Cronache americane / 3

di in: Paesologia

Cherry blossom sul Potomac (fotografia di Francesca Andreini)

La primavera, da queste parti, si distilla piano piano, ogni giorno di luce un minuto in più, una frazione di grado, un boccio su un ramo secco, un tono di verde nel giallo dei fili d’erba.

Gli umori ricchi e caldi ancora celati nelle piante e negli animali.

Tutto si muove lento, gli scoiattoli zampettano qua e là timidi, sul terreno duro, e corrono a rintanarsi. Le lepri saltellano torpide nell’aria che ancora soffia di fresco e di netto. Senza odori, quasi senza suoni.

Tutto in potenza ancora, si disvela piano piano.

Eppure è già lì, da qualche parte. C’è e non c’è. Esiste in una possibilità che sicuramente si esprimerà. La primavera dentro i tronchi ancora spogli dell’inverno.

 

Io, nei primi giorni di primavera da calendario, arrivo giusto alla macchina e apro lo sportello con le giunture fesse e la muscolatura senza tono. Non sono un tasso e neppure un ghiro, ma in qualche modo il mio letargo l’ho attraversato. Una specie di inverno a occhi chiusi e marce basse, vapori di scappamento i pensieri, che fumigavano fuori dal cervello, lenti anche quelli.

 

Gli uccellini si rallegrano per i raggi di sole, per i tepori fugaci. E canticchiano, saltellanti, su cacce e amori.

 

Io avvio l’auto e mi dico che avrei anche potuto camminare, in fondo. La primavera sta arrivando, che diamine! Un po’ di moto non mi farebbe male… vado sotto i limiti di velocità e guardo un po’ trasognata il mondo, di traverso.

 

Guardo questo trascinarsi lento e inesorabile ma invisibile e appena intuibile di trasformazione. Com’era accaduto nell’autunno, in quell’estenuante propagarsi di colori sulla natura circostante.

Ma lì c’era il godersi gli ultimi resti delle glorie estive. Quel rallentamento aggraziato e dolce che ti preparava al peggio quasi senza farti soffrire.

Qui ci sono gli sgoccioli di una stagione fredda e buia che sembra non voglia mollare la postazione. Persa ogni fascinazione di candore e di pericolo che dava la neve rimane questo strascico lungo, il mantello grigio e pesante della stagione finita che se ne esce lentamente di scena.

 

Io, nell’abitacolo freddino della mia auto, dopo tutti questi mesi di guida automatica,  cerco ancora il cambio con la mano e sgasso senza senso sulla folle.

Mi vengono in mente le mie parti.

Quel sentore languido e improvviso in un risvolto insolito, nel ghiribizzo di un vento tiepido che di colpo porta odori umidi e dolci. Le rondini arrivano e stridono, ogni nido esplode di cinguettii, i bocci germogliano e si aprono, si espandono profluvi di colori e profumi  giù dagli alberi e su dalle siepi.

 

Qui, nel Maryland, mi chiedo se sia il caso di mettere un po’ di riscaldamento in macchina. Poi rinuncio perché il tragitto è breve. Accendo la radio, invece, e lascio che i suoni esotici delle pubblicità americane mi colpiscano le orecchie. Piene di rumori lunghi e scoppi, risate, slang, mitragliate di paroline che non conosco.

 

In Italia, a quest’ora, ci sono giornate lunghe di luce già forte, già calda sulla pelle e dentro i pori che scivola fino a solleticare idee improvvise. E così si innestano,  sulle solite impressioni abitudinarie, desideri insensati di oltre, di nuovo, di impensato. Desideri così forti e strani da essere scambiati per fastidi.

E giù, tutti a lamentarsi che il caldo colpisce, improvviso; che si suda, si dorme male, si dorme meno, l’ora legale stranisce gli umori…

 

Quanto si lamentano bene, gli italiani. Di tutto, di ogni cosa. Non è una vera protesta. Come si può protestare contro la natura stessa? Piuttosto un modo naturale, congenito si direbbe, di esprimere il fatto stesso di essere vivi e, in quanto tali, destinati a quel sottile dispiacere continuo, quel sentire i propri desideri spostati, defraudati, disattesi dal mondo. Chissà che si aspettavano, gli italiani. Un’estate lieve e continua. Una brezza flautata di cinguettii e raggi delicati di luce perfetta ogni momento dell’anno….

E sorprese, stimoli, cacce eterne a prede eternamente nuove, soli mai visti e doppie lune, facce che cambiano sui corpi delle solite amanti…

 

Di sicuro, fra un lamento e l’altro, gli ormoni saltellano dentro le persone, le aggrediscono e le stordiscono di pensieri impudichi. Si guarda, si annusa, si cammina con occhi più vispi e fianchi più tondi. La pelle sbrilluccica, ancora bianca, fra gli abiti di colpo leggeri.

 

Qui, anche, c’è gente che ha deciso di girare in maglietta. I nostri vicini tedeschi per primi, sono già lì con le carni pallide in mostra e la solita espressione indurita dalla forza di volontà.

E noi, come sempre, infagottati oltre ogni ragionevolezza ce la godiamo fra i venti che volano bassi a mordicchiare ogni centimetro scoperto, alle sette e mezzo del mattino.

Ci vengono anche i nasi e le guance rosse e ghigniamo maligni pensando a come soffriremmo se fossimo lì per strada conciati come loro.

Piccole bieche osservazioni di chi non ha niente da fare, alle sette e mezzo del mattino, mentre aspetta l’autobus giallo della scuola. Ogni scuola con la sua fermata a poca distanza l’una dall’altra. E il traffico lento e regolare che scorre tutto in una direzione.

La sera poi riscorrerà in quella inversa.

Ci sono solo la monotonia delle tante corsie lente e i dentini di vento sui centimetri di pelle scoperta, a quell’ora la mattina. Allora anche le facce un po’ livide dei vicini tedeschi diventano un divertimento.

