Conversando con Guido

Che cosa significa vivere, e scrivere, e sentirsi insomma scrittore, in una provincia di frontiera come questa? Lo chiedo al mio amico Guido Conterio, l’unico a cui credo valga la pena chiederlo da queste parti. Con Guido, che è fine scrittore, di stile immaginoso, credo di condividere una certa sofferenza nel vivere da queste parti, entro confini tanto angusti. Incontro il mio amico in una caffetteria del centro, e lo coinvolgo nella discussione dopo avere ordinato due cappuccini e due croissant (non è vero, altro che croissant, ci stiamo scrivendo email, ma fingiamo che ci sia davvero una caffetteria attorno a noi, e che l’aroma dei cappuccini ci inviti a non essere troppo malinconici nei nostri ragionamenti). [C. M.]

Opera di Carlo Berté

GUIDO Incasso con gratitudine i tuoi elogi, ogni lasciata è persa; e vengo al tema del “confine”.

Non vorrei dare l’impressione di conformarmi pedissequamente a un certo tipo di retorica, talora francamente un po’ stucchevole, cui indulge volentieri l’establishment politico-intellettuale della regione, tuttavia credo sia onesto rammentare che la Valle d’Aosta, se da un lato è terra di confine, dall’altro occupa rispetto all’Europa una posizione che decentrata non è affatto: ciò effettivamente, e in discreta misura, rende possibili opportunità, stimoli, insomma “folate” rigeneranti di (ma sì) cosmopolitismo, magari un po’ casereccio, di cui forse altre realtà di provincia di dimensioni comparabili non possono beneficiare. O mi illudo?

Bisognerebbe poi a questo riguardo aprire una cospicua parentesi sull’annosa questione del bilinguismo, ma qui non caschi molto bene, perché temo di essere tra i meno titolati a discettarne, abitando fra l’altro in Valle “solo” da trent’anni: la mia formazione, fino alla laurea in fisica, è avvenuta a Torino, in una cornice di riferimenti, tradizioni – e sintonie (anche “francesizzanti”) con la cultura internazionale – ovviamente più ricca di quella di cui può godere un piccolo centro come Aosta. E tuttavia, dacché abito da queste parti, non ho mai avuto l’impressione di essermi rinchiuso con le mie mani in una fortezza Bastiani, non raggiungibile né redimibile se non dai Tartari. Suppongo che in ciò il bilinguismo, inteso nel senso “buono” di risorsa e apertura espressiva, giochi un suo ruolo non secondario – naturalmente stendendo un velo sulle spicce miserie e amenità cui una maldestra gestione di questa ricchezza può dar luogo nella prassi mediatica e politico-amministrativa.

Insomma, ritengo che fare lo scrittore qui sia un po’, ma solo un po’ peggio che esserlo a Torino. E un po’, ma solo un po’ meglio che a Gallarate (dove, detto di passata, sono nato; e vissuto nel mio primo mese).

 

Bene, Guido Conterio da subito infrange uno dei tabù che mi porto addosso: quello di non riuscire a collocare esplicitamente il luogo in cui abitiamo, con tanto di toponomastica e riferimenti ad aspetti (il bilinguismo) su cui gravano condizionamenti politici e ideologici che ne alterano il gusto. Ora, grazie a lui, sapete di che cosa esattamente stiamo parlando.

 

IO Io la vedo in modo un tantino più pessimistico, Guido: nel senso che a me pesa questa lontananza da tutto e da tutti, mi dà una sensazione di vita di periferia al quadrato da cui provo a uscire o con i mezzi di locomozione o, soprattutto e con maggiore efficacia, con la tessitura di una rete di rapporti sulla rete che qualche frutto in questi anni lo ha dato, e che ha attenuato la mia sensazione di essere tagliato fuori. Certo, hai ragione, ogni confine può essere visto come porta, aperta o chiusa, che blocca o che invita ad andare oltre. E ogni confine, aggiungo, può essere in realtà percepito come un centro di qualcosa, una volta cambiate certe coordinate (magari ci torneremo su).

Hai accennato ai vantaggi del bilinguismo. E anche qui ti do ragione, a patto che, per dare un senso al francese che abbiamo imparato (per obbligo) a scuola e coltivato poi (volontariamente) per conto nostro, non rimaniamo a cincischiarlo tra le nostre quattro montagne senza saper che dire, ma ci affacciamo davvero verso la Francia o la Svizzera francofona, a vedere che succede al di là delle Alpi, quali libri si pubblicano, quali autori stanno emergendo, quali sono i temi del vasto e invidiabile dibattito culturale. Il problema è: quanti di noi lo fanno davvero, quassù? Pochini, temo. I più si limitano a praticare quando proprio devono il francese come routine (di inconfessabile scomodità) traducendo mentalmente dall’italiano, attorno a questioncelle localistiche di scarso rilievo. Di fronte a questo, l’unica via di salvezza mi sembra sia utilizzare il francese esclusivamente con i francesi, ignorando il parlottio di casa nostra.

