene consumata. Ma la ricerca del riscatto nell’azione, ossia proprio ciò che tanto aveva abbagliato il giovane Brancati, risulta a ben vedere impossibile perché senza coscienza, senza riflessione morale, i suoi traguardi risultano fatalmente ingannevoli. L’onore, che è forse il primo di questi traguardi, si rivela un guscio vuoto. Nel caso in cui si sia spinti a ritenere che il suo involucro si sia rotto, come accade per il padre di Antonio davanti alla disgrazia del figlio, non lo si può più riparare, né riempire. Nell’Italia del sogno autarchico i personaggi vivono la perdita dell’autonomia e la scoperta di non poter bastare a loro stessi come una sconfitta definitiva.
5.
Con Paolo il caldo il clima cambia ancora: il libro, pubblicato postumo ma su indicazioni dell’autore, suona per lunghe parti tetro. Moravia sostenne nella Prefazione del 1955 che Brancati, scrivendolo, si trovava in una fase di passaggio, da una narrativa spedita a una più analitica, quasi proustiana: il passo in effetti è diverso, e indubbiamente ciò che perde nella frequenza lo acquista in ampiezza. Le parti in cui il libro è diviso sembrano nettamente separate. Non è chiaro quanto questo sia voluto, se si tratti di un ponte gettato verso una nuova sponda; senza dubbio qui Brancati si muove in modo diverso, partendo da questioni private, quasi intime. A sorpresa, il primo capitolo è scopertamente autobiografico e riflette un periodo difficile, in una sorta di esame di coscienza poco mediato. La lettura, va detto, è più faticosa. Sembra un po’ di avere per le mani l’Uno, nessuno e centomila di Brancati; come quel romanzo – rispetto alla felicità narrativa del Fu Mattia Pascal – suona più faticoso e troppo figlio del progetto, così anche questo, paragonato ai due precedenti, mostra in modo troppo evidente l’intenzione razionale di chi scrive.
Per quanto il narratore, «innamorato di sua moglie», rifletta sul suo sentimento «calmo e quasi lieto», lo fa con una gamma lessicale che in un breve giro di righe subito riporta «lugubre», «tetraggine», «agonizza». Nonostante le dichiarazioni contrarie, si avverte che il gioco si svolge sul filo di una disperazione neanche tanto nascosta: così ad esempio risulta greve – soprattutto se la compariamo ai dettagli offerti in tante brillanti prove precedenti – la considerazione sull’erotismo e su una pratica delle ragazze romane che secondo una voce popolare dovrebbe apportare loro vantaggi dermatologici. Poche pagine dopo, un passo chiarisce meglio il contesto: dopo aver ammesso di non credere ad alcun peccato della carne, il narratore spiega che cosa intenda:
[…] C’è un peccato che può commettersi su quello stesso letto o prato d’erba, e in quella identica positura con cui si pratica la semplice, gaia e raggiante sensualità, ed è il peccato della lussuria. Questo non è peccato della carne, ma contro la carne, che perde pian piano la sua lievità e trasparenza, e si riempie di oscuri fermenti, di opacità e ispessimenti di ogni genere fin nella sua parte più delicata e alta, fin nello strumento dell’intelligenza e della felicità, il cervello.
La sensualità perde la sua autonomia e la sua gioia per ridursi a espressione mediata di aspirazioni, fermenti, frustrazioni: si trasforma, insomma, in qualcos’altro. Il narratore accenna alla sua vita in Sicilia, a ciò che l’isola ha rappresentato per i suoi primi trentanove anni. Dichiara di avere una figlia, ricorda poi la ragazza trentina dal bellissimo viso che recitava il finale di Zio Vanja e di cui si è innamorato (in una ripresa letterale del suo primo incontro con Anna Proclemer, poi sua moglie, che al tempo della stesura del romanzo era separata da lui, anche se poi sarebbero tornati a frequentarsi). Loda il matrimonio, ma con scarsa energia. Verso la fine del primo capitolo entra in scena Paolo Castorini, il protagonista del romanzo, uno dei due amici che il narratore continua a frequentare a Roma.