 

Adesso è pieno pomeriggio, c’è luce nitida e accenni timidi di primavera. Senza profumi, senza brulichii, senza ronzii. Primavera asettica.

Con questi bocci qua e là, appesi ai rami secchi, che ti fanno sentire in un dipinto giapponese del settecento, invece che in una strada nel primo pomeriggio dell’America dell’Est.

 

Il pulmino giallo sbuca dietro una curva lontana e poi procede lento nella corsia del rientro. Si avvicina, accende i fanali sul tetto, accosta, apre le porte.

Scendono una per volta tre paia di gambe, tre facce colpite dalla luce improvvisa, tre teste fiacche che camminano un po’ piegate fino alla macchina.

Io cerco la voce e estraggo un sorriso, prendo una cartella, dò un bacio. Faccio domande a cui seguono risposte sforzate, nello stordimento che viene dopo la scuola. Poi mi rimetto al volante e taccio. Rispettosa della fatica altrui, mi lascio andare alla mia.  Guidano guardo fuori, la natura che fatica nella muta.

 

“Mamma, i miei amici a scuola dicono che c’è Dio. E’ vero?”

 

La primavera lenta e le domande difficili…

 

Ancora la mano sul cambio che non c’è e i giri del motore incongrui con i miei piedi, le abitudini e i pensieri inadeguati a dare risposte.

 

“Guarda, amore, uno scoiattolino!”

 

“Anche Paolo, a Roma, diceva che c’era Dio e che se faceva il cattivo lui lo sapeva e gli dava le punizioni”.

 

“Le punizioni?”

 

“Sì.”

 

Ci sono madri che non si stancano. Non hanno le primavere lente e la mente non gli si intorpidisce mai. Risposte pronte, anzi anticipate.

E l’ardire di lanciare sulla testa degli innocenti altri spaventi, come se non bastassero quelli della vita…

 

“Vedi… io… credo che Dio esiste, in un certo modo. Cioè… ad esempio, esistono i numeri?”

 

“Sì…”

 

“Però non è che ci sono. Cioè, non è che c’è in giro il signor uno e non ho mai visto zampettare intorno un piccolo due o roba del genere, no?”

 

“E Dio?”

 

“Ecco… noi abbiamo inventato i numeri per indicare delle cose che ci sono utili. Ci servono a spiegare delle idee, capisci?”

 

“E Dio?”

 

“È come i numeri… è il nostro modo di indicare i fenomeni che formano la nostra vita. E quella dell’universo. Insomma… Dio è il nome che diamo alla forza che ha creato la terra, e la natura, e tutti gli uomini. E all’evoluzione delle galassie e delle stelle prima ancora. Tutto questo lo chiamiamo Dio…”

 

È più o meno la terza volta che la mamma si trova a confondere le idee alla propria prole. Più o meno sempre alla stessa età, con le stesse domande e la stessa espressione sulla faccia. I bambini sono programmati. Ti chiedono del sesso a quell’età, della morte a quell’altra e di Dio a quell’altra ancora.

È la terza volta che la mamma vede lo sguardo del figlio puntare su un intreccio di parole senza senso e sulla delusione di avere una mamma che non le canta chiare come quella di Paolo. Dio c’è. Ti vede e ti giudica. Una specie di nonno bisbetico, che magari ti tira pure il bastone sugli stinchi, di tanto in tanto.

 

Anche la mia, di mamme, ha sempre avuto questa visione cupa di Dio. Un tipo bizzarro e sadico che si è inventato un universo basato sulla crudeltà. La natura una specie di immane tritavite che si rimescola e ripiega all’infinito su se stessa macinando carne umana, animali, piante, minerali in un’incessante trionfo di morte e distruzione.

Mia mamma non si lamentava delle stagioni, ma di Dio sì. Una pletora di rimostranze e scontenti, una specie di quaderno dei dolori, delle ingiustizie che Dio causava al mondo con il suo improvvido, cieco dominio.

Quasi quasi c’era da far la rivoluzione, a sentire mia mamma, contro questo tiranno odioso.

 

Siccome ho visto mia mamma trafitta tutta la vita dalla rabbia per le pene che affliggono gli esseri umani, ci ho ragionato parecchio e ho deciso che no, quella spiegazione non andava bene. Me ne sono fatta una meno dolorosa in cui il meccanismo di cui sopra non deriva da una mente perversa ma da un’irreversibile, immanente, incomprensibile mistero di energia da cui non ci possiamo chiamare fuori. Perché ci siamo immersi fino al collo.

 

“Dio, in realtà, siamo anche noi.”

 

Ecco, la stoccata finale.

Il bambino di solito qui mi guarda di sbieco e non risponde al mio sorriso timido.

Quest’ultimo figlio, però, ha la capacità di fermare la mente dove più gli interessa e di mandare a quel paese tutto ciò che vede e sente che non rientra nel suo modo di pensare. In questo caso si deve essere fermato ai discorsi sull’universo e chi ha fatto la terra ecc. ecc. perché mi guarda, per niente deluso, e mi fa:

 

“Allora Dio è molto più magico di Babbo Natale!”

 

E io rido e sospiro di sollievo. Era tanto semplice, perché complicarsi la vita?

 

“Certo, molto di più!”

 

Se avessi un quarto figlio, non mi coglierebbe più impreparata.

 

“C’è Dio, mamma?”

 

“Certo, amore. È un tipo più magico di Babbo Natale, ma molto di più, che ha fatto tutte le cose e tutto il mondo e gli animali e le persone.”

