Sonetti burleschi con carica civile

Al modo dei compilatori provenzali di «vidas» e «razos», Gianni Celati ci propone, con il suo nuovo libro (Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna, Feltrinelli, pp. 108, euro 7,50), una sorta di prosimetro medievale, alternando prosa narrativa e versi, nella fattispecie una catena di sonetti tra il filosofico, il civile e il comico-burlesco. Al centro della scena, l’attore Attilio Vecchiatto, già presente in un libro del ’96 dello stesso Celati, la cui pseudobiografia viene ricostruita, nella parte in prosa, dal teorico della «letteratura come imbroglio» Enrico De Vivo, presunto testimone oculare degli ultimi anni di Vecchiatto, sbarcato in Italia nell’84 dopo un’ esistenza di vagabondaggi vissuta in compagnia della moglie Carlotta nel Sud America, a New York e in Francia, dove raggiunse l’apice del successo.

Celati veste la finzione di realtà e la realtà di finzione, costruendo una cornice verosimile puntellata di precisi elementi cronologici e topografici, e costellata da personaggi storici, come Fellini e Michel Piccoli. Si risale così ai trascorsi dell’attore e se ne seguono le poche tracce lasciate nel nostro Paese: ospite della casa del De Vivo ad Angri, nel Salernitano, Vecchiatto mise in scena l’unica sua recita italiana, un dramma sulla vecchiaia, nel teatro di Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia. Approdato in patria, l’anziano capocomico, che si sarebbe spento silenziosamente in una notte di novembre del 1993, si imbatté in un paesaggio, fisico e umano, che non riconosceva, un luogo «tristo», volgarmente imborghesito, istupidito, e per di più senza vergogna. E raccolse le sue impressioni in una serie di composizioni poetiche trascritte su un quaderno, il cui ritrovamento postumo si immagina alla base del libro. Che alterna, dunque, brani in prosa sulla vita di Vecchiatto e i suoi 51 sonetti shakespeariani (tre quartine e un distico finale a rima baciata).

«Torna da vecchio in patria il viaggiatore/ e guarda il suo paese ritrovato,/ ora inospite, triviale, deturpato,/ in mano a furbi senza alcun pudore:/ fogna di massa, paese d’orrore…». Gli intermezzi narrativi hanno qua e là il tono del referto che attraversa le tappe di una vita avventurosa, altrove assumono tinte favolose e picaresche, specie quando si soffermano sulla memoria del soggiorno italiano del vecchio teatrante: per esempio, nelle pagine in cui si intravedono Attilio e sua moglie in fuga da Dario Fo, che li insegue in vestaglia e ciabatte imbestialito da certe menzogne fatte circolare sul suo conto. I versi si dispiegano invece, sempre con un sottofondo di ironia e amarezza, tra intimità e ricordi di vecchi umori, tra invettive e riflessioni filosofiche (sostenute dalla lettura dell’amato Giordano Bruno) sul senso della vita e della morte, sulle illusioni del nuovo, sul rimbecillimento da televisione e sulla caducità del finto ottimismo trionfante: «Vecchiatto è un clandestino in latitanza/ e lascia tutta a voi quella speranza». La sua ultima missione impossibile sarebbe quella di «defurbizzare l’Italia» (nella premessa viene citato Zavattini, titolare di quella formula).

A chi si chiede chi sia Badalucco, risponde De Vivo, evocando le parole pronunciate una sera dallo stesso Vecchiatto, quando in un imprevisto slancio di vitalità salì su una sedia del bar Raiola in veste di guru dicendo ai numerosi avventori che «Badalucco è dentro di noi, non è un personaggio iscritto all’ anagrafe, ma una categoria dello spirito». Domanda: c’ è qualcuno che riesca a sfuggire al potere malefico del badalucchismo? Risposta: «Ma sono le donne con la sporta della spesa, perbacco!». Sono loro, le anziane madri di famiglia, le «portatrici di sogni, sortilegi o incantesimi», le fate, le maghe che possono procurare cibi succulenti, canzoni, pensieri amorosi, richiami di amici lontani, accendere un mondo ingrigito dalla menzogna e dalla furbizia. Non è raro raccogliere, dalla bocca dei vari narratori, un’immaginazione da comica finale o un parlar delirando alla Guizzardi. Sonetti del Badalucco nell’Italia odiernaè una sorta di parodia giocosa della denuncia politica veicolata dai tanti pamphlet e libri-verità che affollano l’editoria. Un libro che scommette sulle facoltà inventive della letteratura e sulla potenza civile della finzione.

Tratto dal Corriere della sera del 5 maggio 2010, p. 39