Definizione irritante di felicità

di in: Inattualità

Ho letto da qualche parte, qualche tempo fa, che qualcuno di molto seguito, tipo la psicologa autrice dell’ultimo best seller, ha dato una autorevole definizione della felicità.

Cos’è la felicità? Dice la psicologa (ma non mi ricordo se era davvero una psicologa perché ho la memoria molto labile) che la felicità è il raggiungimento degli obiettivi.

Ho letto questa cosa e lì per lì l’ho dimenticata. Mi pareva in linea col pensiero dominante, ragionevole, di buon senso. Un po’ banale, forse, ma certamente giusta.

Poi, nei giorni, mi è montato dentro lo sgomento, poi la paura e infine la rabbia. Perché questo tipo di pensiero è quello che ce la sta portando via a tutti, la felicità.

Raggiungere gli obiettivi?

E chi non li può avere, gli obiettivi? Chi ha un handicap fisico, o mentale, o è svantaggiato economicamente? Chi ha subito traumi da cui non si riprende, chi è stanco, scoraggiato o semplicemente pigro?

Deve essere infelice? Per forza?

Qui da noi sì. Glielo dicono tutti, che è un povero sfigato.

Ma io ho vissuto dieci anni in paesi dove di gente senza obiettivi ce n’era parecchia. Anzi, era la maggioranza. Mica erano infelici.

Tristi a volte. Spesso incazzati. Ma non infelici. Non nel nostro lugubre, malinconico, freddo e molliccio modo di paese evoluto.

In Africa i bianchi pensano che i neri, in fondo, sono un po’ coglioni. Bambinoni stupidi e svogliati che se ne fregano del loro stesso destino e non fanno nemmeno quelle piccole cose di piccolo sforzo che li potrebbero far guadagnare di più, risparmiare meglio e investire in qualcosa che non sia il vestito nuovo della festa.

Confesso che anch’io l’ho pensato. E ne faccio un mea culpa quotidiano.

Allora, tu sei uno sciancato nero povero povero povero che chiede l’elemosina ai semafori e ti ricopri di polvere e smog ogni volta che la macchina ti spetazza addosso la partenza. E torni al tuo posto, fra gli altri malati, e sorridi e ridi e scherzi.

Oppure sei una donna araba velata fino agli occhi, che passa in casa la vita fra i figli e i cibi miseri. E fra i parenti, i riti, le abitudini trascorri i giorni e sorridi e ridi e scherzi.

In tutti e due i casi sei in mezzo al deserto della terra e della vita. Non sai cosa ti succederà oggi, non sai se ci sarà domani. Non sai se mangerai.

Senza nemmeno la traccia di un obiettivo, vi assicuro. Non di quelli che intendeva la psicologa o cosa cavolo era. Roba tipo trovare l’uomo ideale, il lavoro appagante, l’intesa sessuale, la posizione sociale, la salvezza del prossimo e del mondo.

Mia nonna è rimasta orfana che era una ragazzina. Senza nessuno che l’aiutasse a sopravvivere. Si è messa a fare l’operaia (guantaia) e respirava così tanti peli che a sera sputava palle dai polmoni, come i gatti.

Però c’aveva le compagne di lavoro e le amiche e si divertiva a ciaccolare con loro. Poi era tanto bella e conobbe un giovanotto assai prestante con cui passava le notti. “Sapeva fare l’amore”, mi diceva sorridendo. Poi, quando aveva i soldi, si metteva in ghingheri, con una veletta sulla faccia, e lui la corteggiava credendo che fosse una sconosciuta. Poi litigavano e facevano la pace.

Mia nonna non aveva obiettivi ed era felice.

L’obiettivo è nel futuro. Il presente, così com’è, non ha obiettivi. Eppure la felicità si prova nel presente. Sennò non è felicità, è illusione.

Io temo che gli obiettivi ci facciano solo soffrire, perché ci allontanano dal presente. Da noi stessi e dagli altri, che nel presente sono corpi e aliti e pensieri, ma nel futuro sono solo proiezioni fantastiche e inquietanti. Sono già frustrazioni, perché non ci sono qui e ora.

Mia mamma compra i biglietti della lotteria e io mi arrabbio. Non perché non vincerà e sarà triste per questo. Ma perché è già triste mentre lo compra, il biglietto. Si sta dicendo che non le bastano i soldi che ha, che vivrebbe meglio in un’altra situazione, con altre cose intorno.

La vita non è una ruota della fortuna. Non è nemmeno un’arena, non è un parco giochi e neppure una valle di lacrime.

È una situazione in cui si sta. E dentro la quale ci muoviamo, in percorsi fluidi o forzati, facili o difficili.

Bello, poter seguire le passioni, invece degli obiettivi. Faccio una cosa e la faccio con tutta l’anima. Perché mi piace, perché ci credo. Se il caso, porterà delle conseguenze, avrà dei risultati. Sennò no. Ma io ho vissuto bene lo stesso, perché ho fatto ciò che avevo dentro, l’ho amato e sviluppato, cresciuto, visto fiorire. Piccole cose, anche. Mica devo per forza sfondare il culo al destino.

Questo mi ha fatto pensare, quell’articolo che non mi ricordo nemmeno bene. E non mi importa di ricordarlo male; se non diceva così ma diceva cosà. Non era una psicologa ma una tuttologa. Era un saggio, non un libro ecc. ecc. Non me ne frega niente.

È vero che viviamo per obiettivi. E che viviamo infelici.

E che se non lo siamo, infelici, ci scrivono dei libri che ci dicono che lo siamo.

Hai subito una sconfitta, una delusione, una menomazione? Devi essere infelice, per il resto della vita.

Sono andata a stanare un marabut, una volta. Un losco individuo che si spaccia per maestro del corano e butta i bimbi nella strada a chiedere l’elemosina.

I bambini vivevano in una discarica e avevano più croste in testa che capelli. Più cispe che ciglia e più costole che carne. Mi sono corsi incontro ridendo, in una gara a chi arrivava primo. A me veniva da piangere e mi sentivo stronza, perché loro non capivano le mie lacrime. Loro erano disperati, non infelici.