 

E la chiuderei lì sperando che passi ancora qualche anno prima che su questa domanda si innesti l’infinito gioco del perché. Quella catena insistente e spietata in cui i bambini si affrettano a correre verso lo snodo successivo, ti incalzano verso la ricerca di un senso legato a un altro in una consequenzialità vertiginosa. Ma dove si arriva presto a un punto in cui anche la mamma di Paolo, immagino, riesce ad avere qualche esitazione.

 

Siamo arrivati davanti alla nostra casetta americana, intanto, e io accosto al nostro pratino e parcheggio la macchina. Ma non faccio in tempo a spegnere il motore che il mio piccolo è saltato giù dalla portiera e corre verso la porta di casa, sbatacchiando la cartella sulle gambe mentre corre.

E Dio, all’improvviso, è un tipo strambo e simpatico, che sgorga in ogni angolo dell’universo, si trasforma e si espande, esplode, sprizza, calcifica, cristallizza, muore, torna su se stesso.

Germoglia sui rami, sgorga in canti dagli uccelli, si stende in un pratino bruciacchiato dal ghiaccio, ci saltella sopra con la cartella che sbatte sulle gambe. Chiude la portiera della macchina con un tonfo debole e gira la chiave nella toppa con un sospiro di leggerezza.
In casa cancello i pensieri e mi preparo una moka. Aspetto con quel misto di impazienza e torpore che mi prende sempre mentre il caffè si decide, ritroso, a salire verso la superficie. Sto lì e guardo le bolle marroni della schiuma schizzettare fuori dal metallo, quando un frastuono improvviso mi fa sobbalzare. Come di un corpo che ha deciso di stramazzarmi nell’ingresso di casa. Seguito dal fracasso di un oggetto di metallo che sbatte.

 

Chiudo il fornello e sospiro.

Hai voglia a vivere in America, non mi ci abituerò mai a questo arrivo improvviso della posta.

Verso il caffè nella tazza, e aspergendo i miei passi con l’odore acuto della bevanda calda mi avvio alla porta. Eccolo lì, il mucchio di lettere, brochure, buoni sconto, pubblicità. Lo raccolgo con un abile gioco di equilibrio fra la tazza e il cartaceo, e porto tutto in cucina. Mi siedo, suggello un poco di caffè, sospiro e mi avvio a ripetere il rito della posta, che devo mantenere vivo almeno una volta al giorno se non voglio accumularne tanta da non trovare più il coraggio di metterci le mani

 

Allora.

Un paio di bollette (arrivano una volta al mese, qui, insieme a una busta dove devi mettere l’assegno con il corrispettivo dovuto), abbonamenti vari dei precedenti inquilini che, essendo lei americana, si erano abbonati a una quantità notevole di cose: teatri, case d’asta, riviste dove comprare abiti via posta, riviste dove comprare oggetti per la casa via posta, riviste per il giardino, l’auto, i mobili, le decorazioni di pasqua e i regali di Natale.

Faccio un mucchietto a parte, di tutte queste utili comunicazioni, preparandole per il macero. Poi passo alle pubblicità.

Fogli e fogli e fogli con proposte per: squadre di solerti domestiche peruviane che vengono a pulirti casa con un sorriso (infatti si chiamano “Merry Maids”), giardinieri provetti che ti fanno il giardino meglio di Versailles, spazzacamini competenti forniti di spazzoloni di misure che non avresti mai immaginato esistere, pizzaioli napoletani veraci che fanno pizze con aglio e ketchup proprio come in Italia, riparatori di scarpe, lavanderie nei paraggi, idraulici e corniciai. Faccio un altro mucchietto, bevo un po’ di caffè e proseguo.

 

I bonus. Un mucchio che arriva oh quanto spesso e che non mi sento di buttare via così come sta perché in effetti, una volta, ho usato quello di una società che controllava le caldaie e mi hanno fatto lo sconto. Era indispensabile, fra l’altro, al mio istinto di sopravvivenza, far verificare almeno una volta nella mia esistenza americana l’enorme caldaia che occupa un’intera stanza del seminterrato. E che sta lì giorno e notte a sbuffare e tremare, accendersi e arrestarsi con colpi improvvisi e tubi, ingranaggi, valvole e meccanismi misteriosi ai quali non mi avvicino mai volentieri. Che venissero a controllarlo, questo Moloch che mi tengo in cantina, certo! E li ho pagati pure un sacco, questi che sono venuti a dirmi che tutto andava bene e che non c’era da preoccuparsi di niente. Lo so che il buono sconto in realtà era già incluso nel prezzo, ovvio. Ma siccome tutte le aziende che controllano le caldaie alzano i prezzi e fanno i buoni sconto ti devi piegare all’uso. Quindi ho consegnato soldi e bonus all’addetto caldaie, ho chiuso la porta della cantina dietro di me e, questa volta, ho potuto tranquillamente ignorare lo stantuffamento e lo schiocco con cui la macchina, alle mie spalle, ha salutato la mia partenza. Tanto, è tutto a posto.

 

Allora scorro velocemente il nuovo stock di bonus per scoprire quello che già sapevo: non mi serve niente.

Resisto alla tentazione di iscrivermi a un corso di Ji-gong solo perché ci sono 50 dollari di sconto sul primo mese e metto anche questo mucchio di carta sul tavolo. Finisco la tazza e guardo gli avanzi di questa orgia postale, che mi lascia sempre un po’ stordita e perplessa. Come mai questo bombardamento? Perché questo rovesciarsi continuo di carta e cartoncino, riviste, dépliant sul pavimento? Cos’è quest’ossessione di raggiungerti nello spazio più intimo, di infrangere con tutte queste proposte il tuo sacrosanto diritto di startene in pace a casa tua?

 

“Qui però non ci sono le pubblicità per la strada”

 

mi fa notare la figlia più grande. E ci rifletto e penso che ha ragione. Ecco cosa mancava… ecco da dove viene questo senso di nitore, di pulizia lungo i marciapiedi e le autostrade, le strisce d’asfalto negli abitati suburbani. Niente cartelloni, niente pannelli e tantomeno poster appiccicati sui muri. Niente nel modo più totale.