È lui, dunque, Paolo il caldo. In una sorta di ricapitolazione complessiva dei temi cari allo scrittore, di qui in poi l’azione si sposta di nuovo a Catania, dove vediamo Paolo crescere, prima ragazzo, poi adolescente, figlio di un padre equilibrato e meditativo, l’unico esente dall’infuocata mania dell’eros che travolge l’intera famiglia Castorini. Vincenzo Torrisi è il compagno di avventure e di sfide erotiche con la banda dei ragazzi, che scatenano la repressione moralistica – ma tutto sommato comprensiva – dei maggiorenti. Rispetto al Don Giovanni, la sensualità ha conseguenze più gravi, anche se non sempre i responsabili ne sono consapevoli, come nell’episodio di Giovanna, la serva con cui Paolo ha le sue prime gioiose avventure. Allontanata dalla casa per ragioni morali, salvata da un tentativo di suicidio, si consegna a un’«inerte semplicità», a una sopravvivenza priva di luce, ben risolta in poche righe da Brancati, mentre la famiglia Castorini e Paolo stesso rimangono indifferenti sullo sfondo. Le schermaglie sulla politica internazionale, l’idiosincrasia per l’Inghilterra non muovono molto la storia; in termini di pensiero lo fa di più il lungo dialogo che Paolo ha col padre nel capitolo quarto, in cui lo spento ma ragionevole Michele cerca di illuminare il figlio sulle virtù razionali. Dopo il suicidio del padre, un dialogo fin troppo affrettato con Vincenzo Torrisi induce Paolo a traferirsi a Roma per studiare legge.
La capitale è quella che avevamo lasciato nel Bell’Antonio, ma che si offre con una disponibilità erotica da parte delle signore sorprendentemente amplificata (e decisamente eccessiva). Paolo si dà da fare; resta tre anni con Lilia, poi lei trova qualcuno con cui sposarsi. Nei salotti incontriamo la parodia del dibattito culturale, in discussioni nelle quali i temi dell’arte si intrecciano a più quotidiani e corrivi aneddoti sulle infedeltà. Fra quelle poltrone Paolo si muove in cerca di nuove sfide, in una sorta di dongiovannismo non più catanese, ma kierkegaardiano. Nel frattempo, siamo arrivati forse troppo in fretta al 1948: Paolo ha quarantacinque anni.
Fra le tante donne con cui si intrattiene spicca Beatrice Bianchedi, la regnante, capace di offerte verbali vertiginosamente spudorate, a cui non manca di far seguire un comportamento conseguente. In un pranzo, sullo sfondo, compare perfino Thomas Mann. In una parte più mossa, ma inverosimile, mentre Paolo sta aspettando un nuovo contatto femminile, il furibondo ingegner Banchedi, che vorrebbe vendicare il suo onore, rischia l’infarto. La notizia di una malattia della madre riporta Paolo a Catania dove, dopo alcuni casi alterni, si sposa con Caterina, nipote del farmacista Berselli (di cui a suo tempo aveva ammirato la figlia). Ora Paolo vuole scrivere, ma tornato a Roma non sa vivere una vita equilibrata, né trovare davvero un’intimità serena con sua moglie. Finché l’equilibrio di Caterina lo tiene a sé, Paolo scrive, lavora; lei però lo sente lontano. Nella sua onestà di ragazza per bene «un po’ tardiva» su certe cose, come ammette esplicitamente, non può però attribuire solo a se stessa la colpa della sua infelicità e quindi decide di tornare a Catania per dare una mano all’impresa di famiglia. Dopo la sua partenza Paolo ripiomba nel labirinto oscuro e vuoto della lussuria. E ormai qui forse solo Ester, sia pure per scherno, sa tenergli testa. Nei capitoli non scritti, Brancati dichiarò che avrebbe raccontato «che la moglie non tornava (più) da Paolo» e che lui si sarebbe contorto in una spirale negativa «fino a sentire l’ala della stupidità sfiorargli il cervello».