 

GUIDO  Permettimi però di spezzare una lancia in difesa del microcosmo dei nostrani studi localistici – o dovremmo piuttosto dire mare magnum: una dimensione autoriale assai vezzeggiata quassù, nella quale davvero si trova di tutto, dalla ricerca di qualità, o addirittura provenienza, accademica all’imbarazzante improvvisazione di qualche dilettante vanitoso. Eppure in questo fervore certo un po’ ridondante e caciarone di indagini e diatribe legate al territorio (specie se “compitate” con qualche impaccio in quella delle due lingue che si teme soccombente) colgo un valore e una ricchezza, anche semplicemente umana, che forse in altre “province” non trovano occasione di affiorare, o almeno non nella stessa misura.

 

IO Ma (cambiando solo di poco argomento) tu, Guido, da scrittore, come usi la provincia? E come te ne liberi quando scrivi? O come la sfrutti come tema, o sfondo, in ciò che scrivi? Io ce la sento (non è una critica, bada): è quel colore sempre un po’ demodé, quell’inflessione gozzaniana, quel comportamento compito e cerimonioso dei personaggi, che a volte esplode o implode in eccessi fino a quel momento tenuti a bada, anche quel tuo tenerli chiusi in ambienti angusti, in modo che discettino e spacchino il capello in quattro fino allo sfinimento – tutte cose che riconosco perché le sento connotare anche ciò che scrivo io.

 

GUIDO Alla domanda hai risposto in buona parte tu stesso, centrando il clima dei miei romanzi; il che mi fa assai piacere, perché significa che almeno un lettore attento l’ho trovato.

È vero, mi piace sfruttare la provincia come sfondo: sia esplicito, come in Nirvana Falls, romanzo in cui ho messo alla berlina le trafelate iniziative di un’improbabile associazione culturale fondata in un paesone interamente assorbito dal turismo balneare, sia implicito, come ho fatto praticamente in tutti gli altri (penso in particolare a Fosca bis e a Incanto e guarigione), portandone vizi e virtù all’interno stesso dei personaggi, al di là delle ufficiali coordinate di ambientazione. Donde l’inflessione gozzaniana di cui parli. Ma (sempre si parva licet) io scomoderei anche Roberto Bolaño, un autore che sta prendendomi molto negli ultimi mesi, la cui dolente vena grottesca non si pèrita, laddove la partitura lo richieda, di profondere umori e tic tipicamente provinciali anche nel cuore di Città del Messico.

Tutto ciò, forse, viene a dire che vi è una provincia perenne (e ubiqua) esattamente come un romanticismo perenne, al di là entrambi di storia e geografia: risorse, o se vuoi tentazioni, insite nell’inconscio umano, dalle quali non ci si libera con l’atto catartico della scrittura – e in fondo credo sia meglio così. Altro discorso è sgrossarsi dei vincoli e frustrazioni che il dimorare lontano dai grandi centri che danno il “la” alla cultura comporta per un intellettuale – di fatto o di desiderio che egli sia. Ciò inerisce però a un piano, direi, pratico: vuoi psicologico e formativo, vuoi banalmente promozionale (se non ricordo male, al giovanissimo Aldo Busi che, cameriere di un bar di Milano, timidamente si era accostato a un tavolo di redattori della Adelphi esponendo le sue più che legittime ambizioni di scrittore, uno di quelli fece presente prima di tutto l’inadeguatezza del borgo natio di Montichiari a favorirgli la carriera). E sulla necessità di “uscire” ti do ragione al cento per cento. Anzi ti invidio, perché dimostri un metodo e un’energia di cui mi sento sprovvisto. Forse per i quattro anni in più che porto sulla groppa?

 

 IO In realtà, per quanto candeggi, la provincia me la sento sempre addosso come una specie di appiccicume. Ne soffrono anche i miei personaggi, come di una specie di miopia da affaticamento, di inerzia smaniosa. Se ne colorano pure gli ambienti, sempre chiusi, opprimenti come stanze sbarrate, anche quando mi decido a mandare a spasso i personaggi: sono paesaggi che in realtà si rivelano estensioni della provincia, proiezioni in pianura delle località di montagna, anamorfosi di qualcosa di fin troppo familiare. Così avviene addirittura nell’ultimo, A gran giornate, nonostante gli intenti picareschi. Ma pazienza. Non so se sia un male o un bene, ma certo quel cosmopolitismo a cui aspiravo mi pare sempre più difficile da raggiungere (parlo di orizzonti letterari, ora, non di contatti miei, quella per fortuna è un’altra storia). Si potrebbe anche, per consolarsi come altri già hanno fatto, dirsi che in fondo tutto è provincia, tutto è confine di qualche cosa, e che il centro è sempre altrove, per tutti – o, cambiando angolo prospettico, che il centro è ovunque, e tutti ci siamo dentro. Sarebbe una bella conclusione, incoraggiante e non priva di una sua solennità.

 

Finiti i croissant metaforici, esauriti anche gli argomenti che ci stavano a cuore, Guido Conterio e io decidiamo di interrompere qui la nostra conversazione. Ma nei giorni di provincia, che scorrono, com’è noto, più lenti, ci sarà il tempo per tornare, prima o poi, sulle questioni che ci siamo palleggiati. 

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