 

“E anche a Washington è così; non ci hai mai fatto caso?”

 

dice sempre la figlia. E penso che è proprio vero, nemmeno lì c’è pubblicità stradale.

 

“Prima sapevo sempre cosa c’era al cinema, non dovevo cercare i film. Ora mi tocca guardare su internet…”

 

E certo, è questa la differenza. Noi camminiamo e veniamo informati, ogni passo che facciamo, sull’ultima proiezione, l’ultimo profumo, l’ultima svendita.

Il percorso dal panettiere a casa, e sei un uomo pieno di sapere.

Qui, invece, la conoscenza deve consumarsi con un rito iniziatico, nell’intimo del tuo luogo segreto, aprendo, sbustando, leggendo in meditato silenzio. Certo. Mi torna. È in linea con il luogo e i temperamenti, questo gestire il marketing nello spazio domestico. Con un messaggio tutto sommato sotto tono, da produttore a consumatore, e slogan quasi infantili, a confronto dei nostri illustratissimi cartelloni stradali. Le “cameriere gioiose”… che tenerezza. Qui c’è una certa pacatezza del linguaggio a cui ci si abitua presto e che fa dimenticare l’urlio continuo delle nostre parti.

 

Alla fine dell’estate c’era stata quella grande manifestazione dove ero andata, insieme a tutta la famiglia, e che mi aveva sorpreso proprio per questo. Per i toni sommessi.

Intanto l’argomento: “contro la stupidità dell’esagerazione”. Che meraviglia.

Migliaia e migliaia di persone sfilavano per i grandi prati del Mall, nel centro della capitale, proprio in quello spazio fra il Campidoglio e il monumento a Lincoln coperto di prati, immenso e alberato, dove i giovani di qualche decennio prima avevano sfilato contro la guerra in Vietnam. Dove Martin Luther King aveva trasmesso i suoi sogni alle folle. Quello spazio visto tante volte nei documentari, coperto di masse di capelloni e volti ispirati, di poliziotti a cavallo con le facce truci e cartelli, mani levate, applausi.

 

Io mi aggiravo con l’aria beata e elettrica di chi si sente parte di qualcosa di vasto e rituale, guardavo le facce, cercavo gli occhi, sorridevo. Avrei voluto comunicare con tutti e dire: avete ragione, abbiamo ragione. Basta con la stupidità dell’esagerazione, per tutti i numi! Gridiamolo forte!

Ma poi sono resa conto conto che era proprio il contrario del gridarlo forte, che avevo intorno.

 

“Ho lasciato le iperbole a casa”

 

diceva un cartello, e dava il tono. Non che fosse roba da intellettuali snob, però. C’era gente con le camicie a scacchi dei boscaioli, c’erano avanzi alternativi del sessantotto e signore con la messimpiega. Padri di famiglia che avevano lasciato il suburbio residenziale per l’occasione e avevano l’aria sana e un bambino attaccato ad ogni mano. C’erano easy rider con i giubbotti di pelle pieni di teschi e le basette lunghe fino al mento. Un gruppo di rasta con i tamburi, uno di Hare Khrishna. E molti impiegati di DC, che avevano lasciato l’i-pad a casa, oltre che l’iperbole, e si aggiravano pallidi e decisi per manifestare pacatamente il proprio dissenso.

Io mi sono fermata a chiacchierare con un passante, dall’aria molto civile e informata, che osservava la folla con una bicicletta accostata a un fianco.

 

“Ma contro cosa è, esattamente, questa manifestazione?”

 

“Contro i toni esasperati della comunicazione in generale.”

 

Mi ha risposto, pacatamente, quello.

 

“Contro le distorsioni della realtà a cui assistiamo ogni giorno nell’informazione, nella pubblicità, nello spettacolo. E soprattutto contro i toni impossibili di questa ultima campagna elettorale, una vera vergogna.”

 

Io ho annuito, mi sono detta comprensiva e allineata alla protesta.

 

“Certo, è vero. Una vera vergogna i toni accesi che si sono usati finora.“

 

“E purtroppo è un male comune, non solo degli Stati Uniti… tu da dove vieni?”

 

Dall’Alaska, avrei voluto dire, ma invece poi ho confessato, a mezza voce, che sono del Bel Paese. Il tizio, gentilmente, si è limitato a ridacchiare e a dire  “beh, sai di cosa parlo… “ poi ha infilato la bicicletta e con uno “stammi bene” è pedalato via.

 

E io ho ricominciato a vagolare per quella pacifica massa semovente di persone. Travestite, molte, con maschere di ogni foggia e slogan pacati contro gli slogan forti.

Avrei potuto galleggiare ore ed ore, in questo mare di proteste, senza stancarmi di sentirmi così tanto d’accordo, per una volta, e senza riserve.

 

Ma i figli erano stanchi, il marito soddisfatto, i piedi fuori allenamento. E allora ho lasciato l’ondivaga e rassicurante presenza della manifestazione per tornare a casa.

Chiedendomi, durante il percorso, di cosa mai potessero sentirsi così indignati, questi bravi cittadini. A me sembrava che qui tutto si svolgesse in una specie di istituto per educande, rispetto al berciume da piazza del mercato delle mie parti.

Qui dove Obama è sempre President Obama. E qualunque tizio venga citato sulla stampa è almeno Mr Tizio. Dove pochi giorni fa le parolacce gridate da un nostro Ministro della Repubblica contro gli Onorevoli Deputati del Parlamento sono state riportate sui giornali con la dicitura: “frasi che non si possono scrivere su un giornale”.