L’amarezza del finale resta sospesa ma sembra annunciare che nella vicenda complessiva di Paolo l’equilibrio si rivela solo temporaneo, insostenibile e in ogni caso insoddisfacente. Va detto che se Giovanni Percolla è un fiducioso esploratore della vita, Antonio Magnano e qui Paolo Castorini perdono progressivamente questa fiducia: in Paolo non c’è più molto di autentico, le avventure si riducono al gesto ripetuto e ossessivo. Così la sua vicenda non ha più niente di comico perché ciò che compie sulla scena pubblica non dà luogo ad alcuna dismisura: del resto, in pubblico combina davvero poco, a differenza di ciò che comunque accadeva ai protagonisti dei due romanzi precedenti. Nella sua riflessione si apre invece un abisso interiore che non è sondabile nello spazio, né nel tempo. L’ironia – più che l’umorismo – della voce narrante è più sfumata e non riuscita fino in fondo (penso alle scene del salotto, alle discussioni degli intellettuali). Mentre in precedenza la realtà era comunque fonte di scoperta e di meraviglia (perfino per Antonio), qui sembra ripiegata, ridotta a oggetto di riconoscimento, non di rivelazione. E questo si traduce sull’altro tema principale di Brancati: la sensualità un tempo sperata fino al delirio, poi felice e risolta in sé (nel Don Giovanni in Sicilia, in una condizione di parità con Ninetta, anche se non sempre accompagnata dalla fedeltà), si è fatta prima drammatica o criminale (nei casi di Antonio ed Edoardo), poi tetra e tramutata in espressione dell’autoinganno e della frustrazione; in breve, del nudo potere nei rapporti di forza.
6.
Arrivando a una sintesi, fra i libri di Brancati colpisce la riuscita di Sogno di un valzer e del Don Giovanni in Sicilia, che si reggono sull’umorismo, sulla mobilissima sensibilità e sull’intelligenza della voce narrante, tali da imprimere al racconto un ritmo privo di cedimenti. Le due storie si possono aprire a caso: ogni pagina mostra come sia proprio la voce narrante, molto più che il plot, a costituire una soluzione romanzesca praticabile. Al centro del racconto si trova l’interpretazione della realtà mossa dai bisogni e dai desideri dell’essere umano, in primo luogo da quelli affettivi, a cui la ragione offre a volte un riparo temporaneo sulla cui durata però non si può fare troppo affidamento. Stilisticamente, il partito preso comico stabilito all’inizio è condotto con grande maestria, come capita in Sogno di un valzer di cui ricordiamo la prima frase che detta subito il tono: «Di un ballo, si sentiva veramente il bisogno». Si veda ora quella del Don Giovanni: «Giovanni Percolla aveva quarant’anni, e viveva da dieci anni in compagnia di tre sorelle, la più giovane delle quali diceva di esser “vedova di guerra”». Vedova perché la guerra le aveva negato le occasioni. Il romanzo regge questa dinamica perfino nella più difficile – e comprensibilmente più fredda – parte milanese. I personaggi mostrano una piena fiducia nella possibilità di intuire ciò che li circonda, che dura fino alla conclusione: e si tratta, in fondo, di un finale lieto, cosa rara fra i grandi romanzi italiani.
Quanto al Bell’Antonio,mi sembra eccessivo riconoscere nella mancanza di dettagli dell’orizzonte storico e politico il difetto che gli impedirebbe di essere un libro migliore. Come già gli altri, anche in questo la voce narrante procede senza esitazioni; il ritmo però è diverso, più sinistramente composto, e diversi sono i caratteri, meno ricettivi e anzi più rigidi e chiusi, si muovono con più fatica su uno sfondo storico complicato e posseggono anche un’ingombrante, e spesso controproducente, pessimistica, coscienza di sé. Il libro offre splendidamente una vicenda che riporta la commistione fra ambizioni perdute e illusioni adolescenziali, con il carattere grottesco e violento del Ventennio. D’altra parte, pur essendo del tutto riuscito, questo romanzo sembra assumere l’aspetto di un esperimento irripetibile che suscita ammirazione, più che partecipazione emotiva.
Meno incoraggiante è invece, almeno fin verso il finale incompiuto, la lettura di Paolo il caldo, articolato e ricco di intuizioni, ma per ragioni comprensibili meno organicamente composto e anzi troppo diviso nelle sue varie parti: la siciliana sembra non convincere del tutto nemmeno il narratore (l’ossessione erotica lo ha stancato, ma il raziocinio del padre di Paolo sembra troppo debole per assumere davvero consistenza); la parte romana spesso lo disgusta. Quando la partenza della moglie spinge Paolo verso un’oscurità consapevole, il libro guadagna in consistenza, trova un suo equilibrio in un’esistenza imperfetta, ingarbugliata e ossessiva, che ora cerca di rendere conto di se stessa senza riuscirci fino in fondo.