Qui dove sicuramente c’è del marcio in politica ma è tutta una cosa di lobby e accordi semisegreti, incontri, inciuci ad alto, invisibile livello. Dove l’apparenza mantiene il garbo del civile vivere comune. Dove un esponente politico di spicco, giovane rampante dalla promettente carriera in costante ascesa, si è dimesso per una foto a torso nudo che l’amante mollata aveva fatto circolare su internet. Solo questo. Quasi ci vien la tenerezza, a noi italiani, per un pollo così…

 

Il caffè si è ormai freddato. Me lo bevo lo stesso, in un colpo, per finire di tirarmi fuori dai ricordi. Prendo il mucchio enorme di posta inutile e lo getto nella busta per il riciclo della carta. Metto la tazzina sporca nel lavello, la sciacquo. Poi, come ogni volta, riapro lo sportello, ritiro fuori la busta gonfia di cartacce e vado a ripescare le bollette da pagare che, per sbaglio, ho buttato con il resto. Prima o poi mi taglieranno la luce…

 

“Mamma, come si chiamava quel sito per vedere i cinema?”

 

Ce ne sono diversi, di siti. E pochi cinema ma con tante sale ognuno. Con dentro uno sconvolgente odore di pop corn che stordisce appena entrati. Ma, più ancora dell’odore troppo dolce e burroso, quello che colpisce nei cinema americani è la piattezza della programmazione.

Commedie  americane. Colossal americani. Film indipendenti americani. Docufilm americani. Film di denuncia americani.

Sui muri dei multisala la programmazione è strettamente autoctona.

 

“No, guarda, c’è un film francese…”

 

Ci siamo detti, una volta, io e mio marito. Ci siamo avvicinati speranzosi e abbiamo visto che in effetti il film francese c’era. Però parlava delle sorti delle genti del centro America, guarda caso.

 

“Guarda, anche quello è straniero…”

 

Ma con un protagonista americano.

 

“E quello…?”

 

Il regista.

La storia.

La location.

La produzione.

 

Insomma, qualcosa di americano qui ci deve essere, sennò il film non passa.

Unica eccezione, i film candidati all’oscar, o quelli che fanno così tanto botteghino che non si possono evitare.

 

“Beh, del resto anche la musica, qui, è tutta americana.”

 

Ha continuato il consorte. E questa frase, detta da un appassionato della storia del rithm’n blues, del jazz, del rock, mi ha colpito.

Ci ho pensato e mi sono resa conto che era vero. Qui è tutto cantato in inglese. Ci sono i classici del rock che mi facevano tanto mito da giovane e che ora, ascoltati ad ogni ora del giorno e della notte, suonano un po’ triti. Oppure hit da ballare. O Adele, strabordante su ogni frequenza.

Come per il cinema, anche per la musica se non sei americano devi avere lo stile, o il nome, e senz’altro la lingua di qui, sennò non ti trasmettono.

 

“E nemmeno quotidiani stranieri, si trovano. Non te n’eri accorta?”

 

“Ma davvero?”

 

“Davvero.”

 

“In tutta Washingotn?”

 

“E dintorni.”

 

“Ma è la capitale degli Stati Uniti… non è possibile!”

 

La stretta di spalle mi ha reso eloquentemente la situazione. Qui non ci sono giornali stranieri, questo è quanto.

 

“Mamma ho fissato il cinema con gli amici sabato sera, mi accompagni?”

 

Rassicuro mia figlia sulla mia disponibilità e mi metto a lavorare al computer. Ma in testa continua a ronzarmi la questione dei film, delle canzoni e dei giornali americani finché mi sorge una domanda: e la televisione?

 

Presa da amore di ricerca, mollo la scrivania e mi metto davanti alla TV. Non ne sono una conoscitrice, mi sono persa anni e anni di programmazione a casa mia e da quando sono arrivata qui non ho certo cambiato abitudini.

Però devo indagare, devo scoprire… e via di telecomandi e infinita pazienza mi metto a scorrere su e giù e in largo e in tutti i sensi le centinaia di canali che mi ritrovo sul cavo.

 

Ci sono reality di gente che va a comprare la casa. Di donne che fanno la dieta. Di poliziotti che inseguono i ladri. Di alcolisti che si disintossicano. Di alcolisti che si ubriacano. Di Minorenni ragazze madri. Di coppie che preparano la cerimonia di nozze. Di casalinghe vicine di casa che si odiano a morte.

E serie TV su cadaveri scientificamente sezionati, su cadaveri misteriosi, su cadaveri ospedalieri, su cadaveri straziati, su cadaveri putrescenti, mutilati, compianti.

 

Mi dico che, tutto sommato, appena finita la mia ricerca in nome della conoscenza tornerò a perdermi tutte queste belle cose che mi propone la TV americana, così come mi ero persa tutti quegli anni di meravigliosa programmazione italiana.

Mi faccio forza e continuo lo zapping.

 

Ci sono le serie TV sugli amici adolescenti, sugli amici adulti, sugli amici solo neri, sugli amici solo bianchi. E quelle sugli angeli, sui fantasmi, sugli alieni, sulle percezioni, le visioni, le premonizioni, i viaggi extracorporei.

E poi, evviva! Le serie TV straniere.

Roba in spagnolo, telenovele dai colori spenti, con i protagonisti rigidi che parlano a minuti interi di grandi passioni senza muovere un dito.

Boh. Mi dico. Questa non è poi tanto straniera, come programmazione, visto che gli americani ispanofoni sono ormai la minoranza più grande, l’etnia che si riproduce di più, qualcuno dice addirittura il futuro degli Stati Uniti…

 

E riporto finalmente lo schermo al suo rassicurante nero con la convinzione che anche alla tele di cose non americane non ce ne sono.

E poi mi chiedo come mai. Ci deve essere una risposta, non può essere un caso, una distrazione, una dimostrazione di maledetta superficialità.

Perché in America tutto è americano?

Poi ascolto meglio cosa ho pensato e vedo che la questione si allarga: cosa è “americano”?

Americano il nativo-americano, l’afro-americano, l’ispano-americano, l’italo-americano, l’ebreo, l’arabo, l’indiano, il wasp…?

 

“Io sono americano” lo senti dire con accenti fra i più vari e a volte quasi non lo capisci tanto è mescolato con cadenze di altre parti del mondo che con l’America non c’entrano niente.

Ma gli occhi dell’interlocutore te lo dicono, che lui non si “sente” americano. Lo è.

Dal momento che ha messo piede qui, ha avuto il permesso di soggiorno, il permesso di lavoro, il numero di assistenza sociale, ha aperto un conto, ha pagato le tasse. Non ha disturbato nessuno. Nessuno lo ha aiutato.  Lavora e va avanti e si fa la sua casa e la sua macchina e va in vacanza, e vede gli amici. Allora poi fissa chi gli chiede di dove sia e, a stento cancellando l’urdu, l’azerbaijano e lo swahili, dice convinto: “sono americano”.

 

C’è questo patto sociale semplice, da queste parti. Lavori, guadagni, consumi, paghi le tasse. Nessuno ti disturba, nessuno ti aiuta. Tanto basta per far parte a pieno titolo di questo mondo. Nessuno ti metterà in discussione. Nemmeno chi vanta trisavoli fra i primi pellegrini potrà negare la tua cittadinanza. E a te sarà facile poter dire di far parte di questa gente.

In fondo di questo si tratta, penso. Ti senti cittadino del posto di cui puoi accettare le regole del gioco. E se le regole sono così poche, larghe e chiare non ci si stupisce che accolgano tanti popoli…

“È questo che mi tormenta, sai”, dico a un amico, tempo dopo, “il fatto che nel mio paese ho sempre l’impressione che mi cambino le regole sotto il naso. Non è più quello sotto cui potevo mettere la firma. Ok, alti e bassi, macchie scure, misteri e sporcizia. Va bene, non sono Pollicino, vivo in un paese reale, antico e stanco. Ma adesso… è diverso.”

 

“Dici?”

 

“Per me. Non mi ritrovo più… mi hanno cambiato le carte in tavola e non mi hanno nemmeno chiesto il permesso!”

 

L’amico mi guarda perplesso. Non sa. Secondo lui la politica è sempre stata così. Bassa e infida.

 

“Sì, ma seguiva delle regole, no? Nel suo sporco gioco però dentro certi confini, no? E sapendo da dove venivamo, contro cosa avevamo lottato per fare una società che pensavamo migliore. Cosa ci teneva insieme, insomma.  E ora… che c’è ora? Che significa per noi, adesso, essere italiani?”

 

L’amico fa un sorrisetto sardonico. Ammiccando, con l’occhiolino, a certe recenti gesta erotico-eroiche di certi membri del consiglio. Io sospiro. Da un po’ di tempo non vale nemmeno la pena di parlarne, di queste cose.

 

Finito il pranzo me ne vado, con i miei. A piedi, perché l’amico vive vicino a noi.

 

E fuori, con la testa ancora un po’ confusa dai pensieri sulla mia e l’altrui identità nazionale, inciampo in un dosso e quasi cado. Mi fermo e impreco fra me, faccio cenno ai miei e a un passante in tuta da jogging che mi indica per capire se ho bisogno di aiuto che è tutto ok, e proseguo.

 

“Ma vi rendete conto in che stato sono le strade, qui?”

 

Mi trovo a osservare.

E i famigliari concordano.

Ce le aspettavamo lisce e ben tenute, prima di vivere qui, con l’ultimo ritrovato antiscivolo e i guardrail perfetti, la segnaletica razionale e abbondante. E invece nelle zone residenziali si cammina per strade senza marciapiedi, piene di buche e con i cavi dell’alta tensione che oscillano fra i rami degli alberi.

 

“A proposito di alberi, lo sai che al mio collega è cascato un ramo del vicino sulla casa? Gli ha distrutto il tetto.”

 

“Davvero?”

 

“E non paga nemmeno i danni…”

 

“Come, non li paga?”

 

Pare che qui casi simili siano considerati un act of god e ti arrangi. Lo stato non è responsabile. E nemmeno il vicino di casa che risparmia sulle potature.

Dio ha voluto così…

 

Perfino mia mamma si meraviglierebbe di come si possa addossare all’Altissimo veramente di tutto da queste parti.

 

Qui sono tutti molto pazienti sia con Dio che con l’amministrazione pubblica. In Italia ad esempio non andrebbe giù a nessuno quest’incrocio dove la strada a quattro corsie attraversa il parco e i poveri pedoni vengono tirati giù ogni due per tre. Allora gli mandano ambulanze in abbondanza, a volte anche i pompieri con i loro camioncini rossi e lustri. La polizia segnala al traffico che c’è un pedone mezzo morto in terra, e le auto fanno un giro un po’più largo intorno, curiosano un momento e poi proseguono. La segnaletica è scarsa, non c’è nemmeno un semaforo lampeggiante, e la notte nemmeno un lampioncino fioco. Di giorno i pedoni si affacciano guardinghi e la notte si mettono addosso delle strisce fluorescenti. Altre contromisure non ne prendono. E non si arrabbiano con nessuno…

 

“Sembra la valle degli Hobbit.”

 

Non ricordo chi ha fatto questo commento sul nostro quartiere, ma in questa stagione gli si attaglia perfettamente.

 

La primavera avanza e si cammina fra pratini tosati di fresco e cespugli sempre più fioriti.

La luce forte accende il nitore dei muri e dei tetti, dei vialetti e delle macchine parcheggiate sopra.