I saggi, come i racconti del Vecchio con gli stivali, sono ricchi di sorprese. I fascisti invecchiano costituisce fra l’altro il documento raro di una confessione in pubblico della giovinezza e prima maturità fascista – comune a tanti coetanei di Brancati – e di quanto sia costato rinnegare quella strada e imboccarne un’altra. In effetti la sua autoanalisi si svolge tutta all’insegna della misura, della fatica etica del giudicare e del discernere.
Marchesini è tornato più volte in tempi recenti sulla necessità di rileggere le opere di Brancati a metà fra il saggio e il racconto, così libere e lucide: «La gioia dell’espressione, il rifiuto dei dottrinarismi, il senso vivissimo della misura e dell’umorismo. Sono tratti che Brancati si era guadagnato con dolore e con vergogna durante gli anni Trenta, passando da una gioventù entusiasticamente fascista a una crociana religione della libertà, tanto più autentica appunto perché declinata in chiave umoristica». Come narratore, la virtù della misura è affiancata dal passo dell’invenzione, dal ritmo musicale dove le immagini si fanno racconto con forza plastica evidente. Amato da Sciascia, più composto di Gadda, – ma meno sensibile al richiamo del tragico –, nel suo orizzonte talvolta arriva, in piena autonomia e quasi in solitaria, in un territorio poco sondato alle nostre latitudini; ci arriva privo di a-priori poetici adottati dalle teorie o dai movimenti stagionali, o presi in prestito da altri esempi, tanto è vero che due dei tre romanzi maggiori escono nel pieno fiorire della narrativa resistenziale e neorealistica, (senza che vi abbiano nulla a che fare). Ci arriva, appunto, per forza di invenzione.
Nota. Per i libri di Brancati faccio riferimento alle seguenti edizioni: Singolare avventura di viaggio. Sogno di un valzer; Don Giovanni in Sicilia; Il bell’Antonio; Paolo il caldo, quattro volumi usciti in edizioni tascabili Mondadori, collana Oscar Moderni, rispettivamente nel 2018, 2019, 2017, 2018. Gli anni perduti, Firenze, Passigli, 2025; Il vecchio con gli stivali, con uno scritto di Leonardo Sciascia, Firenze, Passigli, 2025; I fascisti invecchiano, Roma, elliot, 2025; Le due dittature, Nino Aragno Editore, Torino, 2025; Diario romano, a cura di Massimo Schilirò, Palermo, Il Palindromo, 2025. I due Meridiani di Brancati: Romanzi e saggi, a cura di Mario Dondero, con un saggio introduttivo di Giulio Ferroni (a cui si accenna nel testo, e con la Cronologia di Dondero), Milano, Mondadori, 2003; il secondo volume, sempre del 2003 si intitola: Racconti, teatro, scritti giornalistici. Testi di altri. G. Flaubert, L’opera e il suo doppio. Dalle lettere, Roma, Fazi, 2006 (l’effetto d’insieme di una cosa immaginata: lettera a Louise Colet del 26 agosto 2853, pp. 177-182); W. Gombrowicz, Bacacay. Ricordi del periodo della maturazione, Milano, Feltrinelli, 2004. A. Moravia, Prefazione, [1955] in Paolo il caldo, Milano, Mondadori, 1972, (pp. XXIII-XXX); nello stesso volume G. Pampaloni, Introduzione in Paolo il caldo (V-XIII). L. Sciascia, Vitaliano Brancati, in Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari (1955-1989), Milano, Adelphi, 2016 (163-170). Il giudizio poco benevolo di Orio Vergani su Brancati citato in F. Perfetti, Prefazione, in Le due dittature (edizione Aragno citata più sopra, in particolare, pp. XXVIII-XXX). Nello stesso testo Perfetti colloca più avanti la svolta di Brancati. Sempre nel volume Le due dittature, Brancati riferisce lo spunto per l’aneddoto di Riccardo Triglino e del suo studio sul lato divino del Sovrintendente allo scrittore Zancencko. M. Marchesini, Le malattie di Brancati, in, Idem, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Macerata, Quodlibet, 2014 (pp. 184-190); L’ultima citazione è tratta da M. Marchesini, Ridere degli squadristi. Per un buon uso di Brancati nel 2025, «Asilo», Substack, 10 novembre 2025. (wn)

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