Perché le strade sono della contea, e piene di buche, ma le case sono dei privati e tenute al meglio. I privati sono fatti così, da queste parti: vogliono poche tasse per poter spendere i soldi dove gli pare a loro. E loro amano mettere i soldi nella casa. Ci si riempiono di debiti, per averla più bella e più grande possibile. E spesso devono ancora ripagare quelli fatti per pagarsi l’università che iniziano con quelli per la casa. Vivono gravati di debiti, gli americani. Ma con poche tasse.

 

E possono anche perdere i lavoro da un momento all’altro, non hanno garanzie.

Allora si ritrovano coi debiti a fare ancora debiti, o a finire direttamente in galera, o sotto un ponte.

Dalla valle degli Hobbit alla valle di lacrime in un soffio.

Hanno molto coraggio, a spendere tanto.

Hanno coraggio a preferire i debiti alle tasse. La libertà alla garanzia.

 

Intanto siamo arrivati alla nostra, fra le casette linde e pinte.

Che mi piace, non c’è che dire. Eppure…

Mi indebiterei per averla? Imposterei tutta la mia fatica quotidiana e i rischi, ipotecherei il mio futuro e quello della mia famiglia per possederla?

 

Ho una fantasia modesta e desideri in ritardo sulle opportunità. Mi trascino a spasso sogni tanto irrealizzabili che quelli concreti non li ho mai presi davvero tropo in considerazione.

 

No, non mi indebiterei. Vivrei i soldi per quello che mi danno, quattro muri se sono quelli garantiti. E non farei nemmeno studi da portarmi appresso come una palla al piede fino all’età adulta, penso.

Da quando il figlio della mia amica mi ha detto:

 

“Il problema è che ho studiato per avere un buon lavoro, ma ora che sono laureato, per pagare la banca, sono costretto ad accettare qualsiasi lavoro…”

 

Mi stupisco persino che i ragazzi normali, senza una famiglia straricca alle spalle, ci vadano, all’università.

Ma, come ho detto prima, io sono poco propensa agli sforzi titanici. Se qualcun altro non avesse provveduto a pianificare e realizzare una carriera nella famiglia credo che starei ancora nel mio ufficio, contenta di stare fra la gente e di uscire senza pensieri la sera. E mi sarei lasciata portare qua e là dalla sorte, credo. Magari muovendomi secondo opportunità e incontri, ma senza questa fucina di determinazione dentro.

 

Le case sono più aperte e luminose col passare dei giorni e le giornate più lunghe. C’è molta più gente che saltella e che fa cenni di saluto, in giro. Bambini portati a spasso dalle tate peruviane o dalla mamme che spingono il passeggino mentre fanno jogging. I soliti schiavi dei cani trascinati in giro in fondo a guinzagli di ogni foggia e lunghezza.

 

E intanto io sento che la solitudine non è più un tessuto del mio corpo. Un componente freddo e secco insinuato in ogni fibra. Non è più alla base dei pensieri, delle percezioni, non filtra più i singoli istanti dello scorrere della mia vita.

Non so quando né come, esattamente, ma so che anche la solitudine ha lavorato in silenzio, durante l’inverno. Ha maturato e distillato i suoi umori, ha cambiato consistenza, si è trasformata dentro di me.

Adesso l’ho persa, come la pelle di un serpente. Mi cammina accanto e sento il freddo che ne traspira di lontano. Mi segue in silenzio e ogni tanto si volta verso di me, mi osserva. Però lasciandomi libera di guardare in giro e di distrarmi. Di scordarmi anche di lei, in qualche istante, e salutare un vicino, o un angolo di strada che conosco, o il postino.

 

Via via, col passare dei giorni, il cielo si beve tutta l’aria e la forgia di un blu che pare solido da quanto è blu e terso. Gli uccelli nei boschi non sono più timidi e mescolano versi e cinguettii, strepiti e voli ad ogni ora. Mi svegliano al levar del sole, e ormai non riesco nemmeno più ad arrabbiarmi. Rimango in ascolto e mi meraviglio di quanto chiasso ci può essere, di primo mattino, in mezzo alla pace della natura.

 

Le siepi che ho compianto come stecchetti seccati dal gelo si sono trasformate come cenerentola al ballo e adesso rigogliano di fiori rosa e fucsia, bianchi e gialli davanti ad ogni casetta.  E i salici piangenti versano a terra i bocci delicati, i susini i loro petali generosi.

Il mondo vegetale, sazio di calore e polline, adesso ha prevalso davvero sulla morte che il freddo gli aveva inflitto. Sta lì, completo, e si compiace di colori, di profumi, di questa nuova luce che riverbera  forza su tutto quello tocca.

 

È come essere arrivati al compimento di quel rito che era iniziato a marzo, con la fioritura dei ciliegi. I primi alberi a farcela, a risvegliarsi e sputar fuori la vita dai loro tronchi scuri. In mezzo allo sfacelo di seccume grigio e spazzato dal vento ancora freddo che c’era tutto intorno. Come messaggeri fieri, con corolle bianchissime dalla forza quasi feroce. Hanno portato la novella un po’ qua un po’ là, nei borghi periferici, nei parchi cittadini, in poche, fortunate strade del centro.

E poi c’è stata quella quella visita collettiva, quella specie di pellegrinaggio panico a rendere omaggio ai ciliegi e alla loro immane forza. La prima, a sconfiggere l’inverno.

Tutta la città, tutti i suoi dintorni erano lì. Famiglie intere e ragazzi, single, amici giovani, coppiette di vecchi. Tutti per mano e con sorrisi un po’ stralunati. A camminare sotto i fiori bianchissimi, sotto il cielo blu, scattare foto, guardarsi intorno quasi increduli, come liberati all’improvviso da un peso.

 

E con il bisogno di condividerlo, questo momento in cui ci si accorge di essere più liberi e leggeri, e ci si vuole incontrare, guardare in faccia, camminare strusciando spalle e fianchi, chiedendo scusa, mi dispiace per il piede… e lasciando che bambini ti sbattano addosso, prestandoti a scattare le foto di gruppo ad altri gruppi, facendole scattare al tuo.

Sotto il cielo alto e sorridente che pare guardare benevolo e un po’ altero noi piccoli animalini dal sangue caldo, persi fra i petali bianchi.  E che ci refola addosso un po’ di aria fredda, di tanto in tanto, per ammonirci: guardate che ce n’è ancora in serbo…

 

Infatti c’è stata ancora tanta acqua, e acquazzoni, e pioggerella e poi ancora acqua. Negli stati del sud ci sono stati i tornado, una serie, che hanno raso al suolo migliaia di case e strappato alla terra centinaia di persone.

Nelle foto sui giornali si vedono queste distese vuote, paesaggi piatti con qualche tegola di legno ammassata qua e là e un po’ di ciarpame in giro, come se al posto di una città ci fosse un enorme cortile abbandonato.

 

Il presidente ha fatto un discorso. Il presidente si è recato sui luoghi del disastro. Il presidente ha promesso che gli stati federali forniranno assistenza.

La vedo sempre più spesso, la faccia del presidente, e mi sembra sempre più magra e asciugata. Come se l’esercizio del potere lo succhiasse da dentro, questo presidente compassato e giovane. Mi sento una cretina a provarne quasi pena. Ma insomma, alla sua età sta a capo della più grande potenza del mondo conosciuto, quel signore lungo e snello. Ha fatto una carriera imprevista e improvvisa, fulminante, invidiabile… altro che pena!

 

Poi lo rivedo ad un’altra conferenza stampa e mi accorgo che l’occhio gli brilla di soddisfazione. Ha un colpo gobbo in tasca, si vede lontano un miglio. Infatti sta lì per annunciare che poche ore prima, in gran segreto, un suo commando segreto ha portato a termine un’operazione segretissima che si preparava segretamente da anni.

 

“Osama è stato ucciso.”

 

Una nazione di cento milioni e passa di persone per un attimo si è fermata, ha infilato l’indice nell’orecchio e ha pensato:

 

“Obama?!  Ucciso?! Ma se mi sta parlando!”

 

Poi si è rimessa all’ascolto.

 

“Bin Laden, è stato ucciso.”

 

“Ah, mi pareva.”

 

“È morto insieme a un paio di mogli e qualche persona non meglio identificata. Giustizia è stata fatta.”

 

“Giustizia?”

 

Questo però ce lo chiediamo solo io e qualche altro sparuto essere che condivide con me una certa propensione alla contorsione mentale. Io e questi altri, tristi figuri ce ne stiamo perplessi con gli occhi sullo schermo e il cervello perso dietro immagini di giustizia biblica. Occhi che partono in cambio di altri occhi, denti che saltano dalle gengive per seguirne altri già nella polvere.

 

Nella mia e nella mente di questi altri pochi, la parola “giustizia” viene avanti rigida, formale e austera, paludata di toga e cappello, carica di incartamenti e libri di legge, roboante di discussioni, pareri, dibattiti. Questioni etiche vecchie millenni, norme, consuetudini, aule di tribunale…

Mentre l’eliminazione di Osama Bin Laden arriva folgorante, intrepida. Agile, salta giù da un elicottero e hoplà, compie la vendetta.

 

Ma è davvero una perplessità mia e di pochi, questa. Gli altri, in migliaia, sono in piazza, in tutte le piazze di Washington, con striscioni e grida di giubilo e segni di vittoria e saltelli di soddisfazione. Si accodano in sfilate di macchine da cui emergono facce e braccia, bandiere, grida. Hanno espressioni vittoriose, orgogliose, hanno pareggiato i conti.

 

A me mica mi stava tanto simpatico, Osama.

Però mi suona strano che si possa andare così, in un posto X della terra, da paese straniero, e senza chiedere niente a nessuno penetrare in una casa, far fuori tre o quattro persone, fra cui un noto latitante terrorista, risalire sull’elicottero e tornarsene a trionfare in patria.

Devo essere proprio una triste, depressa contorta mentale.

In fondo non sta diventando la moda del momento, andare all’estero a bombardare e massacrare per riparare i torti di qualche capo cattivo?

Basta guardare cosa succede a quel mattacchione di Gheddafi.

Persino l’opposizione questa volta, lisciandosi il baffetto, ha assentito che un dittatore sanguinario l’Onu non può permettersi assolutamente di non bombardarlo.

Mi chiedo cosa aspetti l’Onu a bombardare la Birmania, allora.

O forse baffetto e compagnia non si sono accorti delle deportazioni di massa, le torture, le repressioni cruente? Forse la Birmania è troppo lontana… forse i Birmani sono troppo esotici per farci sentire vicini alle loro sciagure?

Poi mi ricordo che lì non c’è il petrolio. Lì non ci sono commissioni di ditte italiane per miliardi di euro. E spengo il dissenso, sennò mi viene il disgusto generale e invece non bisogna mai disgustarsi in generale. Bisogna sforzarsi di fare i distinguo.

Che altrimenti il disgusto ti soffoca come vomito e ti impedisce di respirare e pensare libero.

 

Poi devo stare attenta perché adesso c’è questa gloria di luce e verde intorno e quest’aria da grande luna park che si rimette in moto. E la tristezza sento che potrebbe prendere una piega quasi dolce e struggente e scivolare intorno alle curve della primavera come uno stato morbido, da cui non si desidera più muoversi.

 

Mi mancano tanto le rondini. Le loro grida alte che sembrano raccontare di cose sconosciute, di posti lontanissimi e avventure felici. Venendo da spazi luminosi e fini, dove si incontrano vento e luce e ogni gioco è possibile, ogni sensazione libera e leggera e senza fine.